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"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia

lunedì 26 aprile 2010

Seminario residenziale - Elementi religiosi della cura


Seminario residenziale - Elementi religiosi della cura
Venerdì 7 e sabato 8 maggio 2010
Contrada Baldazza, Linguaglossa (CT)


Grazia Marchianò
Robert Mercurio
Werner Weick
Riccardo Mondo
Luigi Turinese

Come suggerito da Jung, al cuore del disagio di ognuno di noi, soprattutto nella seconda metà della vita, c’è un nodo religioso irrisolto.
Questo seminario si propone di evidenziare come ogni indagine del profondo non possa eludere la presa in esame di elementi spirituali.








Guarda le immagini e il video sulla pagina IMPA dedicata al Seminario

venerdì 16 aprile 2010

Psicosomatica: dalla mente al corpo. Come si manifestano le malattie Intervista pubblicata su La Stampa Benessere del 15.4.2010

Cos'è e come ce ne possiamo servire per la nostra salute. Parla l'esperto

Somatizzare
, ovvero manifestare a livello fisico un disturbo che si dice tragga origine dalla mente è un termine che sentiamo sempre più spesso. Così come avviene per il suo parente stretto (la mamma), la psicosomatica.

Ma cosa significa questa enigmatica parola, cosa s’intende quando qualcuno, magari, liquida un nostro problema di salute con questo termine che, ai più, vuole dire tutto e niente? E, ancora, come possiamo trarre invece vantaggio dalle terapie complementari come, per esempio, l’omeopatia associata alla psicosomatica?
Per rispondere a queste e altre domande abbiamo interpellato un esperto, il dottor Luigi Turinese – medico chirurgo, psicoterapeuta e maggior esponente italiano della scuola omeopatica di ispirazione costituzionalistica - il quale ci ha concesso un po’ del suo tempo per parlarci proprio di questi temi che ha già trattato esaurientemente nel suo ultimo libro dal titolo “Modelli psicosomatici. Un approccio categoriale alla clinica” edito da Elsevier.

La prima domanda è d’obbligo riguardi proprio la psicosomatica in sé. Domandiamo quindi al dottor Turinese: cos’è la psicosomatica?
«Domanda quanto mai opportuna, dal momento che il termine – come tutte le parole di moda – sta diventando progressivamente un mantra vuoto di senso. Il pubblico lo recepisce come una spiegazione di disturbi di origine psichica che meccanicamente e quasi magicamente si trasferiscono sul corpo; mentre i medici lo rispolverano quando l’inquadramento fisiopatologico di un disturbo o quanto meno la sua eziologia non rispondono ai criteri della clinica accademica: una sorta di passepartout che risolve la quota di ignoranza che fatalmente lo scibile medico porta con sé.
Nella mia visione, psicosomatica indica invece una fase di passaggio epistemologico da una concezione dualista a una lettura unitaria dell’essere umano.
Si tratta, per certi versi, di un percorso di recupero della concezione unitaria che aveva informato di sé la medicina dell’antichità. Fin dai primi decenni dell’800, nella parola psicosomatica i due termini – psiche e soma – cominciano ad essere giustapposti: il dualismo resiste ma segna il passo. In ambito psicoanalitico, nella sua concezione dell’isteria di conversione Sigmund Freud trasferirà la sorpresa di quello che indicherà come “il misterioso salto dallo psichico al somatico”. Molto più moderna appare la visione di Carl Gustav Jung (1875-1961). Il funzionamento psicofisico, nel costrutto junghiano, è un caso speciale della teoria generale della sincronicità; in omaggio a quest’ultima, deve esser visto come relazione acausale: in tal modo viene evitato il riduzionismo meccanicistico e causalistico che condurrà la psicosomatica di orientamento psicoanalitico nelle sabbie mobili della psicogenesi, ovvero a interpretare i sintomi somatici come effetti lineari di cause psichiche; laddove il punto di osservazione di Jung appartiene ante litteram all’ambito contemporaneo della causalità circolare.

Il parallelismo delle concezioni nel campo della fisica e in quello della psicologia – postulato da Jung in accordo con gli sviluppi della “nuova fisica” – suggerisce la visione di una fondamentale unicità dei due campi, ovvero di un’unità psicofisica di tutti i fenomeni della vita: un mondo in cui psiche e materia non si attuano separatamente e che Jung definisce Unus Mundus».

Cosa intende con “paradigma psicosomatico”?
«Acclarato che corpo e mente sono stati, non entità, si (ri)comincia a parlare di unità psicofisica, il che costituisce se non altro un utile correttivo linguistico. Il limite delle elaborazioni di marca segnatamente psicoanalitica, a mio avviso, sta nell’enfasi pressoché esclusiva sulla patologia psicosomatica e sulle sue interpretazioni psicodinamiche; ma in ogni manifestazione umana – non soltanto patologica – si verifica una compartecipazione di aspetti somatici e di aspetti psichici. Occorre pertanto partire innanzitutto dalla visione di una fisiologia psicosomatica. La scoperta che i sistemi regolatori dell’organismo funzionano in una dinamica di interdipendenza ha condotto alla creazione di una disciplina, la psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI), che si pone l’obiettivo di studiare una fisiopatologia integrata, foriera di interpretazione diagnostiche e soluzioni terapeutiche parimenti integrate. La PNEI si pone come soddisfacente copertura teoretica e sperimentale del paradigma psicosomatico. In questo modo ci si sottrae alla persistente tirannia della causalità lineare, che pervade ancora una certa psicosomatica di derivazione psicoanalitica, nei costrutti della quale permane una forte propensione a spiegare i cosiddetti fenomeni psicosomatici con richiami a conflitti emotivi: la psiche che agisce sul corpo. La PNEI dimostra che tutte le malattie sono multifattoriali e biopsicosociali. Il paradigma psicosomatico – sorretto dagli innesti della PNEI e da un’epistemologia imperniata sull’idea di complessità e di causalità circolare – può fungere da modello globale e integrato.

Tutto sembra andare in tale direzione; che è anche la direzione intrapresa da Hahnemann – con i limiti linguistici e concettuali del suo tempo – due secoli or sono: “Non si guarirà mai, dunque, in modo conforme alla natura cioè in modo omeopatico, se per ogni caso individuale di malattia, anche acuta, non si presterà simultaneamente la dovuta attenzione anche alle modificazioni dello stato psichico e mentale del malato”. Si potrebbe dire, a questo punto, che non si tratta più di evidenziare la correlazione tra psiche e soma, quanto piuttosto di percepire l’unicità delle sfere fisica e psicologica».

Nel suo libro tratta i modelli psicosomatici. Come si rapportano questi modelli alla pratica clinica?

«Hahnemann aveva notato che alcune fisiologie presentavano più di altre le condizioni per l’apparire di determinati quadri clinici, e quindi per la prescrizione di determinati rimedi. L’osservazione clinica conferma l’esistenza di quadri predisposizionali individuali presso i quali è lecito attendersi l’apparizione preferenziale di sintomi corrispondenti alle patogenesi di certi rimedi. In altri termini, c’è un filo rosso che unisce tipo, malattia e rimedio: si tratta di segni di richiamo dedotti dal fatto che, nel corso della sperimentazione di una certa sostanza, alcuni individui sviluppano prima e in più ampia misura i segni e i sintomi patogenetici relativi a quella sostanza. Si è convenuto di definire questi individui tipi sensibili a quella determinata sostanza, in considerazione del fatto che, più spesso di altri, individui con siffatte caratteristiche hanno bisogno, in terapia, di quella sostanza. Si tratta di caratteristiche morfologiche, fisiologiche, psicologiche che trascinano con sé tendenze morbose.
Un modello psicosomatico è un paradigma fisiopatologico che interessa sia la psiche sia il soma del soggetto che ne è investito. Il ragionamento clinico per modelli, a mio avviso, è un’evoluzione naturale dell’uso clinico della tipologia. Esso rappresenta un’evoluzione in quanto un modello è meno rigido di un tipo, è suscettibile di variazioni nel corso della vita e risente chiaramente delle tempeste fisiopatologiche di un soggetto, dunque della sua storia clinica.
Gli elementi del tipo sensibile, che accompagnano la descrizione della patogenesi sperimentale dei principali medicinali omeopatici, costituiscono appunto dei veri e propri modelli psicosomatici. Essi, di fatto, rappresentano altrettanti paradigmi della ricchezza di osservazioni che l’Omeopatia mette a disposizione del medico e inoltre – elemento non secondario – una sfida epistemologica sempre aperta».



