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"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia

lunedì 19 dicembre 2011

James Hillman, lo junghiano eretico

Un ricordo del filosofo e psicoanalista americano recentemente scomparso: la sua passione per la filosofia antica, il suo amore per la cultura mediterranea

di Luigi Turinese



La scomparsa di James Hillman (Atlantic City, 12 aprile 1926 – Thompson, 27 ottobre 2012), al di là del dispiacere da parte di chi lo ha conosciuto, segna un vallo tra due epoche. Hillman, difatti, a dispetto della chiamata in causa di categorie come quelle di postmoderno o addirittura di new age, rimane un intellettuale finissimo, molto novecentesco. Soprattutto, molto europeo.

Tra i grandi postjunghiani (Erich Neumann, Michael Fordham, Marie-Louise von Franz), Hillman è stato quello che più di tutti è uscito dal recinto degli addetti ai lavori, influenzando almeno due generazioni di persone di cultura che ne hanno fatto sovente un Maestro di vita. Pur non essendo facile sintetizzarne il percorso, non v’è dubbio che Hillman sia stato uno junghiano, sebbene per più versi uno junghiano eretico, temuto non meno che amato da molti suoi colleghi, spesso impegnati in un’opera di relativizzazione, se non di aperta critica, del suo lavoro.

Dopo una precoce attività di cronista, i suoi studi proseguono alla Sorbona (letteratura inglese) e al Trinity College di Dublino, dove si laurea in Scienze Mentali e Morali nel 1950. Nel 1959 ottiene il Ph. D. all’Università di Zurigo e il diploma di analista presso il C. G. Jung Institute, di cui sarà Direttore sino al 1969. L’anno successivo, Hillman intraprende anche l’attività di editore, inaugurando con le Spring Publications una collana di volumi e una Rivista, avente lo stesso nome, incentrati sulla Psicologia Archetipica, in tutto e per tutto considerabile un ramo eterodosso dello junghismo.

Pur riconoscendo un debito nei confronti dell’opera di Jung – fino a dichiarare le proprie opere altrettanti midrashim (1) dell’opera del Maestro zurighese –, Hillman ha approfondito lo studio degli archetipi – forme originarie dell’esperienza umana e transumana –, mostrando viceversa scarso entusiasmo per altri topoi dell’opera junghiana, come la tipologia, il procedimento dialettico per opposti e il concetto di Sé.

La sua produzione letteraria è vastissima, difficilmente riassumibile in poche righe. A scopo informativo e per favorire l’approccio di lettori neofiti, potremmo dividere i suoi libri in due categorie: i testi più tecnici (sebbene nessun lavoro di Hillman sia aridamente tecnico, pieno com’è di amplificazioni culturali) e quelli prevalentemente filosofici (il termine divulgativo non mi piace in generale e sarebbe del tutto fuorviante nella fattispecie). Al primo gruppo appartengono di diritto Il suicidio e l’anima (1964), Il mito dell’analisi (1972), Re-visione della psicologia (1975; per i suoi meriti stilistici, questo lavoro fu nominato per il Premio Pulitzer), Il sogno e il mondo infero (1979), La vana fuga dagli dei (1974, 1985), Le storie che curano (1983), Trame perdute (1970, 1971, 1975, 1983): tutti editi in Italia da Adelphi, tranne gli ultimi due (Raffaello Cortina)(2).

La “categoria filosofica” abbraccia lavori sparsi in tutto l’arco della produzione hillmaniana ma soprattutto presenti in forma “pura”, cioè privi di riferimenti alla pratica psicoterapeutica, dopo il 1989, anno in cui Hillman abbandona l’attività clinica. Si va da Senex et Puer (1964, 1979) a Saggio su Pan (1972), ai Saggi sul Puer (1973, 1975, 1976, 1979), a L’anima del mondo e il pensiero del cuore (1973, 1979, 1982), fino ai popolari saggi dell’età matura: Il codice dell’anima (1996), che gli ha dato fama da popstar, La forza del carattere (2000), Un terribile amore per la guerra (2004)(3).

