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"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia
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venerdì 17 novembre 2023

Coltivare le oasi. La pratica della nuda attenzione - Saggio di Luigi Turinese pubblicato in Critical Hermeneutics, Vol 7 n 1 (2023)

Coltivare le oasi. La pratica della “nuda attenzione”
(Cultivating Oases: The Practice of “Naked Attention”)
Luigi Turinese
Italian Association for the Study of Analytical Psychology

Abstract 

Nella cultura europea, una riflessione sistematica sull’attenzione prende corpo a partire dal XVII secolo con Cartesio, per arrivare alla nozione di attenzione fluttuante di Freud, che promuove libere associazioni e si realizza nella sospensione di tutto ciò che focalizza l’attenzione.
 La pratica dell’attenzione favorisce l’accettazione della realtà così come si presenta: che è poi, sostanzialmente, l’esatto contrario della disposizione nevrotica, la quale si manifesta con un senso di insoddisfazione legato a un conflitto tra la realtà come è e la realtà come si vorrebbe che fosse.
Essere aperti a ciò che è include una consapevolezza senza scelta, non minata cioè dalla comparazione con ciò che potrebbe essere ma non è. Non si tratta di un esercizio facile, perché presuppone l’educazione a servirsi di una “attenzione nuda”: nuda in quanto senza oggetto, aperta, impersonale e non giudicante. In questa maniera gli eventi vengono semplicemente “registrati”, separati dalle reazioni emotive e dalle proiezioni, non interpretati in base a griglie precostituite.
La nuda attenzione si comporta come uno specchio che riflette quel che accade nella mente, nel corpo e nell’ambiente, prendendo atto che tutto muta: sensazioni, sentimenti, immagini, pensieri.
L’esito più felice consiste nello sviluppare l’arte di dire sì alla vita così come si presenta: una coniunctio oppositorum tra mutevolezza e invariabilità.



"Entanglement" Foto G. Tarantino

Voglio partire da un assunto forte, affermando che per certi versi la vita è una sublime tragedia. L’elemento tragico e lo stupore di fronte alla “straziante, meravigliosa bellezza del creato” costituiscono una antinomia in grado di evocare quella che Jung chiama funzione trascendente: a patto, naturalmente, che si sia capaci di tenere insieme gli opposti, non cadendo nell’usuale attrazione per uno dei due corni del dilemma. 

Nella fattispecie, porre l’enfasi soltanto sulla perfezione della Natura si traduce in uno stile retorico mieloso, con venature New Age; laddove la seduzione perla condizione tragica, isolata, genera cinismo e nichilismo.

In entrambi i casi prevale un approccio unilaterale.

[...] Continua a leggere il saggio pubblicato su Critical Hermeneutics Vol 7 n 1 (2023) pagg 157-169


giovedì 26 ottobre 2023

XIX Convegno Internazionale CIPA - 27/29 ottobre 2023 , Siracusa




Il Centro Italiano di Psicologia Analitica con il patrocinio dell’Ordine degli Psicologi della Regione Siciliana e il Comune di Siracusa organizza il 

 XIX Convegno Nazionale CIPA 

"La Pratica Analitica nel tempo dei Conflitti e della Sospensione"

Evento ECM n. 399698 

 Siracusa Ortea Palace Hotel

Ortigia 

27 - 29 ottobre 2023  

Qui il programma completo del Convegno


mercoledì 15 marzo 2023

Una comunità immaginale. L'eredità di James Hillman - di Luigi Turinese - Articolo pubblicato sul n. 31 di Arthos - I TEMPI ULTIMI

 