Il dottor Turinese presenterà il suo ultimo libro Venerdì 16 aprile 2010, alle ore: 18.00 presso la Casa della Cultura - via Borgogna, 3 a Milano. Ingresso libero.
Interverranno insieme all’autore: Edoardo Felisi, Candida Berti e Giorgio Gaslini.


Intervista rilasciata da Luigi Turinese a Luigi Mondo e Stefania del Principe per La Stampa.it del 15.4.2010

domenica 11 aprile 2010

La facies del paziente



Imago animi vultus est
(Cicerone, De oratione, III, 59.)



Il primo impatto con il paziente condiziona la relazione terapeutica che si stabilirà. La prima impressione si forma soprattutto sulla comunicazione non verbale, e quest’ultima si esprime in gran parte attraverso la facies. Per amore di completezza, dovremmo parlare anche della facies del medico, cui il paziente reagisce con una maggiore o minore apertura, condizionando in questo modo l’ulteriore comprensione da parte del sanitario. In questa sede, tuttavia, si è scelto di privilegiare lo studio dell’espressione del volto del paziente.
Le caratteristiche costituzionali, le condizioni psicofisiche e, in taluni casi, le situazioni morbose sono rivelate da quella che i vecchi clinici chiamavano per l’appunto facies.
L’armonia delle parti e una buona condizione psicofisica sono alla base della cosiddetta facies composita.
In ambito psichiatrico, sono ben note le espressioni del depresso (triste) e, all’inverso, del maniaco (agitata). In contesti endocrinologici, sono descritte la facies ansiosa o addirittura basedowiana, che indicano ipertiroidismo, e quella mixedematosa, tipica del deficit tiroideo; l’acromegalica, segno di iperpituarismo anteriore. Il dolore, poi, impone la sua presenza dando luogo ad un’espressione sofferente, angosciosa (come nei casi di angina pectoris) o peritonitica (lineamenti contratti, naso affilato, occhi incavati, mento sporgente, labbra aride, colorito pallido: l’accentuarsi di queste caratteristiche introduce alla fase preagonica, nella quale si parla di facies ippocratica). Per completare questa breve rassegna, pensiamo ai ragazzi con ipertrofia adenoidea: essi assumono appunto la cosiddetta facies adenoidea, che comprende espressione tra l’attonito e lo stupito, palato ogivale, chiostra dentaria prominente, rima labiale socchiusa, narici strette con radice di impianto allargata.


L’attenzione alla facies, a ben vedere, costituisce l’evoluzione scientifica, all’interno del momento ispettivo della semeiotica medica, di una disciplina prescientifica, la fisiognomica, dal greco φυσις (natura) e γνώμη (conoscenza). Essa considera il volto come entro rivelatore della personalità e postula pertanto un rispecchiamento tra viso e anima. In questo senso, la fisiognomica è una disciplina insieme strutturalista e psicosomatica; ante litteram, si intende: infatti pone psiche e soma in una relazione circolare e, in ultima analisi, incarna la formula del tout se tient. La sua modernità, pertanto, consiste nel rendere attuali le connessioni (volto/anima; psiche/soma; interno/esterno). Dovremmo riflettere sull’omogeneità fisiognomica presente nell’effetto di omologazione creato dagli esiti della chirurgia estetica: è come se si perdesse la visibilità del nesso tra volto e anima.
Le sue radici, peraltro, affondano nell’antichità classica. Già Pitagora (571-497 a.C.) sembra che decidesse l’ammissione o meno dei discepoli alla sua scuola a partire da un esame fisiognomico: quello che oggi chiameremmo un test attitudinale. Ma il primo trattato di fisiognomica che si conosca è la Storia degli animali di Aristotele (384-322 a.C.): qui lo Stagirita introduce lo strumento dello zoomorfismo, cioè della comparazione tra tipologie facciali e tipologie animali allo scopo di trarre indicazioni sul carattere degli uomini traendole dal carattere degli animali cui assomigliano. Il φυσιογνωμονειν di Aristotele si potrebbe tradurre come il giudicare la natura di un oggetto dalla sua struttura corporea.


Nel mondo latino, Cicerone (106-43 a.C.) si fa divulgatore, nel De fato, delle posizioni aristoteliche. Dopo alcuni secoli di relativo letargo, nel corso del Medioevo la fisiognomica riprende vigore e viene diffusa grazie alla mediazione della cultura araba. La figura di Leonardo da Vinci (1452-1519) è centrale nella sua evoluzione, soprattutto per quano riguarda la connessione con l’arte figurativa. “Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell’animo; altrimenti la tua arte non sarà laudabile” (Leonardo da Vinci: Trattato della pittura, n° 290, Parigi 1651).
Il punto di cerniera, e al tempo stesso di svolta, tra cultura cinquecentesca impregnata di magismo e razionalismo seicentesco si ha con l’opera di Giovan Battista Della Porta (1535-1615). La sua Fisionomia dell’huomo (Napoli 1598) è l’edizione in lingua volgare, arricchita di preziose tavole esemplificative che confrontano animali e uomini, di precedenti studi in latino.
Nel Seicento si cerca di indagare le passioni con l’ausilio della ragione. Lo stesso Cartesio (1596-1650) dedica parte della sua attività filosofica ad investigare il rapporto tra anima e corpo. Ne Les passions de l’homme (1649), elencando i segni esteriori delle passioni, egli scrive: “I più importanti tra questi segni sono i moti degli occhi e del volto, i mutamenti di colore, i tremiti, il languore, gli svenimenti, il riso, le lacrime, i gemiti, i sospiri”.
A partire dal Settecento, la fisiognomica tende per così dire a specializzarsi, spostandosi progressivamente in ambito medico e lasciando alle arti figurative un ruolo più illustrativo.
Il tedesco Franz Xavier Messerschmidt (1736-1783) è autore di sessantaquattro busti esprimenti ciascuno un tipo di emozione.
Ma è soprattutto lo svizzero Johann Caspar Lavater (1741-1801) a dover essere ricordato come l’ultimo fisiognomico puro, soprattutto per le sue silhouettes, tratte dai Physiognomische Fragmente. Dopo di lui saranno maggiormente indagate le forme mobili dell’espressione: la mimica, la gestualità, il comportamento; si parlerà allora più propriamente di patognomica - dal greco παθος (passione) e γνώμη (conoscenza).
Nell’Ottocento, Charles Darwin (1809-1882) pubblicò, oltre al celeberrimo L’origine delle specie, uno studio meno noto ma molto interessante per il nostro discorso sulla facies: The expression of emotions in man and animals, in cui sosteneva che le espressioni delle emozioni sono al servizio della selezione naturale, fisiologici segnali di difesa o di attacco.
Particolarmente suggestiva, nell’economia di questo articolo, è l’analisi dell’ultimo quadro di Vincent Van Gogh. Si tratta del celebre ritratto (si noti per inciso che possedere un ritratto è sempre stata la massima aspirazione della vanità umana) del dottor Gachet, suo amico e medico, che viene rappresentato con il busto reclinato, la testa appoggiata alla mano e l’espressione introversa. Ora, Gachet si era laureato con una tesi sulla malinconia, della quale è illuminante leggere un passo – riguardante la patognomica del malinconico di cui il celebre ritratto assumerà quasi il valore di iconografia esplicativa. “[…] i muscoli facciali sono come contratti […] e conferiscono alla fisionomia un aspetto di particolare durezza; i muscoli sopraccigliari, aggrottati in maniera permanente, sembrano nascondere l’occhio e aumentare la sua profondità. […] La bocca è serrata in una linea diritta, sembra che le labbra siano scomparse. […] Il colorito è giallastro e terroso. […] Lo sguardo è fisso, inquieto, obliquo, diretto verso terra o di lato”.


