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"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia

domenica 2 maggio 2010

Semeiotica omeopatica - Casi clinici indimenticabili


“Si sedette davanti a un foglio di carta e provò a scrivere in colonna i nomi di tutte le donne che aveva avuto. Nel momento stesso di cominciare constatò il suo primo fallimento. Poche erano quelle di cui ricordava nome e cognome, di alcune poi non ricordava né l’uno né l’altro. […] Scrisse mezza pagina (l’esperimento non richiedeva l’elenco completo), sostituendo spesso il nome dimenticato con qualche caratteristica (“lentigginosa”; oppure “maestra” e così via) […] Pensò con invidia a Casanova. Non alle sue imprese erotiche, delle quali in fin dei conti sono capaci molti uomini, ma alla sua impareggiabile memoria. Circa centotrenta donne strappate all’oblio, con i loro nomi, i loro gesti, le loro frasi! Casanova: l’utopia della memoria. […] Per tutto il tempo aveva cullato in cuor suo la certezza di avere alle spalle una vita ricca; ma […] quando aveva cercato di scoprire il contenuto concreto di quella ricchezza, non aveva trovato che un deserto, battuto dal vento. […] Ciò che aveva conservato di ogni donna erano nel migliore dei casi un paio di fotografie mentali. […] gli erano rimaste in tutto sette, otto fotografie: erano belle fotografie, lo affascinavano, ma il loro numero era tristemente limitato: sette, otto frazioni di secondo, a questo si riduceva nei ricordi tutta la sua vita erotica, alla quale un tempo aveva deciso di dedicare tutte le sue forze e il suo talento."
(Kundera, M.: L’immortalità (1990), Adelphi, Milano 1990, pp. 331-334)



Il paragone non sembri irriverente. Quando mi è stato chiesto un caso clinico indimenticabile, ho provato lo stesso sconcerto di Rubens, uno dei protagonisti di un romanzo indimenticabile (quello sì!) di Milan Kundera: L’immortalità.

Quasi un quarto di secolo di attività clinica continua: migliaia di visite, centinaia di relative cartelle cliniche – senza contare quelle eliminate dal tempo e dai traslochi. Avrei potuto compulsare l’archivio e il materiale non si sarebbe fatto attendere. Ma mi si chiedeva un caso clinico indimenticabile, che avesse impresso un segno nella memoria del medico che sono; e che sono stato in tutti questi anni.
Tutto – come nel caso di Rubens – si riduceva a pochi fotogrammi non collegati in un film; e da uno di questi fotogrammi ho deciso di prendere le mosse, per raccontare di come l’Omeopatia – al di là della sua indubbia efficacia terapeutica – possa costituire uno strumento diagnostico formidabile, grazie ad una semeiotica raffinata e non unicamente indirizzata alla definizione di una casella nosografica.

Il caso che mi si è spontaneamente presentato alla memoria è quello di una signora circa la quale sono in possesso di una documentazione clinica che va dall’ aprile 1987 al luglio 2001. La gran parte della sua storia è ordinaria amministrazione; se non che – in due specifici episodi – si sono presentati eventi clinici la cui soluzione diagnostica è stata resa possibile a mio avviso dalla conoscenza della semeiotica omeopatica. Soluzione diagnostica, sottolineo; non terapeutica.