Una comunità immaginale. L'eredità di James Hillman
 di Luigi Turinese 

“Quando ti manca l’aria dei miti, scivoli nel fatto personale
Arturo Martini

A oltre un decennio dalla scomparsa, è lecito chiedersi quale sia l’eredità di James Hillman (Atlantic City, 12 aprile 1926 – Thompson, 27 ottobre 2012)  nell’ambito del pensiero contemporaneo, psicoanalitico e non. Hillman rappresenta una figura di complessa collocazione. A dispetto della chiamata in causa di categorie come quelle di postmoderno o addirittura di new age, rimane difatti un intellettuale finissimo, molto novecentesco. Soprattutto, molto europeo. Tra i grandi postjunghiani (Erich Neumann, Michael Fordham, Marie-Louise von Franz), è stato quello che più di tutti è uscito dal recinto degli addetti ai lavori, influenzando almeno due generazioni di persone di cultura che ne hanno fatto sovente un Maestro di vita. Parlo di persone di cultura, non strettamente di psicoanalisti, perché tra questi ultimi Hillman è stato più divisivo che ispiratore. 
Anni fa, nell’ambito di uno dei tanti convegni che organizzammo a Catania sul suo pensiero, feci un piccolo esperimento. Chiesi cioè quanti fossero gli psicoterapeuti in sala: ebbene, si levarono davvero poche mani, tra le oltre cento persone presenti. Un altro aneddoto. Ero in aereo e stavo leggendo una delle interviste pubblicate all’inizio del nuovo secolo da Silvia Ronchey (Hillman, 2001; 2004); arrivò da dietro una giovane assistente di volo la quale, sbirciando sopra la mia spalla la pagina che stavo leggendo, mi chiese con sicurezza: “È Hillman?”. Due episodi che raccontano l’enorme diffusione pop del pensiero di Hillman successivamente alla pubblicazione del suo best seller più noto, ovvero Il codice dell’anima (1996). 
La sua produzione letteraria è vastissima. A voler essere schematici, si possono individuare due categorie di lavori: i testi più tecnici (sebbene nessun lavoro di Hillman sia aridamente tecnico, pieno com’è di amplificazioni culturali) e quelli prevalentemente filosofici, con proporzione crescente a partire dagli anni ‘90, dopo l’abbandono dell’attività clinica. A proposito dei libri scritti a partire dal citato Il codice dell’anima, superficialmente considerati divulgativi, faccio notare che sono anch’essi dotati di un apparato critico di tutto rispetto. 
Pur non essendo facile sintetizzarne il percorso, non v’è dubbio che Hillman sia stato uno junghiano, sebbene per più versi uno junghiano eretico, a partire dal suo aver ipertrofizzato una parte del pensiero di Jung – quella legata agli archetipi –, lasciando in ombra o mostrando scarso entusiasmo per altri topoi dell’opera junghiana, come la tipologia, il Sé, il procedimento dialettico per opposti e conseguentemente per la nozione di funzione trascendente[1]
È dunque legittimo considerare la Psicologia Archetipica un ramo eterodosso della Psicologia Analitica.  “Nel teatro della memoria origina e si sviluppa ogni drammaturgia della nostra vita; ed alcune figure più di altre costellano l’attivazione del nostro daimon. In questo senso, appare indubbio che Hillman – sulle tracce di Jung – abbia costruito il suo percorso individuativo. Ne è commovente testimonianza l’ossessiva passione che caratterizza il libro Anima [2],  tutto costruito sulla giustapposizione tra il testo hillmaniano – che si svolge sulle pagine di destra – e le relative fonti junghiane – che dalle pagine di sinistra costituiscono tracce, pietre miliari, a scandire il percorso archeologico in cui si avventura l’esploratore Hillman. 
