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"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia

martedì 23 marzo 2010

L'alimentazione tra natura e cultura

L’antropologia culturale insegna che per la specie umana invocare fatti di natura costituisce un’imperdonabile ingenuità (Magli, 1980). Difatti nessuna azione dei rappresentanti dell’homo sapiens può rientrare nella categoria degli eventi naturali, essendo sempre provvista di un senso ulteriore.


Questo concetto si verifica con facilità, per esempio, non appena ci si addentri nello studio di usi comuni, come per esempio l’abbigliamento. L’uomo non si copre semplicemente perché ha freddo ma sceglie i suoi abiti con intenti simbolici ancorché spesso inconsapevoli.

Lo stesso accade quando si nutre. Per l’homo sapiens l’alimentazione – oltre a dare origine ai processi metabolici della nutrizione – fa parte della cura di sé.

L’atto del cucinare è protagonista del passaggio dalla natura alla cultura (Lévi-Strauss, 1964). Convivio rimanda al vivere insieme (cum vivere). Condividere il cibo assimila i gruppi, crea comunità, istituzionalizza riti (la stessa eucaristia poggia su di un simbolismo alimentare: il pane e il vino simboleggiano il corpo e il sangue di Cristo).
I riti laici obbediscono alle stesse regole: dal cenone di Capodanno alle cene di compleanno, il cibo denota, si fa status symbol. Le mense degli aristocratici e della ricca borghesia raccontano l’evolversi delle classi sociali e rappresentano bene anche la storia naturale di certe malattie: la gotta, così diffusa nel Medioevo e nel Rinascimento presso la classe nobile, testimonia dell’incontro tra un dismetabolismo – nella fattispecie quello dell’acido urico – e abitudini alimentari iperproteiche, frutto di mense ricche di denaro e di cacciagione.
Allo stesso modo, il “primitivismo gastronomico” del barbecue, così diffuso in America, sottolinea la filiazione dallo spirito della frontiera degli antenati che conquistarono il Nuovo Mondo; laddove la nouvelle cuisine sarebbe impensabile nelle stesse lande.
Il cibo, dunque, è anche segno di solidarietà nazionale: si pensi alla pasta per gli italiani, che soprattutto nell’emigrazione vi trovavano un segno di identità, tanto da venire appellati – con una venatura di spregio razzista – maccaroni. Indimenticabili alcune sequenze cinematografiche: da Totò e Peppino emigrati a Milano con vivande meridionali al seguito (Totò, Peppino e la malafemmina, 1956) all’insuperabile a solo di Alberto Sordi che, alle prese con latte e mostarda, ripiega infine sulla familiare e rassicurante pastasciutta (Un americano a Roma, 1954).

Ci sono poi le interdizioni religiose (Harris, 1985): per esempio il divieto di consumare carne suina per i musulmani e per gli ebrei, i quali conoscono una complessa serie di evitazioni nota come cucina kasher; il regime vegetariano degli induisti, ecc…


Anche nell’occidente cristiano si osservano regole di astinenza dalla carne, come nei periodi penitenziali (Quaresima). La Regola di San Benedetto, scritta intorno al 540, suggerisce un regime tendenzialmente vegetariano: “[…] l’uso della carne venga permesso agli ammalati e a quelli molto deboli: però una volta ristabiliti tutti, com’è uso, si astengano dalla carne” (36). O ancora: “Tutti si astengano dal mangiare carne di quadrupedi, eccettuato quelli molto deboli e gli ammalati” (39).
A questo proposito, bisogna osservare che in Occidente il movimento vegetariano ha implicazioni filosofiche, oltre che salutistiche, ma non religiose in senso confessionale. Fondata a metà ‘800 in Inghilterra, la Vegetarian Society ha annoverato membri illustri, tra cui George Bernard Shaw, e professa un regime ovo-latteo-vegetaliano meno drastico di quello propugnato dai cosiddetti vegan, assertori di un vegetarismo che esclude anche i prodotti animali indiretti e il cui radicalismo rischia di esporre a deficit nutrizionali.

Da questa succinta panoramica si evince che parlare di nutrizione dal punto di vista meramente scientifico è impossibile; tanto l’alimentazione umana – a differenza di quella animale – è parte della storia delle culture ed è sempre attraversata da correnti simboliche. Anche alimenti basilari come pane, sale, vino, olio, per esempio, non possono essere descritti soltanto in base ai loro valori nutrizionali. L’invenzione del pane, attribuita agli Egiziani (Viola, 2007), rappresenta un’evoluzione fondamentale nell’uso dei cereali; l’introduzione del lievito contribuì a un ulteriore sviluppo che, per contrasto, radicalizzò l’utilizzo rituale del pane non lievitato, o pane azzimo.