Cesare Lombroso (1835-1909) è ancora un giovane psichiatra quando, esaminando le protuberanze craniche di un ladro, ritiene di scorgervi un’atavica predisposizione al crimine. Il considerare la tendenza al crimine alla stregua della predisposizione a una malattia naturale spinge Lombroso a chiedere l’isolamento di queste persone in luoghi di cura piuttosto che in carcere. Nasce in questo modo l’istituzione del manicomio criminale e viene istituita la prima cattedra di antropologia criminale. Oggi, a parte un Museo Lombroso a Torino, rimane un residuo di “lombrosismo” nell’uso degli identikit e delle fotografie segnaletiche.
Nel Novecento, lo studio del volto umano abbandona definitivamente il territorio della fisiognomica e prende fondamentalmente tre vie: la via antropologica, la via criminologia e la via psichiatrica. Nell’alveo di quest’ultima, come è noto, avrà origine quella creazione del tutto originale che è la psicoanalisi di Sigmund Freud (1856-1939), il quale aveva ben compreso il valore del linguaggio non verbale – all’interno del quale rientrano a buon diritto i movimenti della facies – quando scriveva: “Ai mortali non è possibile celare nessun segreto: chi tace con le labbra chiacchiera con la punta delle dita, si tradisce con tutti i pori” ( Freud S.: Frammento di un’analisi d’isteria, Vienna 1901.

Riferimenti Bibliografici:
CAROLI, F.: Storia della Fisiognomica. Arte e psicologia da Leonardo a Freud,.Leonardo, Milano 1995.
CENTINI, M.: Fisiognomica, Red Edizioni, Como 1999.
DELLA PORTA, G. B.: Della fisionomia dell’uomo, (1586), Guanda, Parma 1988.
LAVATER, J. C.: Della Fisiognomica, (1772), Editori Associati, Milano 1993.
MAGLI, P.: Il volto e l’anima. Fisiognomica e passioni, Bompiani, Milano 1995.
RASARIO, G. M.: Manuale di semeiotica medica, Idelson, Napoli 1975.
RODLER, L.: Il corpo specchio dell’anima, Bruno Mondadori, Milano 2000.
SAGNE, C.: I volti, (1983), SugarCo, Milano 1984.
TURINESE, L.: Biotipologia. L’analisi del tipo nella pratica medica, Tecniche Nuove, Milano 1997.

Articolo pubblicato su Farmacia 2002 (pagg. 123-126)- Nobile collegio Chimico Farmaceutico Universitas Aromatariorum Urbis, ed. Tecniche Nuove)

(Vedi anche il post: L'anamnesi del cliente)
In foto: "Pitagora"; "Artemide"; "Apollo"

sabato 10 aprile 2010

Il concetto di Modello Reattivo come strumento ermeneutico

“Ogni segno, da solo, sembra morto”
(Wittgenstein, 1953; tr. it.: § 432)





***

Nell’immaginario popolare – nutrito a colpi di E. R. – il medico è soprattutto un terapeuta eroico. Questo aspetto del suo lavoro, connesso all’archetipo del Salvatore, rappresenta tuttavia una verità parziale. Il medico, infatti, è prima di tutto un diagnosta.

L’efficacia della sua azione presuppone un corretto pensiero: potremmo chiamarlo il λòγος del terapeuta. Esso è posto in essere, non di rado, dall’esercizio di quella funzione irrazionale ma indispensabile che è l’intuizione. Si snoda così il percorso: occhio clinico (intuizione) -> ragionamento clinico->diagnosi->terapia.

In quanto diagnosta, il medico deve orientarsi nel dedalo dei segni del paziente, ordinandoli in una trama coerente. Più precisamente, egli deve sforzarsi di creare un ordine a partire dal caos rappresentato dai sintomi e dai segni che il paziente riferisce. Entrambe le categorie sono indizi di uno stato morboso; se non che i sintomi sono fenomeni soggettivi che il medico deve decodificare, mentre i segni sono fenomeni oggettivi che il medico è chiamato a riscontrare.

“Si distinguono, a seconda della prossimità della causa, i sintomi fondamentali […] dai sintomi accessori. Analogamente tra le cause dei sintomi si distinguono quelle patogenetiche (che provocano fenomeni) e quelle patoplastiche (che solo danno loro forma)” (Jaspers, 1913).

Vediamo come non si tratti di valutare sintomi isolati bensì di configurare costellazioni sintomatologiche significative. Perveniamo in questo modo alla nozione di sindrome.

“Una sindrome è fondamentalmente una nozione statistica basata su una covariazione” (Eysenck, 1971).

Per quanto riguarda i segni, la semiotica ci insegna che il segno pone in relazione significante e significato, dove

“per significante si intende il piano dell’espressione e per significato il piano del contenuto” (Galimberti, 1992).

Da questo momento in poi, per comodità epistemologica, utilizzerò indistintamente il termine segno per indicare qualsiasi fenomeno rientri in quell’alterazione dell’omeostasi che chiamiamo malattia.
La semeiotica medica, parente stretta della semiotica, riveste un ruolo preminente nel lavoro clinico. Essa, attraverso quattro momenti fisici (ispezione, palpazione, percussione, auscultazione), cui si affiancano sempre più numerosi metodi di diagnostica per immagini (semeiotica strumentale), si pone l’obiettivo di pervenire alla diagnosi clinica. Si potrebbe dire che la qualità maggiore di un buon medico sia un’estrema capacità di attenzione.

“Perché la medicina è sopra ogni altra cosa un’arte dell’osservare” (Turinese, 1997).
Da questo punto di vista, la medicina è una disciplina basata su di un’epistemologia segnica.
Se indaghiamo le qualità del segno in medicina, scopriamo che, in estrema sintesi, esso:
· rivela qualcosa
· è connesso ad altri segni
· si pone come tappa di una patogenesi
In un certo senso, il paziente è il testo di cui i segni rappresentano il linguaggio. Applicarsi a capire il paziente è dunque un esercizio ermeneutico.

***

L’ermeneutica è l’arte dell’interpretazione. Per Platone, in particolare, essa riguarda più propriamente la tecnica dell’interpretazione, distinta dal problema della verità dell’interpretazione stessa. In ogni caso – ne fa fede l’etimologia – l’ermeneutica è connessa ad Ermes, il dio incaricato di scambiare messaggi tra gli dèi e gli uomini. Non mi sembra azzardato sostenere, con un pizzico di esercizio immaginale, che l’uomo-medico sia un sacerdote di Ermes, dal quale riceve sintomi come messaggi degli dèi. Questa tesi è suffragata da quanto suggerisce Jung:

“Le divinità sono diventate malattie, e Zeus non governa più l’Olimpo, ma il plesso solare ed è motivo di interesse per i medici, nella loro ora di consultazione” (Jung, 1929/1957).

Di nuovo, e sempre più esplicitamente, la semeiotica – lettura del σημεĩον – come ermeneutica applicata alla medicina e il paziente come testo da interpretare. Ecco allora riemergere tutte le mantiche sepolte dalle pretese scientiste: come la fisiognomica, finissima lettura della facies del paziente; o ancora la biotipologia, strumento semeiologico e interpretativo basato sull’analisi della struttura, della funzione e del temperamento e orientato verso la comprensione delle differenze individuali e la conseguente scelta di una terapia individualizzata (Turinese, 1997).

Queste discipline suscitano il problema cruciale di dare un contesto al segno. Ne deriva la necessità di un approccio categoriale, che consenta di mediare la singolarità del malato con la genericità dei criteri nosografici: approccio teso dunque non a uniformare ma a far emergere l’individualità, cosa ben compresa da Ivan Cavicchi quando scrive che

“[…] il medico oggi usa le categorie generali in uno sforzo di comprensione della singolarità” (Cavicchi, 2000).

È abbastanza difficile che un malato rientri, con la sua unicità e complessità personale, in una casella nosografica: si potrebbe dire – giocando un po’ con le parole – che egli rappresenti un caso clinico perché la sua storia risponde più al caso che alla necessità.

***

“Il medico guarderà la ‘causa’ come ciò di cui è fatta una cosa (un virus è ‘causa’ della febbre) oppure come modello di un evento”
(Cavicchi, 2000).

Il concetto di modello, con la sua valenza di schema teorico e di paradigma, si presta molto bene a sottolineare la pertinenza del nostro discorso a una logica sistemica, che privilegia la relazione tra i fenomeni piuttosto che un rapporto di causalità lineare tra di essi. Siamo nell’ambito dichiarato delle scienze della complessità, le quali adottano un punto di vista globale che deriva dalla dinamica dei sistemi non lineari. L’olismo è un atteggiamento conoscitivo che nasce da qui e che si ritiene – a torto – patrimonio delle cosiddette medicine non convenzionali. A voler essere filologicamente precisi, anzi, il suo rizoma affonda nella cultura greca. Nel Fedro, il dialogo platonico sulla Bellezza, si impara sulla totalità dell’essere molto più che nei libelli dei medici olistici contemporanei.

