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"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia

mercoledì 15 marzo 2023

Una comunità immaginale. L'eredità di James Hillman - di Luigi Turinese - Articolo pubblicato sul n. 31 di Arthos - I TEMPI ULTIMI

 


Una comunità immaginale. L'eredità di James Hillman
 di Luigi Turinese 

“Quando ti manca l’aria dei miti, scivoli nel fatto personale
Arturo Martini

A oltre un decennio dalla scomparsa, è lecito chiedersi quale sia l’eredità di James Hillman (Atlantic City, 12 aprile 1926 – Thompson, 27 ottobre 2012)  nell’ambito del pensiero contemporaneo, psicoanalitico e non. Hillman rappresenta una figura di complessa collocazione. A dispetto della chiamata in causa di categorie come quelle di postmoderno o addirittura di new age, rimane difatti un intellettuale finissimo, molto novecentesco. Soprattutto, molto europeo. Tra i grandi postjunghiani (Erich Neumann, Michael Fordham, Marie-Louise von Franz), è stato quello che più di tutti è uscito dal recinto degli addetti ai lavori, influenzando almeno due generazioni di persone di cultura che ne hanno fatto sovente un Maestro di vita. Parlo di persone di cultura, non strettamente di psicoanalisti, perché tra questi ultimi Hillman è stato più divisivo che ispiratore. 
Anni fa, nell’ambito di uno dei tanti convegni che organizzammo a Catania sul suo pensiero, feci un piccolo esperimento. Chiesi cioè quanti fossero gli psicoterapeuti in sala: ebbene, si levarono davvero poche mani, tra le oltre cento persone presenti. Un altro aneddoto. Ero in aereo e stavo leggendo una delle interviste pubblicate all’inizio del nuovo secolo da Silvia Ronchey (Hillman, 2001; 2004); arrivò da dietro una giovane assistente di volo la quale, sbirciando sopra la mia spalla la pagina che stavo leggendo, mi chiese con sicurezza: “È Hillman?”. Due episodi che raccontano l’enorme diffusione pop del pensiero di Hillman successivamente alla pubblicazione del suo best seller più noto, ovvero Il codice dell’anima (1996). 
La sua produzione letteraria è vastissima. A voler essere schematici, si possono individuare due categorie di lavori: i testi più tecnici (sebbene nessun lavoro di Hillman sia aridamente tecnico, pieno com’è di amplificazioni culturali) e quelli prevalentemente filosofici, con proporzione crescente a partire dagli anni ‘90, dopo l’abbandono dell’attività clinica. A proposito dei libri scritti a partire dal citato Il codice dell’anima, superficialmente considerati divulgativi, faccio notare che sono anch’essi dotati di un apparato critico di tutto rispetto. 
Pur non essendo facile sintetizzarne il percorso, non v’è dubbio che Hillman sia stato uno junghiano, sebbene per più versi uno junghiano eretico, a partire dal suo aver ipertrofizzato una parte del pensiero di Jung – quella legata agli archetipi –, lasciando in ombra o mostrando scarso entusiasmo per altri topoi dell’opera junghiana, come la tipologia, il Sé, il procedimento dialettico per opposti e conseguentemente per la nozione di funzione trascendente[1]
È dunque legittimo considerare la Psicologia Archetipica un ramo eterodosso della Psicologia Analitica.  “Nel teatro della memoria origina e si sviluppa ogni drammaturgia della nostra vita; ed alcune figure più di altre costellano l’attivazione del nostro daimon. In questo senso, appare indubbio che Hillman – sulle tracce di Jung – abbia costruito il suo percorso individuativo. Ne è commovente testimonianza l’ossessiva passione che caratterizza il libro Anima [2],  tutto costruito sulla giustapposizione tra il testo hillmaniano – che si svolge sulle pagine di destra – e le relative fonti junghiane – che dalle pagine di sinistra costituiscono tracce, pietre miliari, a scandire il percorso archeologico in cui si avventura l’esploratore Hillman. 
