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domenica 3 dicembre 2017

“Il mio incontro con Ernst Bernhard” – intervista a Marcello Pignatelli, di Riccardo Mondo e Luigi Turinese


“Il mio incontro con Ernst Bernhard”
intervista a Marcello Pignatelli 
di Riccardo Mondo e Luigi Turinese


Nell’intervistare Marcello Pignatelli si ha la sensazione di affondare nella storia vivente della psicologia analitica in Italia. La ricchezza e varietà della sua vita nell’associazionismo junghiano, lo rendono un interlocutore particolarmente interessante per alcune riflessioni sulla nascita e sul primo sviluppo della psicologia complessa in Italia, realizzatosi intorno alla figura di Ernst Bernhard.
 Ognuno di noi è concatenato alla storia dell’altro costruendo, tassello dopo tassello, la storia della psicologia analitica. Lo incontriamo nel suo studio romano, rivivendo  emotivamente alcuni dei nostri giovanili momenti formativi, ricchi delle conversazioni con Marcello Pignatelli e con Bianca Garufi su aneddoti e ricordi che costituiscono il tessuto della storia della psicologia analitica italiana [1]

Marcello Pignatelli ha ben presto aderito al gruppo di analisti formatisi attorno alla figura carismatica di Ernst Bernhard, attraversando il complesso periodo  della  nascita delle due prime società analitiche aderenti all’IAAP, l’Associazione Italiana di Psicologia Analitica  e il Centro Italiano di Psicologia Analitica. Psicologo didatta dell’AIPA, ne è stato presidente dal 1980 al 1984, ed ha anche fatto parte in quegli anni del comitato esecutivo dell’IAAP. Nel 1970 è stato uno dei fondatori della  prima rivista italiana di ambito junghiano, la  Rivista di Psicologia Analitica, e per oltre un decennio ne è stato il direttore responsabile. Successivamente, nel 1977, ha fondato il Giornale storico di psicologia dinamica. 
Oggi Marcello Pignatelli, superati con la sua proverbiale eleganza intellettuale i novantatré anni, incarna a sua volta la figura di un maestro riluttante della psicologia analitica italiana. Infatti  allontana ogni nostro possibile riferimento alla sua figura di maestro con divertenti umanizzazioni.
Sobrio, ironico, con uno sguardo sottile e decostruttivo, Marcello Pignatelli ci ha insegnato a non cadere nella trappola dell’enfasi dei seguaci  dei vari gruppi e sottogruppi analitici. 
Con lo spirito indipendente che lo ha sempre caratterizzato, ama ricordare le sue amicizie con illustri pensatori di altre società analitiche, ricercando il dialogo anche nei momenti più controversi tra le società analitiche.   
 La sua metacomunicazione tocca quindi implicitamente alcuni cardini della psicologia analitica: dalla negazione dell’imitazione di un modello analitico, che si incarna nell’equazione personale di ognuno di noi, al pluralismo prospettico che ci pare la più interessante eredità di Carl Gustav Jung

Marcello, sei stato tra i primi ad assistere all'ingresso delle idee del maestro Jung in Italia. Qual era lo stato della psicoanalisi italiana in quel periodo. E che cosa ha cambiato nell'immaginario dell'epoca la figura dell'eretico Jung?