SOCRATE
– E ritieni che sia possibile conoscere la natura dell’anima in modo degno di menzione, senza conoscere la natura dell’intero? (óλον)

FEDRO
– Se si deve credere a Ippocrate, che è della stirpe degli Asclepiadi, non è possibile conoscere neppure la natura del corpo, se non si segue questo metodo.
(Fedro, 270 a.C., in Platone)

Per Platone, dunque, si può perseguire la guarigione soltanto rispettando la totalità dell’essere (óλη ουσία). In quest’ultima si devono comprendere anche le cosiddette predisposizioni morbose che, in un approccio multicausale, rivestono il ruolo di cause interne. D’altra parte l’istruzione del medico, almeno fin quando questi era più clinico che patologo, comprendeva la nozione di diatesi.

“Per diatesi si intende la predisposizione dell’organismo verso particolari manifestazioni morbose: tale disposizione è di origine ereditaria legata ai fattori genotipici, per cui presenta spesso un carattere familiare, ed interessa o un solo tessuto ad ampia diffusione – ad esempio il tessuto linfatico, ecc. – o più tessuti ed organi deputati ad una delle grandi funzioni vitali – quali la regolazione delle attività metaboliche, ecc. - . Il significato della denominazione si è esteso nel linguaggio comune ad indicare non solo la predisposizione verso determinate affezioni ma anche le medesime affezioni in atto” (Rasario, 1975).

Considerare le diatesi del paziente aiutava a comprendere la direzione del suo vettore fisiopatologico, consentendo inoltre di veicolare delle norme igienico-dietetiche sufficientemente individuali. Man mano che il clinico si fece patologo, le diatesi divennero un ingombro inutilizzato ma anche relativamente inutilizzabile.

Da qualche tempo, la prospettiva sta mutando. Si assiste infatti ad uno slittamento dell’attenzione dai fenomeni esogeni a quelli endogeni: la genetica con i suoi studi sul genoma umano, la consapevolezza dell’origine multifattoriale di molte malattie, la nascita della PNEI (PsicoNeuroEndocrinoImmunologia); tutto questo ed altro ancora concorre a inquadrare la medicina in una cornice sistemica. Si ricomincia a parlare di terreno in ambiti convenzionali.

“Nel determinare la reattività del terreno, e quindi la suscettibilità alla malattia per ipo- o iperreattività del medesimo, agiscono sinergicamente tre sistemi biologici, la cui caratteristica comune è quella di esercitare un’azione generalizzata a livello di tutti gli organi e di tutti i tessuti: il sistema endocrino, il sistema nervoso vegetativo (o autonomo) e il sistema immunitario”
(Pancheri, 1980).



Negli sviluppi recenti della metodologia omeopatica c’è uno strumento euristico e in ultima analisi ermeneutico che, nella direzione succitata del procedere per modelli, a mio avviso supera, inglobandola, la nozione di diatesi. Si tratta del concetto di modello reattivo.

Nel presente contesto mi sembra poco interessante una valutazione critica complessiva dell’Omeopatia, per la quale rimando alla letteratura specializzata (Demarque, 1968/1981; Poitevin, 1987 e 1990; Bignamini-Felisi, 1999). Si tenga presente che l’architrave su cui poggia l’Omeopatia è il cosiddetto principio di similitudine, in base al quale viene sancito il parallelismo d’azione tra potere sperimentale e potere terapeutico di una sostanza. Il principio di similitudine, si badi bene, fu enunciato da Hahnemann (1755-1843) dopo sei anni di sperimentazioni sull’uomo sano (1796) ed è pertanto il frutto dell’applicazione rigorosa del metodo galileiano.

I fondamenti dell’Omeopatia possono essere riassunti dai seguenti enunciati:
1. Ogni sostanza farmacologicamente attiva è in grado di produrre un quadro clinico caratteristico della sostanza impiegata (sperimentazione patogenetica).
2. Ogni malato presenta un quadro clinico caratteristico della sua reattività nei confronti di una noxa morbosa.
3. La guarigione si ottiene con la somministrazione, a dosi deboli o infinitesimali, della sostanza che si sia mostrata sperimentalmente in grado di produrre un quadro clinico simile a quello che si vuole curare.

Ad esempio, il fatto che nella farmacopea omeopatica Phosphorus sia il miglior rimedio di alcune epatopatie lo si deve alla constatazione del suo potere epatotossico; l’uso di Apis mellifica in dermopatie aventi il pomfo come lesione elementare, allo stesso modo, risponde al parallelo potere del veleno d’ape di creare lesioni simili.

Nei casi cronici, la prescrizione si effettua sempre seguendo il principio di similitudine, ma la similitudine non si limita ai sintomi attuali, bensì viene estesa fino ad inglobare i sintomi concomitanti (allargamento nello spazio) e soprattutto gli antecedenti morbosi (allargamento nel tempo). Inoltre viene data ampia considerazione ai dati biotipologici; tra questi, rivestono particolare rilievo i cosiddetti modelli reattivi, paradigmi di riposta di cui dispone l’organismo di fronte alle sollecitazioni morbigene. Sono descritti in numero di quattro e ad ognuno di essi corrisponde una “famiglia farmacologica”, ovvero un certo numero di sostanze in grado di contrastarne l’azione patogena. Essi sono

“al tempo stesso clinici e terapeutici, vere e proprie costellazioni fisiopatologiche verosimilmente di origine genetica e in grado di mostrare una certa plasticità in risposta agli stimoli ambientali” (Turinese, 1997).

Se la descrizione dettagliata degli elementi di tutti i modelli reattivi appesantirebbe inutilmente il nostro discorso, può tuttavia tornare utile riportare uno schema delle caratteristiche di un paio di essi, limitando al minimo indispensabile quel tanto di “linguaggio gergale” che l’Omeopatia, come tutte le dottrine specialistiche, contiene.

Modello reattivo psorico
Può essere definito come la tendenza a reagire alternando manifestazioni cutanee con malattie interne che evolvono per crisi. Corrisponde bene, dunque, a certe malattie allergiche; ma evoca anche molti disturbi metabolici.

I fattori scatenanti o slatentizzanti questo modello reattivo, che come gli altri poggia su un fondo genetico, sembrano essere soprattutto la sedentarietà e gli errori igienico-dietetici, quali il ritmo di vita e la qualità dell’alimentazione tipici della civiltà urbana contemporanea.
Le caratteristiche fondamentali che permettono di riconoscerlo sono le seguenti:
· Alternanza dei sintomi tra loro.
· Periodicità delle manifestazioni morbose.
· Tropismo cutaneo preferenziale.
· Frequenti parassitosi.
· Congestione arteriosa.
· Malattie acute ad andamento clinico “netto”: esordio brusco, se c’è febbre defervescenza per crisi, convalescenza rapida.
· Miglioramento con l’eliminazione di liquidi fisiologici o patologici.
· Tendenza ai sovraccarichi metabolici (iperdislipidemia, iperuricemia, iperglicemia), con le possibili conseguenze del caso.
· Fondamentale estroversione, quasi un correlato psicologico della tendenziale “espressività patologica”: tutto ciò che decorre con modalità psorica è chiaro ed esteriorizzato.

Modello reattivo sicotico
Il termine sicosi si presta a qualche equivoco, innanzitutto per la sua persistenza in dermatologia con un altro significato, che è quello di malattia caratterizzata dall’infiammazione dei follicoli piliferi. A questa malattia non si fa riferimento alcuno in ambito omeopatico.

Da un certo punto di vista, l’omeopatia è etimologicamente più corretta, dal momento che Hahnemann scelse il termine riferendosi al greco σύκωσις, che sta per sicoma o tumore a fico, e che è derivato a sua volta da συκών, che significa fico ma nella letteratura medica stava a significare porro sulle palpebre, orzaiolo o anche tumore.