Da questo punto di vista, la Psicologia Archetipica è un’amplificazione di una parte del corpus teorico junghiano. Tuttavia, quanto rimane oggi dell’imprinting originario nel pensiero hillmaniano?” (Mondo-Turinese, 2021: 41). La domanda in questione è cruciale e non di univoca risoluzione. “Sebbene Hillman si sia allontanato – ipertrofizzandone una parte – dalla totalità del sistema junghiano e poi dalla pratica analitica formale per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, l’ispirazione junghiana rimane forte; si vedano a questo proposito le pagine dedicate alla relazione personale con Jung contenute in due libri-intervista: Intervista su amore anima e psiche [3]  e Il piacere di pensare [4] . In un passaggio di quest’ultimo libro ci sorprendiamo a leggere, a proposito della presenza di Jung nella vita di Hillman: ‘Ancora oggi la sua figura mi appare in sogno. Parliamo. Lui è vecchio, vivace e disinvolto. Lo interpreto come un avo, uno spirito antenato’” (Mondo-Turinese, 2021: 41). Non si tratta, beninteso, di culto della personalità; ma di rispetto del senso storico che, nel caso di Jung, si tramuta in un senso mitologico. 
Certo, alcuni assunti di Jung sono esplicitamente rifiutati da Hillman. Pure, egli condivide con Jung uno stile mitologico e drammatizzante e una certa inclinazione al radicalismo. La scrittura di Hillman appare più scorrevole, sebbene si tratti di una leggerezza soltanto apparente, frutto di un lavoro di cesello e di una inesausta rielaborazione e correzione delle prima stesure. Jung, al contrario, è sempre ostico, preso com’è da un furore amplificatorio in cui il linguaggio della psiche lo spinge a torcere i concetti e lo allontana sovente dal centro del discorso. 
Entrambi rifuggono dal caso clinico, cosa in un certo senso più comprensibile per Hillman che per il medico Jung, il quale in effetti porta esempi tratti dal suo lavoro clinico, segnatamente nei seminari extracanonici; e tuttavia li utilizza per corroborare le sue tesi, non diversamente da come chiama in causa miti e archetipi dell’inconscio collettivo. Altro elemento che accomuna Jung e Hillman è il carattere eretico delle loro posizioni. “L’affermazione di eresia non è casuale e richiama la negazione di alcuni dogmi portanti in seno ad un movimento. È il destino che caratterizzò Jung, per rimanere aderenti al discorso psicoanalitico, ma riguarda fondamentalmente il destino del pensare liberamente nei raggruppamenti umani. Potremmo anche comprenderne la sua fisiologica funzione come meccanismo che impedisce la disgregazione totale del gruppo. L’eretico è in questo senso il collante che rende possibile ogni ortodossia. “L’eretico è colui che mette in atto ciò che fin dall’origine era – in potenza – un’antinomia nel nucleo dottrinario principale” [5] . Egli non produce ex novo ma ipertrofizza una parte del discorso originario, che tutto sommato accetta come dotato di verità ma non come inconfutabile (dogma). L’eresia è una convinzione maturata individualmente, come attesta la sua etimologia (hàiresis = scelta); e l’eretico vuole essere un soggetto attivo della propria salvezza. Naturalmente, egli è visto come fumo negli occhi dai guardiani del soglio dell’ortodossia. “Quelli che approvano un’opinione privata la chiamano opinione; ma quelli che la disapprovano la chiamano eresia”. (Hobbes, Leviatano) […] Con la pubblicazione, nel 1912, di Wandlungen und Symbole der Libido,[6]  Jung sancisce il percorso di allontanamento da Freud. Due anni prima – a Vienna – si era verificato tra i due il seguente colloquio, rivelatore delle intenzioni di entrambi. “Mio caro Jung, promettetemi di non abbandonare mai la teoria della sessualità […] dobbiamo farne un dogma, un incrollabile baluardo”. “Prima di tutto” – è il commento di Jung – “furono le parole baluardo e dogma che mi allarmarono, perché un dogma [7],  cioè un’incrollabile dichiarazione di fede, viene stabilito solo quando si ha lo scopo di soffocare i dubbi una volta per sempre […] Fu un colpo che inferse una ferita mortale alla nostra amicizia”[8]. “ (Mondo-Turinese, 2021: 30). 