Da questo punto di vista, la Psicologia Archetipica è un’amplificazione di una parte del corpus teorico junghiano. Tuttavia, quanto rimane oggi dell’imprinting originario nel pensiero hillmaniano?” (Mondo-Turinese, 2021: 41). La domanda in questione è cruciale e non di univoca risoluzione. “Sebbene Hillman si sia allontanato – ipertrofizzandone una parte – dalla totalità del sistema junghiano e poi dalla pratica analitica formale per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, l’ispirazione junghiana rimane forte; si vedano a questo proposito le pagine dedicate alla relazione personale con Jung contenute in due libri-intervista: Intervista su amore anima e psiche [3]  e Il piacere di pensare [4] . In un passaggio di quest’ultimo libro ci sorprendiamo a leggere, a proposito della presenza di Jung nella vita di Hillman: ‘Ancora oggi la sua figura mi appare in sogno. Parliamo. Lui è vecchio, vivace e disinvolto. Lo interpreto come un avo, uno spirito antenato’” (Mondo-Turinese, 2021: 41). Non si tratta, beninteso, di culto della personalità; ma di rispetto del senso storico che, nel caso di Jung, si tramuta in un senso mitologico. 
Certo, alcuni assunti di Jung sono esplicitamente rifiutati da Hillman. Pure, egli condivide con Jung uno stile mitologico e drammatizzante e una certa inclinazione al radicalismo. La scrittura di Hillman appare più scorrevole, sebbene si tratti di una leggerezza soltanto apparente, frutto di un lavoro di cesello e di una inesausta rielaborazione e correzione delle prima stesure. Jung, al contrario, è sempre ostico, preso com’è da un furore amplificatorio in cui il linguaggio della psiche lo spinge a torcere i concetti e lo allontana sovente dal centro del discorso. 
Entrambi rifuggono dal caso clinico, cosa in un certo senso più comprensibile per Hillman che per il medico Jung, il quale in effetti porta esempi tratti dal suo lavoro clinico, segnatamente nei seminari extracanonici; e tuttavia li utilizza per corroborare le sue tesi, non diversamente da come chiama in causa miti e archetipi dell’inconscio collettivo. Altro elemento che accomuna Jung e Hillman è il carattere eretico delle loro posizioni. “L’affermazione di eresia non è casuale e richiama la negazione di alcuni dogmi portanti in seno ad un movimento. È il destino che caratterizzò Jung, per rimanere aderenti al discorso psicoanalitico, ma riguarda fondamentalmente il destino del pensare liberamente nei raggruppamenti umani. Potremmo anche comprenderne la sua fisiologica funzione come meccanismo che impedisce la disgregazione totale del gruppo. L’eretico è in questo senso il collante che rende possibile ogni ortodossia. “L’eretico è colui che mette in atto ciò che fin dall’origine era – in potenza – un’antinomia nel nucleo dottrinario principale” [5] . Egli non produce ex novo ma ipertrofizza una parte del discorso originario, che tutto sommato accetta come dotato di verità ma non come inconfutabile (dogma). L’eresia è una convinzione maturata individualmente, come attesta la sua etimologia (hàiresis = scelta); e l’eretico vuole essere un soggetto attivo della propria salvezza. Naturalmente, egli è visto come fumo negli occhi dai guardiani del soglio dell’ortodossia. “Quelli che approvano un’opinione privata la chiamano opinione; ma quelli che la disapprovano la chiamano eresia”. (Hobbes, Leviatano) […] Con la pubblicazione, nel 1912, di Wandlungen und Symbole der Libido,[6]  Jung sancisce il percorso di allontanamento da Freud. Due anni prima – a Vienna – si era verificato tra i due il seguente colloquio, rivelatore delle intenzioni di entrambi. “Mio caro Jung, promettetemi di non abbandonare mai la teoria della sessualità […] dobbiamo farne un dogma, un incrollabile baluardo”. “Prima di tutto” – è il commento di Jung – “furono le parole baluardo e dogma che mi allarmarono, perché un dogma [7],  cioè un’incrollabile dichiarazione di fede, viene stabilito solo quando si ha lo scopo di soffocare i dubbi una volta per sempre […] Fu un colpo che inferse una ferita mortale alla nostra amicizia”[8]. “ (Mondo-Turinese, 2021: 30). 