In effetti il modello reattivo sicotico sembra tradire uno squilibrio del sistema immunitario messo in atto da tutti i fattori in grado di creare immunosoppressione: antibioticoterapie prescritte in modo incongruo (per esempio nel corso di malattie virali, o in dosi e in tempi insufficienti, con il risultato di creare fenomeni di selezione batterica e quindi di resistenza); corticosteroidi somministrati per lungo tempo; farmaci immunosoppresori; infezioni prolungate o mal curate; e infine - fattori probabili ma da verificare - vaccinazioni troppo spesso ripetute, depressione psichica curata a lungo con psicofarmaci e prolungati soggiorni in climi umidi.
Caratteristiche ineludibili per identificare il modello reattivo sicotico sono:
· Ritenzione idrica con imbibizione dei tessuti.
· Infezioni catarrali croniche, specialmente a livello dell’apparato genitale e della sfera otorinolaringoiatrica.
· Formazione di escrescenze cutanee, di cisti, di tumori benigni.
· Congestione linfatica.
· Astenia fisica costante.
· Aggravamento con l’umidità.
· Interessamento dei tessuti periarticolari, con rigidità articolare.
· Malattie a decorso subcontinuo, ad evoluzione lenta, insidiosa, progressiva.
· Difficoltà di adattamento all’ambiente, soprattutto ai ritmi sociali; ne consegue una sorta di “agitazione inefficace”.


Come si vede, sussiste una certa parentela tra il concetto di diatesi e quello di modello reattivo, con la differenza che quest’ultimo, più plastico e dinamico, mi sembra sia più suscettibile di ricadute epistemologiche.
Innanzitutto, esso ricorda ad ogni passo il carattere di empirìa della conoscenza medica.
Inoltre, richiamandoci al concetto platonico di giusta misura, possiamo osservare come si possa stabilire una sorta di gerarchia involutiva dei modelli reattivi: si può notare infatti come, negli esempi sopra riportati, la sicosi costituisca evidentemente un aggravamento rispetto al modello rappresentato dalla psora.

Il modello reattivo non è soltanto, come la diatesi, un paradigma fisiopatologico ma anche la figura di una modalità difensiva. Potremmo definirlo come un network di segni, nell’ambito del quale il singolo segno non ha pregnanza, mentre l’insieme è qualcosa di più della somma delle parti.
Cavicchi (2000) distingue
· segni dimostrativi
· segni prognostici
· segni ananmnestici
Ebbene, il modello reattivo comprende tutte e tre queste tipologie di segni.
Esso, infine, si configura come punto di unione degli elementi esogeni e degli elementi endogeni all’interno dell’economia dell’organismo; e al tempo stesso consente di superarne la dicotomia.

Riferimenti Bibliografici
BIGNAMINI, M. – FELISI, E.: Metodologia omeopatica, Ambrosiana, Milano 1999.
CAVICCHI, I.: La medicina della scelta, Bollati boringhieri, Torino 2000.
DEMARQUE, D.: L’Homéopathie, médecine de l’expérience, Maisonneuve, Moulins-lès-Metz 1968/1981.
EYSENCK, H. J.: Handbook of abnormal psychology, Basic Books, New York 1971.
GALIMBERTI, U.: Dizionario di psicologia, Utet, Torino 1992.
JASPERS, K.: Psicopatologia generale, (1913/1959), Il Pensiero Scientifico, Roma (1964)
JUNG, C. G.: “Commento al ‘Segreto del fiore d’oro’”, (1929/1957), in Opere, volume 13, Bollati Boringhieri, Torino 1978.
PANCHERI, P.: Stress, emozioni, malattia, Mondadori, Milano 1980.
PLATONE: “Fedro”, in Tutti gli scritti (a cura di G. Reale), Rusconi, Milano 1991.
POITEVIN, B.: Le devenir de l’Homéopathie, Doin, Paris 1987.
POITEVIN, B. : Introduction à l’Homéopathie, CEDH, France 1990.
RASARIO, G. M.: Manuale di semeiotica medica, Idelson, Napoli 1975.
TURINESE, L.: Biotipologia. L’analisi del tipo nella pratica medica, Tecniche Nuove, Milano 1997.
WITTGENSTEIN, L.: Ricerche filosofiche, (1953), Einaudi, Torino 1967



Saggio di Luigi Turinese apparso su: AA.VV. I libri di Montag, Ed.: Manifestolibri2001


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Questo saggio è stato argomento dal titolo: "Il contributo della semeiotica omeopatica alla diagnosi medica convenzionale" presentato al 3° Convegno Nazionale SIOMI "La Complessità in Medicina" - Firenze 5/6/7 Marzo 2004 e pubblicato negli Atti del Convegno - pagg. 103/107

mercoledì 7 aprile 2010

Modelli Psicosomatici venerdì 16 Aprile a Milano




Invito

Venerdì 16 Aprile 2010
alla Casa della Cultura
Via Borgogna, 3
Milano

alle ore 18.00

Presentazione del libro:

Modelli Psicosomatici

Interverranno, oltre all'autore:

Candida Berti Medico chirurgo, specialista in Immunologia e Allergologia, Esperta in Omeopatia
Edoardo Felisi Medico chirurgo, specialista in Pneumologia, Esperto in Omeopatia
Giorgio Gaslini Musicista, compositore, pianista


Ingresso libero

Il setting omeopatico come strumento di recupero della relazione terapeutica

Per rimanere al tema di questo intervento, non è il caso di addentrarsi nelle questioni concernenti l’efficacia terapeutica del farmaco omeopatico, argomento per il quale rimandiamo all’analisi delle sperimentazioni cliniche e delle casistiche cliniche controllate. Qui mi interessa piuttosto soffermarmi sulle ricadute epistemologiche della semeiotica omeopatica, ovvero di quella particolare lettura dei segni e dei sintomi del paziente proposta nell’anamnesi omeopatica.
In medicina, la raccolta del caso rappresenta l’ineludibile punto di partenza per la diagnosi, la cui formulazione è necessaria ai fini di una corretta scelta terapeutica.

In omeopatia, alla diagnosi nosologica classica è necessario affiancare una diagnosi di rimedio: una definizione, cioè, di quel medicinale, non intercambiabile con altri, in grado di curare quella particolare variante della patologia che il paziente ci presenta. Si tratta né più né meno di pervenire a una sorta di individualizzazione della terapia, per giungere alla quale è necessario porre tutta una serie di domande che hanno lo scopo di qualificare i sintomi, rendendoli per così dire più personali: si studiano in altri termini le circostanze di aggravamento o miglioramento in rapporto con fattori ambientali (meteorologici, orari, cinetici) o fisiologici (sonno, mestruazioni, funzioni emuntoriali). La loro determinazione è cruciale in quanto la scelta terapeutica è funzione del principio di similitudine, fondamento sperimentale della medicina omeopatica, secondo il quale vi è un parallelismo d’azione tra potere sperimentale e potere terapeutico di una sostanza: similia similibus curentur. La prescrizione di un farmaco omeopatico si basa dunque sull’esistenza di una similitudine tra il quadro sintomatico espresso dal malato (malattia o sindrome) e il quadro sintomatico che, in condizioni sperimentali, il farmaco si è dimostrato in grado di creare (malattia o sindrome sperimentale, frutto della cosiddetta sperimentazione patogenetica).

Ora, affinché il grado di similitudine sia elevato, occorre prendere in esame la totalità dei sintomi del paziente. Per fare un esempio, anche nel corso di una semplice malattia febbrile stagionale è interessante sapere ciò che sta “intorno” alla febbre: mialgie, cefalea, faringodinia, nausea, vomito, diarrea; o anche modificazioni dell’umore o dello stato emotivo del paziente: tutte condizioni che impongono scelte terapeutiche peculiari a quella determinata costellazione patologica. Allo stesso titolo, la terapia omeopatica di uno stato d’ansia o di un sintomo depressivo viene scelta anche a partire dai sintomi somatici di accompagnamento. Hahnemann approdò ad una concezione che oggi si direbbe olistica semplicemente osservando come ogni sperimentazione patogenetica coinvolgesse tutti gli aspetti dell’economia dell’organismo; gli sembrò ovvio, e gli era tecnicamente necessario, nella redazione di un’anamnesi, cogliere simultaneamente le modificazioni del sentire e dell’agire e i sintomi somatici presentati dal malato.

“Non si guarirà mai, dunque, in modo conforme alla natura e cioè in modo omeopatico, se per ogni caso individuale di malattia, anche acuta, non si presterà simultaneamente la dovuta attenzione anche alle modificazioni dello stato psichico e mentale del malato” (Organon , § 213).