Anche la storia del sale (Amirkhanian, 2001) è di grande interesse. “È possibile vivere senza oro ma non senza sale” (Cassiodoro, VI secolo). Il valore del sale nell’antichità ha molte testimonianze, oltre a questa. Per esempio, in Etiopia si utilizzavano dischi di sale come monete. Anco Marzio costruì il porto di Ostia in funzione delle saline di Ostia antica; il sale ivi estratto veniva trasportato a Roma lungo la via Portuense e da Roma verso l’Adriatico lungo la via consolare che si chiamò, per questa ragione, via Salaria. La letteratura alchemica considerava elementi basilari lo zolfo, il mercurio e, appunto, il sale. In terapia, il sale veniva utilizzato per uso interno e anche esterno, come disinfettante. Lavoisier fu il primo, nella seconda metà del ‘700, a studiare il cloruro di sodio dal punto di vista chimico. Nel secolo XIX, l’Omeopatia scoprì l’uso del sale marino come rimedio di fondo e ancor oggi Natrum muriaticum rappresenta un presidio di rilievo nella farmacopea omeopatica. Anche il linguaggio reca vestigia dell’onnipervasività del sale nella vita dell’uomo: si parla di battute salate, di proposte salaci e così via.

Il vino è talmente intersecato con la cultura dell’area del Mediterraneo che rintracciarne le origini significa immergersi nel mito: nella fattispecie nel ciclo di Dioniso, cui si attribuisce appunto il dono ai mortali della vite e del vino. Al fondamentale ruolo del vino nell’eucaristia cristiana abbiamo già fatto cenno.


“Olea omnium plantarum prima” (Columella, I secolo). Quanto all’olio di oliva (Piccinardi, 1988), alla mitologia greca – che lo racconta come un dono di Atena – fa da contraltare la Bibbia, nella quale compare varie volte, a partire dal ramoscello di ulivo portato nel becco dalla colomba che annuncia a Noè la fine del Diluvio. Svariati riti cristiani utilizzano l’olio. La moderna scienza dell’alimentazione ne fa un caposaldo della cosiddetta dieta mediterranea, mettendo in evidenza qualità nutrizionali e perfino terapeutiche riferite alla ricchezza in acido oleico – un acido grasso monoinsaturo – e in vitamina E.

Volendo concludere con qualche cenno di carattere clinico, si pensi a quanta importanza hanno le abitudini alimentari nella determinazione di alcune malattie e nella loro prevenzione e cura. Limitatamente al problema del sovrappeso, facciamo notare quanto sia importante l’orario di assunzione dei cibi, a parità di introito calorico. È stato calcolato che somministrando in unico pasto giornaliero 2000 calorie per due settimane a due gruppi di persone, al termine dell’esperimento coloro che lo avevano assunto alle 7.00 persero 750 gr., mentre chi aveva mangiato alle 17.30 risultò più pesante di mezzo chilo (Annetta e Piccioni, 2002). Si è calcolato inoltre che il senso di fame si avvicenda a ritmi ultradiani di 90’, che scendono a 60’ in condizioni di stress: il che spiega il ruolo della cosiddetta “fame nervosa” nella determinazione del sovrappeso.
Sempre per rimanere nell’ambito dei disturbi nervosi, pochi medici si ricordano di integrare le terapie con alimenti ricchi di triptofano (miele, cioccolato amaro, frutti dolci, pomodoro), tirosina (legumi, semi oleosi, lievito di birra, formaggi) e vitamine del gruppo B (legumi, cereali integrali, lievito di birra, tuorlo d’uovo).

Lo scopo delle presenti note era di evidenziare il rapporto dialettico tra gli elementi scientifici (obiettivi) e gli elementi simbolici (soggettivi e culturali) dell’alimentazione umana. Mi sembra opportuno concludere, pertanto, ricordando il campo dove tale dialettica sembra esprimersi con maggior forza: quello dei cosiddetti disturbi alimentari. Senza volere entrare in un ambito che meriterebbe una trattazione a sé, bisogna notare ad esempio che i pazienti anoressici percepiscono la propria immagine corporea in costante e irrealistico sovrappeso e inseguono un impossibile e pernicioso ideale di purezza. Mai come nel campo dei disturbi alimentari, dunque, i forti conflitti che ne stanno alla base testimoniano quanto il cibo possa costituire un “terminale simbolico” e non un semplice “carburante” di processi metabolici.

Luigi Turinese


Riferimenti bibliografici:

Amirkhanian, M.: Breve storia del sale, in “Pagine di Storia della Farmacia e Scienze Farmaceutiche”, Nobile Collegio Chimico Farmaceutico Università Aromatarorium, Roma 2001.
Annetta, A. - Piccioni, T.: Cronobiologia cronofarmacologia e cronoalimentazione, in “Farmacia 2002”, Tecniche Nuove, Milano 2002.
Harris, M. (1985): Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, Einaudi, Torino 1990.
Lévi-Strauss, C. (1964): Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, Milano 1966.
Magli, I.: Introduzione all’antropologia culturale, Laterza, Roma-Bari 1980.
Mantovani, G.: L’avventura del cibo, Gremese, Roma 1989.
Piccinardi, A.: L’olio a tavola, Giorgio Mondadori, Milano 1988.
Viola, P.: Il pane nella storia e nella fisiologia della nutrizione, in “Il farmacista 2007”, Tecniche Nuove, Milano 2007.

Pubblicato sulla rivista: esteticaMente - antiAging e Prevenzione Anno 5, n.17, 2008, pag 33

1 commento:

Daniele Capuano ha detto...

Grazie per le Sue parole.
"Il grande pericolo della vita umana è che noi ci nutriamo solo di anime" (proverbio inuit citato da Simone Weil, spero di averlo citato correttamente anch'io)


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