Note

 1. Con questo termine si indica il tertium che può scaturire dal mantenimento in tensione di una coppia di opposti (ad esempio la dimensione conscia e quella inconscia). In altri termini, si attiva la funzione trascendente ogniqualvolta le antinomie non scadono in conflitto, eludendo così il principio di non-contraddizione. 
 2.  Hillman, J. (1985): Anima. Anatomia di una funzione personificata, Adelphi, Milano 1989.
3.  Hillman, J.: Intervista su amore anima e psiche (a cura di Marina Beer), Laterza, Roma-Bari 1983, pp. 16-19.
 4. Hillman, J.: Il piacere di pensare (conversazione con Silvia Ronchey), Rizzoli 2004, pp. 22-26.
5.  Da una conversazione col filosofo Guido Traversa.
 6. Jung, C.G.: “Simboli della trasformazione”, (1912-1952), in Opere, volume 5, Bollati Boringhieri, Torino 1970. 
 7. I corsivi sono nostri.
8.  Jung,C. G.: Ricordi, sogni, riflessioni, (1961), Rizzoli, Milano 1978, p. 191.

***

Oltre allo stesso Jung, un precursore della Psicologia Archetipica può essere considerato Henry Corbin (1903-1978), studioso di quell’ ’âlam al-mithâl in cui i filosofi iraniani situavano le visioni dei mistici e dei poeti; e che, nella tradizione dell’Europa mediterranea, corrisponde al mundus archetypalis e al mundus imaginalis. Intrisa di elementi neoplatonici – sono frequenti i riferimenti di Hillman a Plotino (205-270), Proclo (410-485), Marsilio Ficino (1433-1499), Giambattista Vico (1668-1744), oltre che naturalmente allo stesso Platone (427-347 a.C.) – la Psicologia Archetipica allude sin dalla sua denominazione agli archetipi, forme primarie e universali del funzionamento psichico. Essi si manifestano in ogni aspetto della vita dell’uomo: compaiono nei miti, nei riti, nelle arti, oltre che nei sogni e nella stessa psicopatologia.  Hillman recupera la mitologia greco-romana come costellazione metaforica elettiva del suo discorso. In estrema sintesi, si possono individuare quattro topoi fondamentali nel discorso della psicologia archetipica:
I) Un’enfasi sulla nozione di anima.
II) Un recupero dell’immagine, che viene sottratta alla retorica negativa della fantasticheria.
III) Una re-visione della clinica alla luce delle attività primarie dell’anima e delle immagini da essa prodotte.
IV) Una re-visione della teoria della personalità nella cornice di una psicologia politeistica.

I) Anima
La Psicologia Archetipica restituisce all’anima il posto che le compete, come tertium tra lo spirito e il corpo: solo così, dando un luogo a psiche, si creano i presupposti per la psicologia, che è un discorso sull’anima. Osservata da questo vertice, la psicologia ha essenzialmente due compiti: trovare il logos dell’anima e ascoltare l’anima del mondo: ogni aspetto e ogni evento del mondo sono infatti luoghi d’anima. 
Avendo spostato l’oggetto di riflessione fuori dello studio dell’analista, la Psicologia Archetipica possiede anche una valenza politica. Fu paradigmatico, in tal senso, l’intervento di Hillman al Convegno internazionale della IAAP (International Association for Analytical Psychology), tenutosi nel 1988 all’Accademia dei Lincei di Roma. La relazione si intitolava significativamente Dallo specchio alla finestra: curare il narcisismo della psicoanalisi (Hillman, 1988). “Con questa epocale relazione tenuta all’Accademia dei Lincei nel 1988  cominciò di fatto la Sua pratica di analista in esilio volontario dalla stanza d’analisi […] 
E ci piace immaginare, caro James, che qualche giorno dopo la relazione dei Lincei Lei sia andato alla finestra del Suo studio analitico, abbia guardato il mondo e, abbagliato da questa visione, sia sceso per la strada, lì rimanendo” (Mondo-Turinese, 2021: 33). 
L’anima è una metafora primaria che abolisce il realismo, il naturalismo e il letteralismo: al contempo, re-immagina tutte le cose del mondo. A proposito dell’anima, Hillman fa sua l’espressione fare anima, mutuata dall’ingiunzione del poeta John Keats (1795-1821): “Chiamate, vi prego, il mondo ‘la valle del fare anima’. Allora scoprirete a che cosa serve il mondo”. 
Ogni attenzione alle manifestazioni della psiche è un fare anima. Nel modo più semplice, si fa anima ogni notte, sognando. Sognando, inoltre, impariamo a morire: innanzitutto all’Io, che viene in qualche modo “decentrato”, consentendo di prendere confidenza con altre figure della psiche. 
Magistrale, in tal senso, è Il sogno e il mondo infero (Hillman, 1979), in cui viene ribaltata la tradizionale ingiunzione psicoanalitica a tradurre il linguaggio notturno in linguaggio diurno, dominato dalle esigenze dell’Io: una variazione sul tema freudiano del rendere cosciente l’inconscio. Hillman, viceversa, propone di scendere nelle profondità della psiche – nel mondo infero, appunto – per costruire un “Io onirico” capace di dialogare con le istanze psichiche normalmente sacrificate sull’altare dell’Io forte.