Per quanto concerne l’espressione “setting omeopatico”, la utilizzo prendendola a prestito dalla psicoanalisi, dove sta ad indicare un’area spazio-temporale soggetta a regole precise che hanno lo scopo di delimitare un contesto relazionale. In un certo senso, si potrebbe dire che qualsiasi rapporto terapeutico, e vorrei dire qualsiasi rapporto umano, si svolga all’interno di un setting, le cui regole sono però solitamente inconsce o comunque non esplicitate. Così il rapporto medico-paziente come si configura in un’ottica puramente organicista obbedisce a un suo proprio setting, che esprime una forte asimmetria e la scotomizzazione delle componenti psichiche di entrambi i soggetti.

Forse questo spiega, almeno in parte, i dati del CENSIS secondo i quali la prescrizione viene disattesa nel 50% dei casi di malattie lievi e nel 20% di quelle più gravi; mentre l’11% delle prescrizioni di psicofarmaci non arriva neppure in farmacia. Pertanto il farmaco prescritto al termine di una visita medica veicola sempre, oltre ad una oggettiva realtà farmacologica, un contesto simbolico – di aspettative, speranze, desideri, paure – appartenente sia al medico sia al malato; poiché, per dirla con Balint,quando il medico prescrive un farmaco, prescrive se stesso”.
La responsabilità del medico, da questo punto di vista, è quella di creare un contesto di relazione. La medicina omeopatica, avendo una struttura anamnestica e semeiologica in cui l’ascolto fa da sfondo alla prescrizione, crea le condizioni per una compliance ottimale da parte del paziente.
Da questo punto di vista, è molto interessante cercare di interpretare l’aumento di richieste di intervento omeopatico: a un livello superficiale, si tratta di un rifiuto della chimica a favore di un intervento “naturale”; se ci spingiamo più in profondità, tuttavia, ci rendiamo conto che l’obiettivo è quello di ritrovare un contesto alla terapia. E’ da rimarcare a questo proposito come sia potenzialmente maggiore l’accettazione di un protocollo terapeutico che si presenta come individuale: la soluzione è per sé soltanto e non il frutto di un modello collettivo. Per sua natura, inoltre, il “setting omeopatico”, come abbiamo sottolineato sopra, lascia emergere contenuti psichici, rinforzando un modello psicosomatico e contribuendo a creare una salda relazione medico-paziente e qualcosa che somiglia ad un clima psicoterapeutico.

Qui, nel caso di pazienti nevrotici, dobbiamo fare molta attenzione, pena il rischio di scivolare inconsapevolmente nelle sabbie mobili di una psicoterapia selvaggia, sostenuta da un furor curandi di cui, a diverso titolo, fanno le spese sia il medico sia il paziente. Ma questo è un altro discorso.

Luigi Turinese


In foto: "Rimpiattino"

Riferimenti bibliografici:
BALINT, M.: Medico, paziente e malattia, (1957), Feltrinelli, Milano 1961.
BIGNAMINI, M. – FELISI, E.: Metodologia omeopatica, Casa Editrice Ambrosiana, Milano 1999.
DEMARQUE, D.: Sémiologie homéopathique, Librairie Le François, Paris 1977.
GALIMBERTI, U.: Dizionario di psicologia, Utet, Torino 1992.
HAHNEMANN, S. F. C.: Organon dell’arte del guarire, (1810), EDIUM, Milano 1975.
INSTITUT BOIRON: Glossaire de l’Homéopathie, Boiron, Lyon 1992.
PANCHERI, P.: Stress, emozioni, malattia, Mondadori, Milano 1980.
TURINESE, L.: Biotipologia, Tecniche Nuove, Milano 1997.

sabato 3 aprile 2010

After the Big Bang

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In foto:"Eclissi?"

Uno degli elementi più singolari – ogniqualvolta si confrontino i destini e le fortune ortune postume di Freud e di Jung – mi è sempre sembrato il cotè di partenza e quello di arrivo del loro pensiero. Freud infatti prese le mosse dalle pruderies della borghesia austriaca – così ben descritte da Arthur Schnitzler e causticamente stigmatizzate dagli aforismi di Karl Kraus – per dare origine a una stirpe di clinici rigorosi e ad una Weltanschauung dominata da un materialismo talora asfittico; mentre Jung, partito dall’esperienza del Burghölzli che lo costrinse a misurarsi – giovane psichiatra – con la schizofrenia (ancora denominata dementia praecox), forse per una malintesa interpretazione della sua apertura nei confronti degli elementi a-razionali dell’esperienza ha finito per dar voce – malgré lui – a zuccherosi sincretismi new age.

Un altro fenomeno curioso e meritevole di ricerca consiste nella “dispersione” di temi junghiani in altre cornici teoriche. Più di una scuola postfreudiana ospita infatti – talora senza saperlo – intuizioni che furono presentate da Jung nella loro formulazione originaria. Anche svariati innovatori della psicologia hanno un debito implicito nei confronti della Psicologia Analitica: per esempio non molti sanno che lo stesso Paul Watzlawick, esponente di spicco della cosiddetta Scuola di Palo Alto, autore di molte opere e coautore della celeberrima Pragmatica della comunicazione umana (1971), ha effettuato tra le sue formazioni anche il training presso lo Jung Institut di Zurigo. In altro ambito, le scienze della complessità postulano alla loro base un assunto sistemico – la coesistenza di verità parziali ma non contraddittorie – che trova riscontro nella concezione junghiana di psiche complessa. Nel linguaggio comune usiamo ormai con disinvoltura termini come estroverso e introverso, che provengono direttamente da Tipi psicologici (1921). Non parliamo poi delle innumerevoli filiazioni all’interno delle correnti orientaliste e più in generale neospirituali.


In foto:"ESP"

E perché non citare anche ricadute dei concetti e del linguaggio lontanissimo dalla sorgente, come testimonia ad esempio l’ultimo, bellissimo album realizzato dal gruppo rock dei Police prima dello scioglimento e intitolato Synchronicity (1983? Nei testi delle canzoni, con autentico furore creativo, Sting spargeva a piene mani immagini che conosciamo bene.

With one breath, with one flow
You will know
Synchronicity
A sleep trance, a dream dance,
A shared romance,
Synchronicity

If we share this nightmare
Then we can dream
Spiritus mundi.

A star fall, a phone call,
It joins all,
Synchronicity.

Effect without a cause
Sub-atomic laws, scientific pause
Synchronicity……
(Sting, Synchronicity I,1983)

Questa incompleta carrellata di contaminazioni di vaste aree della cultura da parte del pensiero junghiano mi ha stimolato l’immagine di quello che potremmo chiamare Big Bang culturale. È come se la potente e asistematica curiosità amplificatoria di Jung avesse dato origine a una moltitudine di ricadute a distanza: una sorta di scintillio prolungato che ha dato segno di sé a differenti distanze dalla fonte originaria, che dunque – spesso senza nessun dolo – è stata spesso misconosciuta.
Sempre per seguire un’immagine – in questo caso stimolata dal pianeta dominante del Leone, segno di nascita di Jung – il Sole irradia luce e calore; ma in periferia sono percepibili soltanto i suoi effetti, non un contatto diretto con la fonte.


In foto:"Vis Leonis"

Dedicare un numero monografico della Rivista di Psicologia Analitica a Jung, pertanto, è operazione doverosa e insieme impossibile, tante sono le interfacce offerte dalla pluralità di interessi del Maestro di Küsnacht. Impossibile soprattutto se si tentasse di essere esaustivi.
Ho scelto pertanto, al dischiudersi del XXI secolo, di ravvisare alcune delle tracce lasciate dal passaggio di questo ingombrante e non sempre conciliante personaggio. In questa ricognizione appassionata mi hanno sostenuto compagni di viaggio generosi e capaci, grazie ai quali sono riuscito a intravedere almeno alcune delle direzioni cui le suddette tracce portavano. Il documentatissimo articolo di Sonu Shamdasani – massimo storico mondiale della Psicologia Analitica e curatore generale della Philemon Foundation, che si è prefissa lo scopo di pubblicare entro trent’anni l’opera omnia di Jung – ci illumina anche su quelle che potremmo chiamare le tracce anteriori: i primi passi, gli antefatti, lo Jung prima di Jung. Scopriamo così che l’ipnosi non fu praticata – e poi abbandonata – soltanto da Freud; ma che Jung era forse ipnotista migliore dell’anziano collega e che abbandonò la suggestione non perché inefficace ma, in un certo senso, proprio a causa della sua drammatica efficacia, che minava alle basi l’aspirazione a una psicologia della coscienza.