In Italia, nel secolo scorso, c'era stato l’ingresso del freudismo, soprattutto grazie alla figura del triestino Edoardo Weiss e del veneziano Cesare Musatti. Il movimento discendente dalla psicologia analitica era ancora embrionale, e vi era stato  un iniziale periodo di collaborazione con il mondo freudiano. Va ricordata la stretta amicizia di Bernhard con Weiss, Presidente della Società Psicoanalitica Italiana, che invitò l’amico, appena giunto a Roma nel 1936, a tenere tre conferenze sullo studio del sogno in una prospettiva junghiana, poi pubblicate dalla Rivista di Psicologia Analitica.   
Tuttavia le leggi razziali, nel 1938, spazzarono via ogni riferimento e collaborazione intorno alla nuova scienza ebraica, tanto che Musatti, ad esempio, fu allontanato dall'insegnamento universitario e declassato ad insegnante di liceo. 
La tematica si riapre dopo la guerra. Dal canto suo, Ernst Bernhard aveva fatto una analisi freudiana a Berlino con Otto Fenichel – a Berlino,  dove lavorava come pediatra, aveva avuto anche due figli da un primo matrimonio – poi era passato allo junghismo mercé una analisi con Toni Sussmann. I rapporti con Jung furono complessi, talora sporadici e tiepidi. In seguito all’aggressiva politica antisemita da parte del nazismo in Germania, Bernhard dovette emigrare. 
In un primo tempo desiderava andare in Inghilterra ma poiché spaziava oltre la psicologia analitica, faceva anche il chirologo e aveva interessi esoterici, gli inglesi – che pure avevano dato asilo a Sigmund e Anna Freud – non vollero accoglierlo, malgrado la presentazione di Jung. Motivo per cui si rifugiò in Italia, dove peraltro nel 1940 fu arrestato e poi mandato al confino.  Ma i suoi problemi non finirono con il confino, interrotto grazie all’interessamento dell’orientalista Giuseppe Tucci: tornato a Roma durante l’occupazione nazista, visse segregato in una stanza separata dal resto della casa. 
Continuavano comunque le attestazioni di stima da parte di esponenti del mondo freudiano, come Nicola Perrotti, Cesare Musatti  e in particolare Claudio Modigliani. Ma l’interesse per lo junghismo si manifestava soprattutto nell’incontro con grandi personaggi della storia culturale italiana del dopoguerra, come Adriano Olivetti, Bobi Bazlen, Federico Fellini, Natalia Ginzbug, Giorgio Manganelli. Diversi di questi fecero un’esperienza analitica con Bernhard. A quei tempi andare in analisi junghiana non era dovuto a immediate esigenze sintomatiche, quanto alla necessità di esplorare se stessi, immergersi nella fantasia immaginativa, ascoltare la saggezza criptica dell’inconscio. 
Poi si costituì un primo gruppo di colleghi che fecero un tenace lavoro di diffusione del pensiero junghiano, tramite gruppi studio, conferenze, attività seminariali. Ricordo l’amica Bianca Garufi, che cominciò l’analisi con Bernhard nel 1944. Poetessa, intratteneva rapporti con Cesare Pavese, che conosceva l’opera di Jung e  che aveva sorprendentemente pubblicato nel 1932, con Rascher di Zurigo, una raccolta di saggi dal gusto junghiano.

Ricordi il tuo ingresso nel leggendario studio di Ernst Bernhard in Via Gregoriana? 