II – Immagine
La psiche è eidopoietica, produce immagini per sua stessa natura. L’immagine è un dato primario, irriducibile. Aderire all’immagine è un dettato peculiare della Psicologia Archetipica, a partire dal lavoro sul sogno: quest’ultimo viene visto come un palcoscenico su cui si avvicendano le immagini prodotte dalla psiche piuttosto che come una rete di segni da decodificare. 
Prendere confidenza con le modalità immaginali consente l’apparizione sulla scena di quello che Hillman chiama Io immaginale: “L’Io immaginale” – scrive Hillman – “si rende conto che le immagini non sono sue […]. Nell’insegnare all’Io come sognare, la prima cosa da fare è quella di insegnargli che anch’egli è un’immagine […]. Il sogno non è ‘mio’, ma della psiche; e l’Io del sogno recita semplicemente uno dei ruoli del dramma, soggetto […] alle necessità messe in scena dal sogno”. 
Come accennavo sopra, a Henry Corbin si deve l’aver colto la sostanziale sovrapponibilità tra l’‘alam al-mithal e il mundus imaginalis, che rispecchia il mondo terreno a livello archetipico. In esso, lo spazio e il tempo sono reali ma qualitativi. Vi si accede tramite l’immaginazione (imaginatio vera, che non è sinonimo di fantasticheria), la quale consente di conoscere per analogia, trascendendo il dualismo tra materia e spirito. 
La distinzione tra immaginazione e fantasticheria corrisponde a quella tra la categoria dell’immaginale – luogo dell’esperienza simbolica – e quella dell’immaginario, che riduce l’immagine a oggetto della percezione sensibile. L’immaginazione è una funzione in grado di trasmutare i dati sensibili in simboli, è l’”occhio di fuoco” che consente la visione del Roveto Ardente (cfr. Esodo e Corano). 
“Le immagini, come il mito, sono necessarie per l’incantamento dell’anima, dice Platone” (Avens, 1984/2003: 117). 
Per non cadere in tentazioni ipostatizzanti, si deve tener presente che l’immagine non è un contenuto che vediamo, bensì una prospettiva attraverso la quale vediamo: uno sguardo immaginale. In altri termini, l’immaginazione è uno strumento ermeneutico, un dispositivo di conoscenza.
Plotino insegna che alla base della coscienza vi sono le immagini fantastiche. Gli fa eco Jung, quando scrive: “Ogni processo psichico è un’immagine e un immaginare, altrimenti non potrebbero esistere di quel processo né  coscienza né fenomenalità” (Jung, 1939: 555). Gli archetipi junghiani non sono altro che immagini fantastiche primordiali. 
Il ruolo dell’immagine come intermediaria tra il pensiero e l’essere è alla base della filosofia del Rinascimento, ripresa da Giambattista Vico (1668-1744), tardo neoplatonico che nella Scienza Nuova descrive gli universali fantastici come strutture primarie della mente. Sede dell’immaginazione è il cuore: l’himma di cui parla Ibn ‘Arabi, riferendosi alla quale Hillman scrive, seguendo Corbin: “L’azione caratteristica del cuore non è il sentimento, ma la visione […] Il cuore non è tanto il luogo del sentimento personale, quanto il luogo del vero immaginare” (Hillman, 1981: 57). 
In questo senso possiamo considerare L’ultima immagine (Ronchey-Hillman 2021) come un vero e proprio lascito testamentario, a partire dal titolo. Il libro è frutto di un eccellente e devoto montaggio, da parte di Silvia Ronchey, di due dialoghi lunghi e complessi: l’uno svoltosi nel 2008, in occasione di un viaggio a Ravenna; l’altro nell’autunno 2011, a testimoniare le ultime settimane di vita di Hillman, dialetticamente vitalissime a dispetto del cancro in fase terminale.