Il contributo di Mario Trevi non è inedito ma si presta ottimamente a una “valutazione critica dell’opera di C.G. Jung”, come recita il titolo. Pubblicato originariamente nel 1989, esso risente dei lavori di Trevi immediatamente precedenti: Per uno junghismo critico (1987) e L’altra lettura di Jung (1988). Vi si sottolineano il primato e la peculiarità del processo di individuazione: la psicologia analitica è presentata pertanto come una psicologia dell’individuazione ed è ribadita la necessaria complementarità tra pensiero e immagine. Anche in questo lavoro – come del resto in tutte le opere di Trevi – è presente una critica della teoria archetipica: “La cosiddetta teoria archetipica è un’evasione dalla storia che può essere interpretata sia come un ingenuo platonismo sia come un rozzo naturalismo”. Si può dissentire, naturalmente.
In effetti, il pregevole articolo di Augusto Romano e Ferruccio Vigna – sostenuto da un eccellente linguaggio e da un esaustivo apparato critico – prende le mosse proprio dal possibile uso della teoria archetipica per fare luce su avvenimenti storici, a partire dalla decifrazione del fenomeno del sabba, oggetto del fortunato libro di Carlo Ginzburg Storia notturna (1995). Secondo gli autori dell’articolo, il libro in questione testimonierebbe una traccia negata del pensiero di Jung, nella misura in cui il fraintendimento della nozione di archetipo da parte di Ginzburg impedisce allo storico di sollevarsi da interpretazioni riduzionistiche.
Nel suo Jung: tracce dagli altri, Stefano Carta si dice “[…] persuaso che le tracce di Jung che è utile cercare siano soprattutto quelle lasciate da quei ricercatori contemporanei che, non conoscendo Jung, hanno sviluppato, ridefinito ed inquadrato in diversa forma il pensiero junghiano”. Incardinato su di una puntuale documentazione testuale, l’articolo è sostenuto da una forte pregnanza di teoria della clinica. Carta appare più preoccupato per la salvaguardia delle idee che del suo Autore, in questo caso Jung.


In foto:"Coelum"

Sono molto grato a Piergiacomo Migliorati per aver voluto condividere con la RPA le sue riflessioni – che speriamo presto sviluppate in un volume dedicato alla gruppoanalisi di orientamento junghiano – su di una modalità analitica integrata: il lavoro individuale e la prassi gruppale, in un’ottica gestaltica di figura e sfondo, come da un trentennio Migliorati si sforza di fare.
Luciano Perez, che da alcuni anni affianca all’attività clinica e didattica un meritorio lavoro editoriale (ricordiamo Analisi dei sogni e La psicologia del kundalini-yoga per Bollati Boringhieri e le recentissime Lettere, recensite in questo numero della RPA, per MA.GI.), prende in esame il rapporto di Jung con la cultura del suo tempo. Vengono richiamati tra l’altro le basi filosofiche schopenhaueriane, i rapporti col clero e in generale con la storia delle religioni, l’affascinante storia del cosiddetto Codex Jung, i rapporti con l’antropologia. Con il suo caratteristico stile di scrittura leggero (in senso calviniano), Perez fa emergere l’interdisciplinarietà del pensiero junghiano – una vera e propria Nuova Enciclopedia, nella felice immagine di Shamdasani – che vide un’efficace concretizzazione nelle Conferenze di Eranos.

Conclude il volume un contributo di Giovanni Rocci, storico della filosofia innamorato esegeta del pensiero junghiano (fondamentali i suoi libri C.G. e il daìmon. Filosofia e psicologia analitica; Jung. Il sacro e l’anima; La maschera e l’abisso. Una lettura junghiana.di Nietzsche), che dimostra come l’estetica crociana e la visione junghiana dell’arte come forma individuativa possano proficuamente integrarsi. Per entrambi, l’arte è conoscenza: dello Spirito per Croce, del per Jung.
Il mio editoriale sarebbe incompleto se trascurassi di presentare una novità per la RPA: l’inserimento di un contributo figurativo originale, dovuto al felice tratto di Prospero Andreani, un artista che ha sempre tenuto conto della realtà archetipica, a volte quasi incarnandola inconsapevolmente: si pensi agli acquerelli dedicati alle cosiddette città morte della Siria e pubblicati in elegante volume corredato di importanti testi col titolo I villaggi dimenticati. Il Maestro Andreani ci ha regalato un bozzetto per Jung che è un piccolo capolavoro di semplicità: un ritratto che con pochi colpi di china restituisce la saggezza, l’ironia e la piena umanità del Vecchio Saggio di Küsnacht, realizzazione vivente dell’archetipo senex et puer.


In foto:"Nuances"

(Nelle foto: Roma, Basilica di Santa Maria degli Angeli)


Editoriale di "Tracce di Jung"- Rivista di Psicologia Analitica,a cura di Lugi Turinese Ed.: Gruppo di Psicologia Analitica Roma 2007, Nuova serie n.23 Volume 75/2007

venerdì 2 aprile 2010

Oscillococcinum: Quando l'anatra fa bene


In luogo di una premessa
Molti ricorderanno il chiasso che fece, alla fine degli anni ’80, la vicenda della cosiddetta memoria dell’acqua, come la stampa si affrettò a battezzare un articolo sulla degranulazione dei basofili umani indotta da una soluzione altamente diluita dell'anticorpo anti-IgE.

L'articolo – apparso il 30 giugno 1988 sulla prestigiosa rivista scientifica Nature – era firmato, tra gli altri, da Jacques Benveniste, direttore dell'Unità 200 dell'INSERM, una delle maggiori istituzioni scientifiche francesi, una sorta di equivalente del nostro CNR. Vi si affermava che è possibile indurre un effetto molecolare (la degranulazione dei basofili) con una diluizione di anticorpi anti-IgE così spinta da non contenere neppure una molecola. La polemica che ne seguì arroventò l’estate dei mezzi di informazione, schierando opposte fazioni di detrattori e di sostenitori; tra questi ultimi spiccavano i fautori dell’Omeopatia, convinti che la dimostrazione dell’azione biologica delle ultradosi portasse acqua ( è il caso di dirlo…) al mulino della medicina dei simili.

Come che sia, la faccenda finì male, o almeno senza vincitori: Nature si affrettò a smentire gli autori con una presa di distanza pubblicata il mese successivo; e gli omeopati rimasero in parte convinti della bontà dell’esperimento e in parte – quorum ego – tiepidi o quanto meno filosoficamente scettici, sapendo come un esperimento isolato non basti a confermare o a smentire una disciplina. In ogni caso Benveniste, fino ad allora protagonista della ricerca internazionale – si deve a lui, ad esempio, la scoperta del PAF (fattore di aggregazione piastrinica) – fu sospeso dall’incarico all’INSERM, cui venne riammesso soltanto dopo aver ottenuto da lui una sorta di gentlemen’s agreement secondo il quale egli si impegnava a non flirtare più con l’Omeopatia e le sue stranezze.
Durante il periodo della sospensione, Benveniste tenne conferenze dovunque lo chiamassero. Ebbi la fortuna di ascoltarlo a Roma. Del suo notevole carisma faceva parte una disarmante simpatia. A un certo punto, per chiarire che all’origine dei risultati della sua ricerca non vi era alcun pregiudizio “filoomeopatico”, dichiarò di non conoscere l’Omeopatia se non per i nomi latini, vagamente medioevaleggianti, dei suoi medicinali; e per il fatto di prendere tutti, in famiglia, Oscillococcinum come antinfluenzale.


L’”effetto Cristoforo Colombo”

La teoria della gravitazione universale nasce ufficialmente nel 1687, anno in cui viene dato alle stampe “Principi Matematici della Filosofia Naturale”, l’opera principale di Isaac Newton (1642 - 1727). Ora, che l’intuizione di tale teoria sia da attribuire alla caduta di una mela sulla testa dello scienziato fa parte della leggenda. La leggenda reca tuttavia con sé una verità: ovvero che in molte scoperte il caso ha svolto un ruolo determinante.
La scoperta da parte di Louis Pasteur (1822-1895) degli stereoisomeri, molecole della medesima formula chimica ma con struttura speculare, si deve all'aver dimenticato una provetta sulla finestra aperta, esposta al freddo delle notti invernali parigine.
Negli anni ’30, il chimico farmaceutico Leo Sternbach stava compiendo delle ricerche al fine di sintetizzare una molecola ad azione sedativa; frustrato per i fallimenti, decise di iniettare l'ultima molecola sintetizzata in un animale, proprio per dare la prova alla sua casa farmaceutica che la famiglia di sostanze su cui si era concentrata la ricerca non era efficace. Il risultato fu la scoperta del Clordiazepossido, il prototipo dei moderni ansiolitici.