9 aprile 1987
Giunge alla mia osservazione una distinta signora di 62 anni che riferisce quelle che a tutta prima sembrano essere crisi vagali, caratterizzate da nausea e non meglio precisate vertigini; le crisi durano da sei anni, con variabile periodicità. La paziente è per il resto paucisintomatica, fatta eccezione per una tendenza stitica e saltuari crampi delle estremità inferiori. Evidenzio un certo grado di insufficienza venosa (varici degli arti inferiori) e una pressione arteriosa piuttosto alta, soprattutto per quanto attiene alla diastolica: 140/100. La signora è molto freddolosa e intollerante all’umidità. Sul piano psicologico si registrano una nota ansiosa e soprattutto elementi ossessivi. Tra i desideri alimentari non riesco ad evidenziare altro che una predilezione per i gelati.
L’aspetto è quello di una longilinea piuttosto astenica, con una cute molto seborroica, soprattutto sul dorso e nei solchi naso-genieni; numerose verruche seborroiche punteggiano il tronco e l’addome.
L’ anamnesi fisiologica è piuttosto regolare: menarca a 12 anni e menopausa a 52 anni, senza particolari disturbi e non trattata farmacologicamente. Ha avuto quattro figli maschi che godono buona salute.
L’ananmnesi familiare è caratterizzata dalla morte di entrambi i genitori per neoplasia, il padre a 62 anni e la madre a 56 anni. Dei tre fratelli, uno è deceduto da bambino e gli altri due sono in apparente buona salute; delle tre sorelle una sta bene, un’altra, coronaropatica, è stata isterectomizzata mentre la terza è depressa.
Nell’ ananmnesi patologica remota, a parte i comuni esantemi, si rilevano geloni da bambina; acne volgare protrattasi fino a 40 anni; a 40 anni una lunga crisi depressiva con insonnia importante; stripping della safena sinistra a 54anni; a 56 anni l’asportazione di un nevo verrucoso.

Sulla base degli elementi a disposizione prescrivo THUYA 30CH – evidentemente sulla scorta del modello reattivo e della tipologia sensibile – e IGNATIA 30CH per i sintomi attuali, che ritengo di natura neurodistonica.

11 giugno 1987
La paziente riferisce un ottimo riequilibrio; i sintomi vagali sono silenti. Da un paio di settimane, all’apparire dei primi caldi, si sono rifatti vivi sintomi di insufficienza venosa, comprendenti anche emorroidi. All’esame obiettivo è presente una spiccata dolorabilità dell’ipocondrio destro e del fianco destro.
Prescrivo un’alternanza di HAMAMELIS 5CH e di PULSATILLA 15CH, con l’aggiunta dei M.G. di SORBUS DOMESTICA e di CASTANEA VESCA; come medicinale di fondo mi attesto su di una dose settimanale di THUYA 30CH.
Nel corso del 1987, del 1988, del 1989 e del 1990 la signora sta sempre meglio; la vedo in media due-tre volte l’anno e le confermo sempre THUYA come trattamento di fondo, con poche varianti, per lo più tra i medicinali di area sicotica.
Soltanto all’inizio del 1991 riappare un breve episodio vertiginoso, facilmente dominato.
Alla visita del 16 settembre 1991 mi riferisce di aver notato feci schiumose; quel giorno la prescrizione – che avrà risultati rapidamente positivi – vede NATRUM CARBONICUM 9CH come sintomatico, accanto a dosi periodiche di THUYA 200CH e di MEDORRHINUM 200CH come trattamento di fondo.

Nel corso dei tre anni successivi – effettuando controlli sempre all’incirca ogni tre-quattro mesi – si comincia a palesare qualche sintomo intestinale minore, a tutta prima ascrivibile ad emorroidi e ad una generica irritabilità del colon, come testimonia la presenza sporadica di feci cilindriche e malformate. L’ultima visita del 1994 e il primo controllo del 1995 conducono – non a caso – alla prescrizione di THUYA e NATRUM SULPHURICUM. Nel corso della visita del 24 aprile 1995 mi riferisce di una recente tracheite catarrale accompagnata da ostruzione nasale e catarro tubarico: oltre alla surriferita terapia di fondo prescrivo HYDRASTIS CANADENSIS 9CH e KALIUM BICHROMICUM 5CH; l’obiettività toracica è negativa. La sintomatologia sembra attenuarsi; ma nel corso delle festività del primo maggio viene colta da quella che sembra una sinusite febbrile accompagnata da tosse, per la quale un sanitario consultato prescrive, senza esiti apprezzabili, antibiotici per via orale e cortisone per via inalatoria. La paziente mi rintraccia telefonicamente e – sulla base di una intuizione apparentemente irrazionale – le chiedo di sottoporsi ad una radiografia standard del torace. Ricordo ancora la sua composta reazione quando – arrivando a studio e consegnandomi le radiografie – mi annuncia di avere un tumore polmonare: in effetti, alla base di sinistra appare un’immagine inequivocabile. Immediato ricovero, TAC e lobectomia inferiore sinistra: si tratta di un carcinoma moderatamente differenziato.