III – Clinica
Spesso è stata rivolta alla Psicologia Archetipica l’accusa di baloccarsi con estetismi intellettuali, trascurando la clinica. 
Accusa superficiale: nella pratica, anche le sofferenze individuali vengono situate su di uno sfondo archetipico. La patologia testimonia l’autonomia della psiche nel creare sofferenze attraverso cui sperimentare la vita: fenomeno su cui Hillman insiste, definendolo patologizzazione e considerandolo un’attività propria dell’anima. 
Compito della terapia è di ricondurre i sentimenti personali alle immagini specifiche che li contengono. La Psicologia Archetipica, postulando figure mitiche universali attraverso cui tutta l’esperienza diviene possibile, necessita di un’ermeneutica dell’immagine, che comprende tecniche precise. Prezioso è in primo luogo, naturalmente, il lavoro sul sogno, nell’accezione più sopra accennata: ovvero non mera decodifica di segni ma viva adesione al simbolo. 
Inoltre, le immagini dell’inconscio possono essere affrontate con il metodo dell’immaginazione attiva, che consente di dare loro una forma attraverso la mediazione della coscienza e istituisce così un vero e proprio dialogo con esse. 
Per quanto riguarda il transfert, fenomeno sul quale la psicoanalisi focalizza ogni evento del campo terapeutico, la Psicologia Archetipica non lo elude; ma lo pone sullo sfondo mitico costituito dal mitologema di Eros e Psiche. 
Hillman descrive la stanza dell’analisi come un luogo rivoluzionario. Lo è ancora? Può continuare a spingere verso soluzioni di apertura mentale? 
In ultima analisi, la terapia archetipica favorisce lo sviluppo di una sensibilità immaginale e simbolica. Coltivando la naturale inclinazione mitopoietica della psiche, invita inoltre a perfezionare l’arte di “narrare storie. Si veda a questo proposito Le storie che curano (Hillman, 1983), in cui si prendono in esame i tre capostipiti della psicologia del profondo (Freud, Adler, Jung), attribuendo le loro divergenze metapsicologiche ad altrettante diversità tipologiche, che si riverberano a loro volta in tre modi peculiari di raccontare la realtà psicologica. 
Non esiste dunque una verità psicologica universale, bensì la possibilità di accostarsi, ciascuno a suo modo, alla propria equazione personale. Non di scienza si tratta, dunque, ma di una forma particolare del raccontare storie: poiché "la psicoterapia è riuscita a inventare una narrativa che cura” (Hillman, 1983: II). Si attenua la rigida distinzione tra normale e patologico, dimensione che peraltro non viene negata, alla maniera dell’antipsichiatria degli anni ’60 (David Cooper, Ronald Laing). 
Persino la frammentazione psichica possiede una sua epistrophé piuttosto che essere una semplice diagnosi: essa allude al politeismo primario rimosso. 
Come medico, apprezzo anche l’enfasi posta sulla medicina dionisiaca, che offre un’interessante prospettiva nei confronti di una fisiopatologia psicosomatica: il corpo è il teatro e gli organi sono i personaggi sul palcoscenico. 