Nel luglio 1928 Alexander Fleming seminò stafilococchi su un terreno di coltura che lasciò sul tavolo di lavoro al momento di partire per le ferie. Al suo ritorno notò che là dove era cresciuta una muffa inquinante i batteri erano morti. La muffa si era sviluppata dalle spore che, entrate presumibilmente dalla finestra del laboratorio, erano cadute sulla piastra lasciata sul tavolo. Quell’anno, nel mese di luglio il clima era stato fresco e aveva favorito la crescita della muffa, inibendo nel contempo quella dei batteri. Successivamente, con l'aumento della temperatura, la coltura degli stafilococchi aveva iniziato la sua crescita e i batteri vicini alla penicillina erano morti.

Celeberrimo è poi l’aneddoto occorso al chimico organico August Friedrich Kekulé (1829-1896), alle prese da anni con la definizione della struttura del benzene. Una notte del 1865, stremato dal lavoro, si era appena addormentato quando gli apparve in sogno un serpente nell'atto di mordersi la coda. Improvvisamente ebbe l'intuizione che il benzene doveva possedere una struttura ciclica, esagonale e non lineare come a quei tempi si riteneva fosse la configurazione di tutte le molecole.

E' stata persino coniata una parola, serendipity, per indicare la ventura di imbattersi in scoperte inattese. Serendipity è un vocabolo coniato dallo scrittore inglese Horace Walpole (1717-1797) per indicare la capacità di scoprire, in maniera del tutto casuale, qualcosa che non ha nulla a che vedere con l’oggetto della ricerca. Il termine proviene dalla leggenda secondo la quale il sultano di Serendip (antico nome arabo dell'isola di Ceylon), essendo partito in cerca di oro, dopo aver attraversato monti e vallate con esito negativo, trovò invece del tè di ottima qualità.

E che dire di Cristoforo Colombo? Ammirato eroe delle scoperte geografiche, egli ci ha “regalato” un Continente ma, a ben vedere, aveva sbagliato strada, convinto di essere approdato nelle Indie. Da tutt’altra parte…

La strana storia del dottor Roy: un caso di Serendipity?
Joseph Roy (1891-1978) è un giovane medico militare quando la famigerata epidemia influenzale denominata Spagnola miete le sue vittime; alla fine, nel 1919, se ne conteranno almeno trenta milioni. Esaminando al microscopio il sangue dei malati, egli crede di scoprire un nuovo microrganismo, che denomina oscillococco perché animato da un movimento vibratorio. La speranza di aver compiuto una scoperta di rilievo si trasforma in certezza quando il giovane medico ritiene di trovare il medesimo agente batterico anche in malati di tumore – ne deriverà il libro “Vers la connaissance et la guérison du cancer” – nonché nelle ulcere sifilitiche, nel pus blenorragico, nei polmoni di malati di tbc. Successivamente i “nuovi” batteri – si tratta ormai di batteri universali – fanno la loro comparsa in ogni sorta di malati: eczematosi, erpetici, reumatici, affetti da malattie esantematiche. Dal punto di vista microbiologico, la teoria di Roy è evidentemente il risultato dell’elaborazione di un artefatto di laboratorio: probabilmente si era trattato di banalissimi diplococchi, che una tecnica di rilevazione ancora imprecisa e un bruciante desiderio di novità da parte del giovane ricercatore avevano trasformato nei vibranti oscillococchi. Sotto il profilo storico, si trattò probabilmente dell’espressione di una risposta antipasteuriana: non tutti, difatti, avevano ancora accettato la concezione che ogni malattia infettiva avesse una causa specifica. Gli scettici non ci misero molto ad abbracciare il verbo “monista” di Roy: una sola causa a spiegare la molteplicità delle malattie.

Si comprende come l’Omeopatia – soprattutto nella sua versione “protohahnemanniana”, col suo corredo di similitudine, forza vitale, miasmi – costituisse l’estuario naturale della ricerca di Roy. Egli pensò di applicare la sua “scoperta” al trattamento omeopatico del cancro. Per procurarsi la materia prima, il dottor Roy si rivolse ad uno dei serbatoi naturali del virus influenzale: le anatre, i cui organi viscerali – in particolare il cuore e
il fegato – gli erano sembrati ottime fonti di oscillococchi.


Nasce Oscillococcinum
Nel 1925, Roy cedette il suo brevetto ai Laboratoires Homéopathiques Modernes. Svanite pian piano le promesse intorno all’impiego in campo oncologico, era emersa una potente azione antinfluenzale del rimedio. Nel frattempo la tecnica di preparazione si era standardizzata, non differendo di molto da quella attuale. In una miscela di succo pancreatico e di glucosio si pongono a macerare (ad autolisarsi) frammenti di fegato e cuore di anatra (Anas Barbarie) in un rapporto pressappoco di 2:1. Dopo quaranta giorni si filtra l’autolisato ottenuto, che costituisce il ceppo di partenza per le preparazioni, poste in commercio alla duecentesima diluizione centesimale korsakoviana (200K). Dopo una quarantina d’anni di utilizzo (1966), il marchio di Oscilloccocinum (il nome di fantasia rispetta il fertile abbaglio del dottor Roy) fu acquisito dai Laboratoires Boiron, di cui rappresenta tuttora un prodotto di punta. L’anomalia del medicinale è costituita dalla mancanza di una patogenesi sperimentale propriamente detta: la sua patogenesi è infatti clinica, ricavata per così dire dall’uso empirico. L’indicazione è costituita dalle patologie da raffreddamento, nei confronti delle quali si configura al tempo stesso come preventivo e come curativo. Basti pensare che in Francia Oscillococcinum è l’antinfluenzale più diffuso. Pur mancando di una patogenesi sperimentale, Oscillococcinum è stato oggetto di numerose sperimentazioni cliniche condotte con i criteri più rigorosi. La letteratura internazionale, riportata in bibliografia, rappresenta una robusta conferma alla logica clinica del suo utilizzo. Dal punto di vista posologico, l’uso preventivo prevede una dose settimanale per tutta la stagione fredda, a cominciare dall’autunno. In terapia, si preferisce somministrarne una dose ogni otto ore ai primi sintomi, quando ancora il quadro non è conclamato. Dopo tre dosi, in genere, la malattia “abortisce”, nel senso che non si sviluppa; o decorre con una sintomatologia attenuata. Esistono evidenze sperimentali a conferma di una qualche azione terapeutica anche in quadri ormai conclamati, sebbene l’efficacia maggiore si riscontri appunto se somministrato precocemente. La sua uniformità di azione, cui consegue una grande maneggevolezza, spiega la fortuna di Oscillococcinum anche presso i medici non esperti in Omeopatia, per i quali rappresenta una valida alternativa ai prodotti tradizionali, nei confronti dei quali vanta oltre tutto un migliore indice terapeutico, data la totale assenza di effetti collaterali.

BIBLIOGRAFIA:
Casanova P., Gerard M.: Bilan de 3 années d’études randomisées multicentriques Oscillococcinum/placebo, Proposta Omeopatica 3, anno IV, Ottobre 1988.
· Ferley J.P., Zmirou D., D’Adhemar D., Balducci F.: A controlled evaluation of a homeopathic preparation in the treatment of influenza-like syndrome, British Journal of Clinical Pharmacology 1989; 27: 329-335.
· Papp R., Schuback G., Beck E., Burkard G., Bengel J., Lehrl S., Belon P.: Oscillococcinum in patients with influenza-like syndrome: a placebo-controlled double-blind evaluation, British Homeopathic Journal 1998; 87: 69-76.
· Saruggia M. et al.: Effetto preventivo di Oscillococcinum nelle sindromi simil-influenzali. Risultati di una indagine multicentrica, Medicina Naturale – N. 6, Novembre 1995.

Articolo apparso su "Farmacia 2007", ed. Tecniche Nuove

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