Il mio ingresso me lo ricordo bene. Io avevo il mio studio medico in centro, in via dei Prefetti. Avevo una vita professionale ricca e un po' particolare, dopo aver lasciato l’attività ospedaliera. Mia moglie, che sempre mi anticipava, mi suggerì di interessarmi alla psicoanalisi. Feci qualche esperienza psichiatrica al Santa Maria della Pietà – tra l'altro ho assistito ai primi elettroshock – poi intrapresi per qualche tempo un’analisi freudiana con un allievo di Perrotti ma senza grandi risultati. 
Il noto psichiatra Bruno Callieri, che era un mio amico dai tempi del Santa Maria della Pietà, mi disse che, avendo una certa spiritualità, avrei tratto maggior vantaggio da un’analisi junghiana e mi suggerì questo medico tedesco di mentalità più aperta. Mi diede l'indirizzo di Bernhard, che tra l’altro aveva lo studio in Via Gregoriana, non lontano dal mio. 
Salgo con l'ascensore, entro, percorro un corridoio stretto e mi trovo di fronte a un signore alto e calvo. Era il 1962. Mi stringe la mano e andiamo in una stanza grande. Mi fa sedere davanti a lui e mi esamina le mani, facendomele alzare e ricadere, per dedurre la mia reattività nervosa. Poi mi chiede la data e l’orario di nascita per calcolare il mio tema natale. Dapprima rimasi un po’ sconcertato, poi il percorso si snodò tra l’analisi e frammenti di insegnamento spirituale (per esempio Bernhard regalava volentieri ad alcuni suoi pazienti L’abbandono alla Provvidenza Divina, del gesuita De Caussade, che aveva fatto tradurre per la collana di Astrolabio che dirigeva). 
Bernhard inseriva nel suo lavoro elementi analitici altamente junghiani, come l’immaginazione attiva, la visione finalistica del sogno, la funzione trascendente, ma li trasmetteva come una guida, un guru. Non approfondiva la lettura del transfert e controtransfert.  Io sono arrivato piuttosto tardi rispetto ad altri allievi. L’Aipa era in fase di costruzione e iniziai a partecipare alle riunioni ma inizialmente da esterno, insieme a ebrei come Gianfranco Tedeschi e Mario Trevi, che veniva accompagnato dalla moglie filosofa, e a personaggi della cultura come Bobi Bazlen. Questo primo gruppo era caratterizzato da un alto livello culturale ma da una certa confusione metodologica e forse da una scarsa attenzione clinica. 
Prima di morire Bernhard mi regalò un ultimo libro, che conservo con cura, poiché contiene una dedica molto affettuosa nei miei riguardi. Il libretto è Lo Zen e il tiro con l’arco di Eugen Herrigel. Si intuisce da questa scelta la disposizione metapsicologica di Bernhard, poiché nello Zen il bersaglio non si colpisce con la perfezione della tecnica, mirando all’obbiettivo, ma affidando la freccia alla forza dello spirito, anche se l’arciere ha occhi bendati. 
La mia analisi con Bernhard era terminata con la sua morte. Retrospettivamente, devo dire che era un personaggio apparentemente  freddo ma dotato di un profondo carisma. Credo di averlo compreso e apprezzato completamente soltanto di fronte al suo morire. Ricordo la sua espressione “patire la morte in piena coscienza”, cosa che realizzò con lucidità e dignità.

Dopo la morte di Bernhard che cosa è successo nel mondo junghiano? 

Nel mondo junghiano è successo che, come spesso accade, quando muore il padre i figli litigano. In questo caso contribuì anche una certa ambiguità da parte di Bernhard, che aveva promesso a Moreno la prima Presidenza dopo la sua morte ma nel contempo aveva dato le chiavi dell’Aipa a Tedeschi: un gesto altamente simbolico. Per cui, morto Bernhard nel 1965, già nel 1966 si realizzò la scissione e nacque il Cipa. Io, che non ero ancora scritto all’Aipa ma ero entrato in confidenza con molti colleghi, in particolare con Mario Trevi, mi sono adoperato a lungo per evitare questa scissione, che mi sembrava una soluzione assurda. 
Nel ‘65 avevo iniziato a vedere qualche persona ma fino al ‘69 ho fatto il medico internista: nel mio studio la mattina mi mettevo il camice e visitavo, mentre il pomeriggio facevo psicoterapia. In un certo senso ho avuto un interregno tra il ‘65 il 1970. Dopo la scissione del Cipa dall’Aipa, essendo uno dei personaggi che frequentava il gruppo da più tempo entrai all’Aipa e visto che le cose non andavano bene – si erano avvicendati Presidenti uno dietro l'altro –   ne divenni in breve tempo Presidente, contribuendo a scrivere lo Statuto. 
In quel tempo abbiamo dato un ordine e nacque il famoso quartetto (Lo Cascio, Carotenuto, Aite, Pignatelli) che diede origine alla Rivista di Psicologia Analitica. Bisogna dire che Carotenuto, con tutti i suoi limiti, era una persona sicuramente intelligente: molto attivo e un vero bibliofilo. Il resto è storia.

Note:
[1] Marcello Pignatelli, Psicologia analitica, percorsi italiani. Il racconto di un testimone, MaGi Edizioni, Roma, 2007. 

 Intervista pubblicata su enkelados - Rivista Mediterranea di Psicologia Analitica (Nuova Ipsa Editore), Anno V, 
n 6/2017, pp 15-19

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