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"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia

giovedì 18 agosto 2011

Le Recensioni di L.T. - "Il pensiero del buddhismo indiano", di E. Conze

Edward Conze, "Il pensiero del buddhismo indiano", Edizioni Mediterranee, Roma 1988, pp. 339

Appare in traduzione italiana (ottima, di Flavio Poli, - orientalista sensibile e di vasti interessi - ricordiamo il suo originale studio su "Yoga e esicasmo"), ad oltre un quarto di secolo dalla edizione originale, questo voluminoso lavoro del Conze. Dobbiamo dire subito che l'età dell'opera si fa sentire, forse perché gli studi orientalistici, e la diffusione del buddhismo in particolare, hanno conosciuto nell'ultimo ventennio una fertile accelerazione.

Leitmotiv datato, e a volte francamente fastidioso, è un sapore di "rivolta contro il mondo moderno" (per pararfrasare Evola, nella collana fondata dal quale, non a caso, è pubblicato il libro) e una reiterata apologia dela "filosofia perenne" (l'insieme delle dottrine e pratiche che, con minime differenze di linguaggio, apparterrebbe da sempre e per sempre alla spiritualità dell'uomo, attraversandola metastoricamente). Si può osservare, tra l'altro, che il termine "perenne" suona particolarmente fuori posto in riferimento al buddhismo, in cui è centrale la sottolineatura dell'impermanenza di tutte le cose,dunque anche di ogni filosofia.
Come tutti i fautori della "filosofia parenne", inoltre anche Conze mostra una concezione della storia assai particolare. "Il solo tempo in cui sulla Terra vi fu una relativa pace fu l'età della pietra, quando nessuno aveva nulla e quando la produttività del lavoro era così bassa che un uomo non valeva più del cibo che mangiava" (Pag. 71). C'è da chiedersi da quale uomo della pietra Conze abbia tratto queste precise ed idilliache informazioni! ... E' onnipresente nel libro, l'idea che la fuga dal mondo costituisca il requisito basilare per maturare il nirvana. " Tutto ciò che è transitorio dovrebbe per questa ragione essere rifiutato" (pag. 31). "Nessuno può essere efficaciemenete tratto verso il nirvana se la sua fuga dal mondo non abbia raggiunto un certo impeto" (pag. 55). "Il nirvana è la negazione del mondo quale esso appare" (ibidem).

Questo rifiuto del mondo può corrispondere forse al pensiero dei primi buddhisti, ma suona stonato oggi che lo sviluppo del buddhismo, particolarmente in Occidente, ci ha abituati, non al rifiuto ma semmai alla relativizzazione del mondo, al'essere nel mondo qui e ora con appassionata, umana partecipazione pur rimanendo costantemente consapevoli della sua, e della nostra, impermanenza.

Molte delle affermazioni di Conze recano in definitiva il segno di un'oscura, strisciante misantropia (tratto, ahimé, non raro tra gli "spiritualisti"). "Per quanto riguarda la realtà vera, è affatto impossibile entrare in una reale relazione con altri individui, per la semplice ragione che i sé separati o gli individui non esistono veramente" (pag. 78). In effetti, la concezione buddhista dell'anatta comporta la negazione di ogni sostanzialità ai singoli individui; ma proprio per questo motivo si può ritenere, al contrario di Conze, che siamo tutti in una reale relazione, in una potenziale rete comunicativa, a dispetto dell'illusorio, sebbene colorato di angoscia, sentmento di separatezza che costituisce il nocciolo del nostro dramma esistenziale. A pag. 84, infine, sfugge all'autore l'affermazione più volte sfiorata, e da noi più volte sospettata come sua convinzione profonda, e cioè che "le nostre inclinazioni naturali ... (sono) nettamente misantropiche. Homo hominis lupus".
Questo è davvero troppo! e a mio avviso sufficiente a togliere spessore all'intero lavoro, che pure contiene parti non spregevoli. Si vedano ad esempio il capitolo sulle cinque virtù cardinali (fede, energia, attenzione, concentrazione, saggezza), la descrizione della posizione delle principali scuole buddhiste con le relative dispute dottrinali e, infine, il poderoso apparato bibliografico e di note. Quest'ultima caratteristica, in aggiunta ad una certa autorevolezza di Conze nell'ambito degli studi buddhisti, potrebbe forse fare di questo libro un classico testo di consultazione. La mancanza di un indice analitico, tuttavia, invalida parzialmente questa funzione.

Luigi Turinese


In foto: "La reggia del colibrì"

Recensione apparsa nella rubrica "Libri" di "PARAMITA, Quaderni di Buddhismo", Anno VIII, n.29, Gennaio-Marzo 1989

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