Note

 1. Con questo termine si indica il tertium che può scaturire dal mantenimento in tensione di una coppia di opposti (ad esempio la dimensione conscia e quella inconscia). In altri termini, si attiva la funzione trascendente ogniqualvolta le antinomie non scadono in conflitto, eludendo così il principio di non-contraddizione. 
 2.  Hillman, J. (1985): Anima. Anatomia di una funzione personificata, Adelphi, Milano 1989.
3.  Hillman, J.: Intervista su amore anima e psiche (a cura di Marina Beer), Laterza, Roma-Bari 1983, pp. 16-19.
 4. Hillman, J.: Il piacere di pensare (conversazione con Silvia Ronchey), Rizzoli 2004, pp. 22-26.
5.  Da una conversazione col filosofo Guido Traversa.
 6. Jung, C.G.: “Simboli della trasformazione”, (1912-1952), in Opere, volume 5, Bollati Boringhieri, Torino 1970. 
 7. I corsivi sono nostri.
8.  Jung,C. G.: Ricordi, sogni, riflessioni, (1961), Rizzoli, Milano 1978, p. 191.

***

Oltre allo stesso Jung, un precursore della Psicologia Archetipica può essere considerato Henry Corbin (1903-1978), studioso di quell’ ’âlam al-mithâl in cui i filosofi iraniani situavano le visioni dei mistici e dei poeti; e che, nella tradizione dell’Europa mediterranea, corrisponde al mundus archetypalis e al mundus imaginalis. Intrisa di elementi neoplatonici – sono frequenti i riferimenti di Hillman a Plotino (205-270), Proclo (410-485), Marsilio Ficino (1433-1499), Giambattista Vico (1668-1744), oltre che naturalmente allo stesso Platone (427-347 a.C.) – la Psicologia Archetipica allude sin dalla sua denominazione agli archetipi, forme primarie e universali del funzionamento psichico. Essi si manifestano in ogni aspetto della vita dell’uomo: compaiono nei miti, nei riti, nelle arti, oltre che nei sogni e nella stessa psicopatologia.  Hillman recupera la mitologia greco-romana come costellazione metaforica elettiva del suo discorso. In estrema sintesi, si possono individuare quattro topoi fondamentali nel discorso della psicologia archetipica:
I) Un’enfasi sulla nozione di anima.
II) Un recupero dell’immagine, che viene sottratta alla retorica negativa della fantasticheria.
III) Una re-visione della clinica alla luce delle attività primarie dell’anima e delle immagini da essa prodotte.
IV) Una re-visione della teoria della personalità nella cornice di una psicologia politeistica.