IV – Teoria della personalità
Nel formulare, nella sua giovanile fase psichiatrica, la teoria dei complessi a tonalità affettiva, Jung giunge a descrivere la personalità come un arcipelago in cui la coscienza è contornata da personalità parziali. 
L’approccio archetipico radicalizza questa posizione, immaginando la personalità come un dramma, del quale l’io è uno dei personaggi, non necessariamente il protagonista. 
Uno dei compiti principali del fare anima consiste nel mettere in relazione la sfera egoica con le immagini non egoiche. Ridisegnando il sistema di valori a partire dal ridimensionamento del mito monoteistico dell’eroe – un altro modo di definire la psicologia dell’io –, la Psicologia Archetipica possiede anche un’implicazione assiologica. Si approda a una prospettiva mirante a svuotare l’io, l’ontologia, la sostanzialità: un po’ come avviene in certe tradizioni orientali o in certa mistica apofatica cristiana. 
La molteplicità dell’anima, d’altra parte, richiama una fantasia teologica politeistica, suggerendo nella psicologia archetipica la presenza di implicazioni soteriologiche. Sebbene lo stesso Hillman abbia ripetutamente mirato a conservare una prospettiva immanente al discorso sull’archetipo, è tuttavia legittimo scorgere nella sua opera una tangenzialità, quanto meno, con un aspetto spirituale. “Situare Dio giù nel profondo comporterà una nuova morale […] Questa morale tenderà verso l’immanente-trascendente” (Hillman, 1967: 88). 
L’attenzione alla fenomenologia religiosa è d’altra parte un topos ineliminabile della ricerca junghiana e post-junghiana. Hillman non fa eccezione. Prima di approdare per la sua formazione allo Jung Institute, di cui fu in seguito direttore dal 1959 al 1969, Hillman viaggiò molto e nel 1952 approdò in India, dove conobbe tra gli altri Gopi Krishna, yogin, mistico nonché riformatore sociale. “Ricordo di essere andato alla casa di Gopi Krishna a Srinagar in una calda giornata all’inizio dell’estate del 1952” (Gopi Krishna, 1970: 39). Vi si recò per la verità con un atteggiamento ambivalente, di curiosità ma anche di critica prevenuta. 
A mio parere l’ambivalenza ha sempre caratterizzato il rapporto di Hillman col sacro, magnete attrattivo da cui difendersi in misura direttamente proporzionale alla fascinazione provata. Le seguenti parole avvalorano la mia ipotesi: “Dato che alcune strane cose mi capitarono sulle montagne dopo aver conosciuto Gopi Krishna, tendo a considerarlo un iniziatore e una persona di grande importanza nella mia vita” (Gopi Krishna, 1970: 40).  
Nel 1967  Hillman fu invitato da un gruppo di sacerdoti interessati alla psicologia analitica e al counseling pastorale. Le quattro conferenze che tenne contengono spunti di grande interesse, che testimoniano come in un lavoro analitico le aperture al sacro, sia pure in forme non confessionali, siano tutt’altro che eccezionali. “L’anima […] rende possibile il significato, volge gli eventi nelle esperienze, si comunica nell’amore e ha un interesse religioso” (Hillman, 1967: 45). “La funzione religiosa naturale è intrinseca al processo di analisi” (Hillman 1967: 57). Ancora più esplicito è il passo seguente: “Non si può nemmeno dire chi viene ‘prima’, la psicologia o la religione. L’atteggiamento simbolico della psicologia, che nasce dall’esperienza dell’anima, porta a un senso della vita dove il mondo è pieno di significati e di ‘segni’” (Hillman, 1967: 67-68). 
A ben pensarci, la fede psicologica è fede nella realtà dell’anima, che trasforma gli eventi in esperienze e dà loro significato. In un certo senso, quindi, viviamo una doppia realtà: una è insensata, letterale, accidentale; l’altra è nascosta e piena di significato. Hillman, che pure volle rimanere sempre ideologicamente “laico”, introduce in questo modo un elemento in qualche modo esoterico.

