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"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia

giovedì 30 settembre 2010

Le Recensioni di L.T. - "Il cristallo e la via della luce", di N. Norbu

Namkhai Norbu: "Il cristallo e la via della luce" - Ubaldini Editore, Roma, 1987.

Figura singolare, quella di Namkhai Norbu nato cinquanta anni fa in Tibet e da venticinque residente nel nostro paese. "Scoperto" da Giuseppe Tucci, approdò all'ISMEO come ricercatore e poi si trasferì a Napoli, presso la cui Università tiene tuttora regolari corsi di Lingua e Letteratura Tibetana [l'articolo è del 1988 N.d.R]
Dal punto di vista spirituale, la sua influenza è stata ed è di notevoli proporzioni e sviluppata in una direzione del tutto originale: la pratica dello Dzog-chen, metodo di realizzazione del tutto particolare e distinto dal più tipicamente tibetano Vajrayana. Prototipo dei sentieri non graduali di illuminazione, lo Dzog-chen parte, come molti di questi, da un assunto quasi semplice: la purezza della mente originaria, che l'ignoranza offusca con la proiezione di molteplici illusioni.
La consapevolezza di questa realtà basilare viene perseguita per mezzo di un metodo basato sulla presenza continua. Come scrive altrove lo stesso Norbu, "praticare significa vivere senza distrarsi". Da questo punto di vista, lo Dzog-chen si situa al di là dei Sutra e dei Tantra: la pratica principale è quella di entrare direttamente nella contemplazione non-duale e di rimanervi continuando ad approfondirla fino a raggiungere la realizzazione totale.

Si può comprendere come tale via non richieda l'adesione ad una scuola particolare, ma a una sorta di "stato primordiale metaconfessionale". Il lavoro di preparazione della mente alla contemplazione comprende pratiche psico-fisiche come lo Yantra-Yoga (una sorta di Yoga dinamico), la recitazione di mantra, le visualizzazioni.

La spiegazione classica dell'insegnamento Dzog-chen parla di Base (condizione fondamentale dell'individuo), Via (tipo di pratica spirituale) e Frutto (lo stato verso cui si tende). Viene mostrato come si è creata l'illusione del dualismo (Base)come lo si può dissolvere (Via) e qual è l'esperienza di un individuo quando l'illusione è finalmente annullata (Frutto).

Nell'esplicitazione del metodo in chiave teoretica, tuttavia, permane qualche elemento oscuro come, nell'insieme, mi sembra che risultino diversi aspetti magici, probabile retaggio dell'anima religiosa tibetana prebuddhista. Questi elementi vengono ampiamente riscattati dal vigoroso stile non intellettualistico dell'opera e dagli affascinanti richiami autobiografici, che gettano squarci di luce in un mondo vicino nel tempo ma ormai, forse, irrimediabilmente perduto.



Luigi Turinese




In foto: "Confluenza"


Recensione apparsa su "PARAMITA , Quaderni di Buddhismo", Anno VII, n. 27 , Luglio-Settembre 1988

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