I) Anima
La Psicologia Archetipica restituisce all’anima il posto che le compete, come tertium tra lo spirito e il corpo: solo così, dando un luogo a psiche, si creano i presupposti per la psicologia, che è un discorso sull’anima. Osservata da questo vertice, la psicologia ha essenzialmente due compiti: trovare il logos dell’anima e ascoltare l’anima del mondo: ogni aspetto e ogni evento del mondo sono infatti luoghi d’anima. 
Avendo spostato l’oggetto di riflessione fuori dello studio dell’analista, la Psicologia Archetipica possiede anche una valenza politica. Fu paradigmatico, in tal senso, l’intervento di Hillman al Convegno internazionale della IAAP (International Association for Analytical Psychology), tenutosi nel 1988 all’Accademia dei Lincei di Roma. La relazione si intitolava significativamente Dallo specchio alla finestra: curare il narcisismo della psicoanalisi (Hillman, 1988). “Con questa epocale relazione tenuta all’Accademia dei Lincei nel 1988  cominciò di fatto la Sua pratica di analista in esilio volontario dalla stanza d’analisi […] 
E ci piace immaginare, caro James, che qualche giorno dopo la relazione dei Lincei Lei sia andato alla finestra del Suo studio analitico, abbia guardato il mondo e, abbagliato da questa visione, sia sceso per la strada, lì rimanendo” (Mondo-Turinese, 2021: 33). 
L’anima è una metafora primaria che abolisce il realismo, il naturalismo e il letteralismo: al contempo, re-immagina tutte le cose del mondo. A proposito dell’anima, Hillman fa sua l’espressione fare anima, mutuata dall’ingiunzione del poeta John Keats (1795-1821): “Chiamate, vi prego, il mondo ‘la valle del fare anima’. Allora scoprirete a che cosa serve il mondo”. 
Ogni attenzione alle manifestazioni della psiche è un fare anima. Nel modo più semplice, si fa anima ogni notte, sognando. Sognando, inoltre, impariamo a morire: innanzitutto all’Io, che viene in qualche modo “decentrato”, consentendo di prendere confidenza con altre figure della psiche. 
Magistrale, in tal senso, è Il sogno e il mondo infero (Hillman, 1979), in cui viene ribaltata la tradizionale ingiunzione psicoanalitica a tradurre il linguaggio notturno in linguaggio diurno, dominato dalle esigenze dell’Io: una variazione sul tema freudiano del rendere cosciente l’inconscio. Hillman, viceversa, propone di scendere nelle profondità della psiche – nel mondo infero, appunto – per costruire un “Io onirico” capace di dialogare con le istanze psichiche normalmente sacrificate sull’altare dell’Io forte.

II – Immagine
La psiche è eidopoietica, produce immagini per sua stessa natura. L’immagine è un dato primario, irriducibile. Aderire all’immagine è un dettato peculiare della Psicologia Archetipica, a partire dal lavoro sul sogno: quest’ultimo viene visto come un palcoscenico su cui si avvicendano le immagini prodotte dalla psiche piuttosto che come una rete di segni da decodificare. 
Prendere confidenza con le modalità immaginali consente l’apparizione sulla scena di quello che Hillman chiama Io immaginale: “L’Io immaginale” – scrive Hillman – “si rende conto che le immagini non sono sue […]. Nell’insegnare all’Io come sognare, la prima cosa da fare è quella di insegnargli che anch’egli è un’immagine […]. Il sogno non è ‘mio’, ma della psiche; e l’Io del sogno recita semplicemente uno dei ruoli del dramma, soggetto […] alle necessità messe in scena dal sogno”. 
Come accennavo sopra, a Henry Corbin si deve l’aver colto la sostanziale sovrapponibilità tra l’‘alam al-mithal e il mundus imaginalis, che rispecchia il mondo terreno a livello archetipico. In esso, lo spazio e il tempo sono reali ma qualitativi. Vi si accede tramite l’immaginazione (imaginatio vera, che non è sinonimo di fantasticheria), la quale consente di conoscere per analogia, trascendendo il dualismo tra materia e spirito. 
La distinzione tra immaginazione e fantasticheria corrisponde a quella tra la categoria dell’immaginale – luogo dell’esperienza simbolica – e quella dell’immaginario, che riduce l’immagine a oggetto della percezione sensibile. L’immaginazione è una funzione in grado di trasmutare i dati sensibili in simboli, è l’”occhio di fuoco” che consente la visione del Roveto Ardente (cfr. Esodo e Corano). 
“Le immagini, come il mito, sono necessarie per l’incantamento dell’anima, dice Platone” (Avens, 1984/2003: 117). 
Per non cadere in tentazioni ipostatizzanti, si deve tener presente che l’immagine non è un contenuto che vediamo, bensì una prospettiva attraverso la quale vediamo: uno sguardo immaginale. In altri termini, l’immaginazione è uno strumento ermeneutico, un dispositivo di conoscenza.
Plotino insegna che alla base della coscienza vi sono le immagini fantastiche. Gli fa eco Jung, quando scrive: “Ogni processo psichico è un’immagine e un immaginare, altrimenti non potrebbero esistere di quel processo né  coscienza né fenomenalità” (Jung, 1939: 555). Gli archetipi junghiani non sono altro che immagini fantastiche primordiali. 
Il ruolo dell’immagine come intermediaria tra il pensiero e l’essere è alla base della filosofia del Rinascimento, ripresa da Giambattista Vico (1668-1744), tardo neoplatonico che nella Scienza Nuova descrive gli universali fantastici come strutture primarie della mente. Sede dell’immaginazione è il cuore: l’himma di cui parla Ibn ‘Arabi, riferendosi alla quale Hillman scrive, seguendo Corbin: “L’azione caratteristica del cuore non è il sentimento, ma la visione […] Il cuore non è tanto il luogo del sentimento personale, quanto il luogo del vero immaginare” (Hillman, 1981: 57). 
In questo senso possiamo considerare L’ultima immagine (Ronchey-Hillman 2021) come un vero e proprio lascito testamentario, a partire dal titolo. Il libro è frutto di un eccellente e devoto montaggio, da parte di Silvia Ronchey, di due dialoghi lunghi e complessi: l’uno svoltosi nel 2008, in occasione di un viaggio a Ravenna; l’altro nell’autunno 2011, a testimoniare le ultime settimane di vita di Hillman, dialetticamente vitalissime a dispetto del cancro in fase terminale.