Un’ottima introduzione al pensiero di Hillman sono i libri in forma di intervista: Intervista su amore, anima e psiche (1983, a cura di Marina Beer), Il linguaggio della vita (1983, conversazioni con Laura Pozzo), 100 anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio (1992, da un lungo dialogo con Michael Ventura), L’anima del mondo (2001), Il piacere di pensare (2004): questi ultimi due frutto di altrettanti, illuminanti conversazioni con Silvia Ronchey (4).

Un’eccellente occasione per farsi un’idea di prima mano è costituita inoltre dal volume antologico Fuochi blu (1989), curato da Thomas Moore e pubblicato in Italia da Adelphi.

Un posto a parte è rappresentato da Caro Hillman… venticinque scambi epistolari con James Hillman (Bollati Boringhieri, 2004; a cura di Riccardo Mondo e Luigi Turinese). Questo lavoro ha due originalità: la forma dell’epistolario (sono lettere indirizzate a Hillman su altrettanti temi del suo lavoro), di gran lunga più godibile e “leggera” rispetto alla tradizionale forma saggistica; e la presenza nel libro dello stesso Maestro, che risponde a ciascuna lettera rivelando il suo pensiero ma anche il suo carattere. Un altro intento del libro è quello di evidenziare lo speciale rapporto che ha sempre legato lo studioso di Atlantic City all’Italia e più in generale alla cultura mediterranea (Hillman è di gran lunga più conosciuto e amato nell’Europa meridionale che negli USA). In occasione del suo ottantesimo compleanno, trovandosi Hillman in Sicilia, lo abbiamo festeggiato come meritava. Nell’occasione, insieme a Riccardo Mondo, abbiamo dato vita all’Istituto Mediterraneo di Psicologia Archetipica, di cui Hillman è stato Presidente Onorario.

Dick Russell
, che ha scritto una biografia di Hillman in due volumi (uscirà l’anno prossimo negli Stati Uniti), ha dedicato ampio spazio ai rapporti del Maestro con la cultura italiana: rapporti di reciproca fascinazione e fecondazione, come attesta l’affermazione dello stesso Hillman che “la Psicologia Archetipica ha le sue origini nel Sud”.

Ma in che cosa si caratterizza, in definitiva, la Psicologia Archetipica? Intrisa di elementi neoplatonici – sono frequenti i riferimenti di Hillman a Plotino, Proclo, Marsilio Ficino, Giambattista Vico, oltre che naturalmente allo stesso Platone – essa allude sin dalla sua denominazione agli archetipi, forme primarie e universali del funzionamento psichico. Gli archetipi si manifestano in ogni aspetto della vita dell’uomo: compaiono nei miti, nei riti, nelle arti, oltre che nei sogni e nella stessa psicopatologia. Come è noto, Hillman recupera la mitologia greco-romana come costellazione metaforica elettiva del suo discorso.
In estrema sintesi, si possono individuare quattro topoi fondamentali nel discorso della psicologia archetipica:
I) Un’enfasi sulla nozione di anima.
II) Un recupero dell’immagine, che viene sottratta alla retorica negativa della fantasticheria.
III) Una re-visione della clinica alla luce delle attività primarie dell’anima e delle immagini da essa prodotte.
IV) Una re-visione della teoria della personalità nella cornice di una psicologia politeistica.

