Note
in margine al nuovo codice deontologico della professione medica
di Luigi Turinese
Lo
scorso 18 maggio, a Torino, è stata approvata la nuova edizione del codice
deontologico dei medici. Come accade solitamente in questi casi, si sono subito
levate voci di dissenso: da parte di specifiche categorie – come quella degli
infermieri – oppure sotto forma di riflessioni da parte di voci critiche di
liberi pensatori.
Tra queste ultime, occorre segnalare quella, sempre foriera
di riflessioni costruttive, di Ivan Cavicchi – già direttore generale di
Farmindustria – che sul portale www.quotidianosanita.it
del 4 giugno scorso attacca il codice, definendolo “privo di quelle basilari
garanzie di pertinenza che ne dovrebbero fare uno strumento […] di governo
della realtà particolarmente problematica del medico”.
In sostanza, da anni Cavicchi
lamenta, nei suoi molti imprescindibili scritti, l’assenza di un “progetto di
medico”: si vedano tra gli altri “Ripensare la Medicina” (Bollati Boringhieri,
2005) e “Una filosofia per la
Medicina” (Dedalo, 2011).
Dal canto suo Salvo Calì, presidente del Sindacato
Medici Italiani (SMI), accusa il codice di non
affrontare seriamente il grave problema del conflitto di interessi: per
fare un esempio, Amedeo Bianco è leader Fnomceo, dunque promotore del codice,
ma anche senatore della Repubblica.
A uno sguardo sintetico e sorvolando su
specificità come quelle cui ho fatto cenno, ciò che colpisce è il sapore di una
proposta formalizzata sull’idealità. Tutto sommato, anche la celebre
definizione di salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS – “La
salute è uno stato di completo benessere fisico, psicologico e sociale e non
solamente assenza di malattia” (1948) – aveva le stesse caratteristiche di
proposta ideale, cui la realtà dei fatti si incarica fin troppo spesso di dare
una secca smentita. All’articolo 5 del codice, ad esempio, si legge: “Il medico
promuove l’adozione di stili di vita salutari”. Sarebbe bellissimo ma sappiamo
che non è così: spesso il medico non sembra crederci veramente; e in non pochi
casi, inoltre, è il primo a non praticare tali stili di vita. Ciò vale anche
per il controllo efficace del dolore, di cui all’articolo 16, obiettivo sovente
disatteso per la mancanza, nel nostro Paese, di una cultura dell’analgesia e
delle cure palliative. Viene poi suggerita cautela nei confronti dell’abuso dei
mezzi tecnologici; questi non sono strumenti del demonio ma vanno calati nella
dimensione umanistica costituita da una solida alleanza terapeutica, che il
codice, a essere onesti, caldeggia, accanto a un richiamo all’informazione e
alla comunicazione.
Tuttavia, anche qui dobbiamo invocare i fatti, più che le
parole: se non si costruisce una cultura della relazione terapeutica, al centro
della quale porre la dimensione della medicina
narrativa, esortazioni di questo genere rimarranno materia per una retorica
del volemose bene. Due articoli
riguardano realtà emergenti: l’articolo 78 concerne la “medicina potenziante ed
estetica”; mentre all’articolo 15 si fa un benemerito cenno (speriamo, in
futuro, in qualcosa di più definito) a “prevenzione, diagnosi e cura non
convenzionali”.
Luigi
Turinese
In foto: Ippocrate , Galeno - Foto di Gianna Tarantino