III – Clinica
Spesso è stata rivolta alla Psicologia Archetipica l’accusa di baloccarsi con estetismi intellettuali, trascurando la clinica. 
Accusa superficiale: nella pratica, anche le sofferenze individuali vengono situate su di uno sfondo archetipico. La patologia testimonia l’autonomia della psiche nel creare sofferenze attraverso cui sperimentare la vita: fenomeno su cui Hillman insiste, definendolo patologizzazione e considerandolo un’attività propria dell’anima. 
Compito della terapia è di ricondurre i sentimenti personali alle immagini specifiche che li contengono. La Psicologia Archetipica, postulando figure mitiche universali attraverso cui tutta l’esperienza diviene possibile, necessita di un’ermeneutica dell’immagine, che comprende tecniche precise. Prezioso è in primo luogo, naturalmente, il lavoro sul sogno, nell’accezione più sopra accennata: ovvero non mera decodifica di segni ma viva adesione al simbolo. 
Inoltre, le immagini dell’inconscio possono essere affrontate con il metodo dell’immaginazione attiva, che consente di dare loro una forma attraverso la mediazione della coscienza e istituisce così un vero e proprio dialogo con esse. 
Per quanto riguarda il transfert, fenomeno sul quale la psicoanalisi focalizza ogni evento del campo terapeutico, la Psicologia Archetipica non lo elude; ma lo pone sullo sfondo mitico costituito dal mitologema di Eros e Psiche. 
Hillman descrive la stanza dell’analisi come un luogo rivoluzionario. Lo è ancora? Può continuare a spingere verso soluzioni di apertura mentale? 
In ultima analisi, la terapia archetipica favorisce lo sviluppo di una sensibilità immaginale e simbolica. Coltivando la naturale inclinazione mitopoietica della psiche, invita inoltre a perfezionare l’arte di “narrare storie. Si veda a questo proposito Le storie che curano (Hillman, 1983), in cui si prendono in esame i tre capostipiti della psicologia del profondo (Freud, Adler, Jung), attribuendo le loro divergenze metapsicologiche ad altrettante diversità tipologiche, che si riverberano a loro volta in tre modi peculiari di raccontare la realtà psicologica. 
Non esiste dunque una verità psicologica universale, bensì la possibilità di accostarsi, ciascuno a suo modo, alla propria equazione personale. Non di scienza si tratta, dunque, ma di una forma particolare del raccontare storie: poiché "la psicoterapia è riuscita a inventare una narrativa che cura” (Hillman, 1983: II). Si attenua la rigida distinzione tra normale e patologico, dimensione che peraltro non viene negata, alla maniera dell’antipsichiatria degli anni ’60 (David Cooper, Ronald Laing). 
Persino la frammentazione psichica possiede una sua epistrophé piuttosto che essere una semplice diagnosi: essa allude al politeismo primario rimosso. 
Come medico, apprezzo anche l’enfasi posta sulla medicina dionisiaca, che offre un’interessante prospettiva nei confronti di una fisiopatologia psicosomatica: il corpo è il teatro e gli organi sono i personaggi sul palcoscenico. 