Vado a trovarla in clinica e la trovo in condizioni discrete; i figli mi ringraziano per aver contribuito ad una diagnosi precoce. Devo aggiungere di aver sospettato il tumore – oltre che su base squisitamente costituzionale – anche in relazione al fatto che circa un anno prima uno dei suoi fratelli era stato operato per lo tesso tipo di tumore nella stessa sede.

La paziente riprende una vita pressoché normale, punteggiata dai controlli di prammatica coordinati da uno staff di prima qualità (si ricordi l’estrazione alto-borghese della signora e i relativi ottimi mezzi finanziari).
Nel corso dei nostri periodici incontri mi preoccupo soprattutto di tamponare sintomatologie intercorrenti – tra cui una generica dolenzia addominale talora focalizzata in fossa iliaca destra – pur senza mai dimenticare qualche dose di THUYA.
Il 15 maggio 1997 mi porta un’ecografia dell’addome superiore da cui risulta la presenza di sabbia biliare; decido di trattarla con ACIDO URSUDESOSSICOLICO, 1 capsula da 150 mg. due volte al dì. In effetti, il 30 ottobre 1997 l’ecografia mostra la scomparsa della sabbia biliare. I markers tumorali continuano ad essere in ordine, anche se la VES, che non è mai stata normale, è risalita a 55 mm. Gli oncologi si dichiarano tranquilli. Tuttavia si è ripresentata la stipsi e la paziente lamenta da un mese dolori addominali. Nel corso della visita riscontro un’intensa dolorabilità di tutto l’addome, soprattutto in fossa iliaca destra; e una sensazione difficile da riferire ma per me tangibile e preoccupante: qualcosa tra un’aumentata resistenza della parete addominale e una distensione viscerale abnorme per il suo standard. Le dico che bisognerà effettuare una qualche indagine strumentale; ma lei, di solito docile e fiduciosa, questa volta recalcitra: dopo tutto, gli oncologi sono tranquilli. Non la lascio uscire dallo studio, tuttavia, senza averle strappato l’assicurazione di sottoporsi ad un clisma opaco: il massimo che posso ottenere, dato che di colonscopia non vuole neppure sentir parlare. Grazie alla mia insistenza, nel dicembre 1997 le vengono asportati – per via endoscopica – focolai di adenocarcinoma apparsi nella compagine di una poliposi del colon traverso.
L’ultimo controllo di cui ho documentazione risale al 12 luglio 2001; mi riferisce – ultima sorpresa – di essere stata sottoposta a pneumectomia sinistra il 12 aprile 1999, per una ripresa del tumore polmonare.

Considerazioni conclusive
Pur con i limiti di una necessaria sintesi nell’esposizione del caso, e soprattutto in mancanza della visione della paziente, appare chiaro come alcuni passaggi diagnostici – segnatamente l’ultimo, quello relativo al sospetto di tumore intestinale – siano stati enormemente facilitati dall’applicazione di nozioni di semeiotica omeopatica, soprattutto di quelle relative al terreno, che nella paziente si sostanziano in una prevalenza del modello reattivo sicotico e nell’evidenza dei segni di una tipologia sensibile THUYA.
È altrettanto chiaro che – senza sottovalutare l’oggettività delle indagini diagnostiche strumentali – la profonda conoscenza della paziente mi ha consentito sospetti diagnostici che sono sfuggiti a colleghi bravi e titolati; per esempio, soltanto a chi aveva palpato quell’addome decine di volte i polpastrelli potevano restituire la strana sensazione di qualcosa che non andava.

Anche questa è la forza e – lo dico senza retorica – la grandezza dell’Omeopatia.

Luigi Turinese


In foto "Acropoli barocca"

Saggio pubblicato in SIOMI - ATTI del 3° Convegno Nazionale: "La Complessità in Medicina", pagg. 275-279, Firenze, Convitto della Calza, 5/6/7-3-2006

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