I – Anima
La psicologia archetipica restituisce all’anima il posto che le compete, come tertium tra lo spirito e il corpo: solo così, dando un luogo a psiche, si crea un luogo per la psico-logia, cioè per un discorso sull’anima. Osservata da questo vertice, la psicologia ha essenzialmente due compiti:
1) Trovare il logos dell’anima.
2) Ascoltare l’anima del mondo; ogni aspetto ed ogni evento del mondo sono infatti luoghi d’anima.
Da questo punto di vista, la psicologia archetipica possiede anche una valenza politica, avendo spostato l’oggetto di riflessione fuori dello studio dell’analista.
L’anima è una metafora primaria che abolisce il realismo, il naturalismo e il letteralismo: al contempo, re-immagina tutte le cose del mondo.
A proposito dell’anima, Hillman fa sua l’espressione fare anima, mutuata dall’ingiunzione del poeta John Keats (1795-1821): “Chiamate, vi prego, il mondo ‘la valle del fare anima’. Allora scoprirete a che cosa serve il mondo”. Ogni attenzione alle manifestazioni della psiche è un fare anima. Nel modo più semplice, si fa anima ogni notte, sognando.

II – Immagine
La psiche è eidopoietica: essa infatti produce immagini. L’immagine è per Hillman un dato primario, irriducibile. Aderire all’immagine è un dettato peculiare della psicologia archetipica, a partire dal lavoro sul sogno: quest’ultimo viene visto come un palcoscenico su cui si avvicendano le immagini prodotte dalla psiche piuttosto che come una rete di segni da decodificare. Prendere confidenza con le modalità immaginali consente l’apparizione sulla scena di quello che Hillman chiama Io immaginale: “L’Io immaginale – scrive Hillman – si rende conto che le immagini non sono sue […]. Nell’insegnare all’Io come sognare, la prima cosa da fare è quella di insegnargli che anch’egli è un’immagine […]. Il sogno non è ‘mio’, ma della psiche; e l’Io del sogno recita semplicemente uno dei ruoli del dramma, soggetto […] alle necessità messe in scena dal sogno”.

III – Clinica
Anche le sofferenze individuali vengono situate su di uno sfondo archetipico. La patologia testimonia l’autonomia della psiche nel creare sofferenze attraverso cui sperimentare la vita: fenomeno su cui Hillman insiste, definendolo patologizzazione e considerandolo un’attività propria dell’anima. La terapia consiste nella messa in scena di tali fantasie; e suo compito è di ricondurre i sentimenti personali alle immagini specifiche che li contengono. La psicologia archetipica, postulando figure mitiche universali attraverso cui tutta l’esperienza diviene possibile, necessita di un’ermeneutica dell’immagine, che comprende tecniche precise. Ad esempio, le figure immaginarie possono essere affrontate con il metodo dell’immaginazione attiva, che consente un vero e proprio dialogo con esse.
Per quanto riguarda il transfert, fenomeno sul quale la psicoanalisi focalizza ogni evento del campo terapeutico, la psicologia archetipica certo non lo sottovaluta; ma lo pone sullo sfondo mitico costituito dal mitologema di Eros e Psiche. L’incontro tra amore e anima viene visto in tutte le varianti immaginali e in tutti i suoi possibili stili retorici.

IV – Teoria della personalità
Nel formulare la teoria dei complessi a tonalità affettiva, Jung giunse a descrivere la personalità come una costellazione in cui la coscienza è contornata da personalità parziali. L’approccio archetipico radicalizza questa posizione, immaginando la personalità come un dramma, del quale l’io è uno dei personaggi, non necessariamente il protagonista. Uno dei compiti principali del fare anima consiste nel mettere in relazione la sfera egoica con le immagini non egoiche.

Note:
(1) Nella tradizione ebraica, si intende per midrash (pl. midrashim) il commento a un testo sapienziale.
(2) Laddove appaiono date plurime ci si riferisce a collazioni di testi pubblicati in inglese separatamente e riuniti in un unico testo nell’edizione italiana.
(3) Tutti editi in italiano da Adelphi (alcuni dopo edizioni precedenti presso altre case editrici), tranne Saggi sul Puer (Raffaello Cortina).
(4) I primi due libri-intervista sono editi in italiano da Garzanti, gli altri da Rizzoli.

Luigi Turinese


In foto: "Silver sea-line"

Articolo pubblicato su: PNEI NEWS n. 5-6 Ottobre Dicembre 2011, pp. 36-37

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