IV – Teoria della personalità
Nel formulare, nella sua giovanile fase psichiatrica, la teoria dei complessi a tonalità affettiva, Jung giunge a descrivere la personalità come un arcipelago in cui la coscienza è contornata da personalità parziali. 
L’approccio archetipico radicalizza questa posizione, immaginando la personalità come un dramma, del quale l’io è uno dei personaggi, non necessariamente il protagonista. 
Uno dei compiti principali del fare anima consiste nel mettere in relazione la sfera egoica con le immagini non egoiche. Ridisegnando il sistema di valori a partire dal ridimensionamento del mito monoteistico dell’eroe – un altro modo di definire la psicologia dell’io –, la Psicologia Archetipica possiede anche un’implicazione assiologica. Si approda a una prospettiva mirante a svuotare l’io, l’ontologia, la sostanzialità: un po’ come avviene in certe tradizioni orientali o in certa mistica apofatica cristiana. 
La molteplicità dell’anima, d’altra parte, richiama una fantasia teologica politeistica, suggerendo nella psicologia archetipica la presenza di implicazioni soteriologiche. Sebbene lo stesso Hillman abbia ripetutamente mirato a conservare una prospettiva immanente al discorso sull’archetipo, è tuttavia legittimo scorgere nella sua opera una tangenzialità, quanto meno, con un aspetto spirituale. “Situare Dio giù nel profondo comporterà una nuova morale […] Questa morale tenderà verso l’immanente-trascendente” (Hillman, 1967: 88). 
L’attenzione alla fenomenologia religiosa è d’altra parte un topos ineliminabile della ricerca junghiana e post-junghiana. Hillman non fa eccezione. Prima di approdare per la sua formazione allo Jung Institute, di cui fu in seguito direttore dal 1959 al 1969, Hillman viaggiò molto e nel 1952 approdò in India, dove conobbe tra gli altri Gopi Krishna, yogin, mistico nonché riformatore sociale. “Ricordo di essere andato alla casa di Gopi Krishna a Srinagar in una calda giornata all’inizio dell’estate del 1952” (Gopi Krishna, 1970: 39). Vi si recò per la verità con un atteggiamento ambivalente, di curiosità ma anche di critica prevenuta. 
A mio parere l’ambivalenza ha sempre caratterizzato il rapporto di Hillman col sacro, magnete attrattivo da cui difendersi in misura direttamente proporzionale alla fascinazione provata. Le seguenti parole avvalorano la mia ipotesi: “Dato che alcune strane cose mi capitarono sulle montagne dopo aver conosciuto Gopi Krishna, tendo a considerarlo un iniziatore e una persona di grande importanza nella mia vita” (Gopi Krishna, 1970: 40).  
Nel 1967  Hillman fu invitato da un gruppo di sacerdoti interessati alla psicologia analitica e al counseling pastorale. Le quattro conferenze che tenne contengono spunti di grande interesse, che testimoniano come in un lavoro analitico le aperture al sacro, sia pure in forme non confessionali, siano tutt’altro che eccezionali. “L’anima […] rende possibile il significato, volge gli eventi nelle esperienze, si comunica nell’amore e ha un interesse religioso” (Hillman, 1967: 45). “La funzione religiosa naturale è intrinseca al processo di analisi” (Hillman 1967: 57). Ancora più esplicito è il passo seguente: “Non si può nemmeno dire chi viene ‘prima’, la psicologia o la religione. L’atteggiamento simbolico della psicologia, che nasce dall’esperienza dell’anima, porta a un senso della vita dove il mondo è pieno di significati e di ‘segni’” (Hillman, 1967: 67-68). 
A ben pensarci, la fede psicologica è fede nella realtà dell’anima, che trasforma gli eventi in esperienze e dà loro significato. In un certo senso, quindi, viviamo una doppia realtà: una è insensata, letterale, accidentale; l’altra è nascosta e piena di significato. Hillman, che pure volle rimanere sempre ideologicamente “laico”, introduce in questo modo un elemento in qualche modo esoterico.

In un libro-conversazione con Michael Ventura, Hillman afferma: “Convivo, ergo sum” (Hillman-Ventura, 1993). Un gruppo, non singole monadi, una Gemeinschaft tenuta insieme da una rete erotica fluida. In molte interviste degli anni ’80 e degli anni ’90, Hillman parla spesso di una comunità immaginale di amici che si amano l’un l’altro, a volte vivendo fisicamente lontani, un gruppo politeistico tenuto insieme dalle idee e dall’amicizia. 
L’amicizia, la grande negletta della Psicoanalisi, riceve così dalla Psicologia Archetipica l’onore che merita. 
Il lavoro di Hillman ha avuto particolare risonanza nel nostro paese, dove è stato invitato più volte, dando luogo a cenacoli interdisciplinari, come quello incarnato dalla rivista Anima a Firenze o come l’IMPA (Istituto Mediterraneo di Psicologia Archetipica) – fondato da me e da Riccardo Mondo a Catania nel 2006, in occasione dell’80° compleanno del Maestro –, di cui Hillman è stato Presidente Onorario fino alla morte. 
Dick Russell, autore di una monumentale biografia di Hillman in tre volumi (Russell, 2013; Russell, 2022), l’ultimo dei quali uscirà nel 2023, ha dedicato ampio spazio ai suoi rapporti con la cultura italiana: rapporti di reciproca fascinazione e fecondazione. Un peculiare legame si è stabilito tra Hillman e la Sicilia, vera figura della “Grecia psichica”. Come ci raccontò in una conversazione privata, la prima parte di uno dei suoi saggi più perturbanti, il già citato “Il sogno e il mondo infero” (1979), venne scritta in un albergo di Ortigia, dove si era rifugiato a causa di un improvviso attacco febbrile. Quando Hillman afferma che la Psicologia Archetipica ha le sue radici nel Sud e che le sue idee traggono origine da una fantasia mediterranea, introduce il concetto che anche le scuole psicologiche obbediscono a una fantasia geografica. 
Utilizzando la metafora dei punti cardinali, possiamo paragonare le fantasie prodotte dalla “Psicologia del Nord” con quelle legate a un “punto di vista mediterraneo”: il Nord suggerisce una psicologia moralistica, centrata sull’ego, con un’enfasi sul mito dell’eroe e con la conseguenza di mettere al centro la Grande Madre, mentre il Sud mette in evidenza una psicologia politeistica che porta con sé una bassa posizione dell’ego ed “effetti collaterali” di grande interesse, inclusa una divisione sfumata tra il sé e gli oggetti. 
La fantasia mediterranea coinvolge non soltanto l’antica Grecia – compresa la Magna Graecia – ma anche la cultura rinascimentale, espressioni entrambe della centralità dell’estetica (estetico è un aggettivo il cui significato richiama l’idea di sensibilità, aisthesis): la natura proteiforme di Odisseo (detto appunto polytropos, multiforme), così come la pansofia degli artisti e filosofi del Rinascimento, richiamano una fantasia politeistica. Il politeismo psicologico scardina la centralità egoica e implica conseguenze degne di note sia sul piano personale sia su quello terapeutico. Una interessante versione del politeismo è il cosiddetto catenoteismo (Friedrich Schelling, Max Müller), secondo il quale ciascun dio è adorato, uno alla volta. 
Questa prospettiva, che tiene insieme la sizigia costituita da monoteismo e politeismo, è un valido punto di partenza per fronteggiare le possibili aporie suscitate dal confronto tra cultura archetipica e mondo moderno. 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
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Articolo apparso su
  ARTHOS - I TEMPI ULTIMI , n.31- 2023, pp 227-232 



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