In un libro-conversazione con Michael Ventura, Hillman afferma: “Convivo, ergo sum” (Hillman-Ventura, 1993). Un gruppo, non singole monadi, una Gemeinschaft tenuta insieme da una rete erotica fluida. In molte interviste degli anni ’80 e degli anni ’90, Hillman parla spesso di una comunità immaginale di amici che si amano l’un l’altro, a volte vivendo fisicamente lontani, un gruppo politeistico tenuto insieme dalle idee e dall’amicizia. 
L’amicizia, la grande negletta della Psicoanalisi, riceve così dalla Psicologia Archetipica l’onore che merita. 
Il lavoro di Hillman ha avuto particolare risonanza nel nostro paese, dove è stato invitato più volte, dando luogo a cenacoli interdisciplinari, come quello incarnato dalla rivista Anima a Firenze o come l’IMPA (Istituto Mediterraneo di Psicologia Archetipica) – fondato da me e da Riccardo Mondo a Catania nel 2006, in occasione dell’80° compleanno del Maestro –, di cui Hillman è stato Presidente Onorario fino alla morte. 
Dick Russell, autore di una monumentale biografia di Hillman in tre volumi (Russell, 2013; Russell, 2022), l’ultimo dei quali uscirà nel 2023, ha dedicato ampio spazio ai suoi rapporti con la cultura italiana: rapporti di reciproca fascinazione e fecondazione. Un peculiare legame si è stabilito tra Hillman e la Sicilia, vera figura della “Grecia psichica”. Come ci raccontò in una conversazione privata, la prima parte di uno dei suoi saggi più perturbanti, il già citato “Il sogno e il mondo infero” (1979), venne scritta in un albergo di Ortigia, dove si era rifugiato a causa di un improvviso attacco febbrile. Quando Hillman afferma che la Psicologia Archetipica ha le sue radici nel Sud e che le sue idee traggono origine da una fantasia mediterranea, introduce il concetto che anche le scuole psicologiche obbediscono a una fantasia geografica. 
Utilizzando la metafora dei punti cardinali, possiamo paragonare le fantasie prodotte dalla “Psicologia del Nord” con quelle legate a un “punto di vista mediterraneo”: il Nord suggerisce una psicologia moralistica, centrata sull’ego, con un’enfasi sul mito dell’eroe e con la conseguenza di mettere al centro la Grande Madre, mentre il Sud mette in evidenza una psicologia politeistica che porta con sé una bassa posizione dell’ego ed “effetti collaterali” di grande interesse, inclusa una divisione sfumata tra il sé e gli oggetti. 
La fantasia mediterranea coinvolge non soltanto l’antica Grecia – compresa la Magna Graecia – ma anche la cultura rinascimentale, espressioni entrambe della centralità dell’estetica (estetico è un aggettivo il cui significato richiama l’idea di sensibilità, aisthesis): la natura proteiforme di Odisseo (detto appunto polytropos, multiforme), così come la pansofia degli artisti e filosofi del Rinascimento, richiamano una fantasia politeistica. Il politeismo psicologico scardina la centralità egoica e implica conseguenze degne di note sia sul piano personale sia su quello terapeutico. Una interessante versione del politeismo è il cosiddetto catenoteismo (Friedrich Schelling, Max Müller), secondo il quale ciascun dio è adorato, uno alla volta. 
Questa prospettiva, che tiene insieme la sizigia costituita da monoteismo e politeismo, è un valido punto di partenza per fronteggiare le possibili aporie suscitate dal confronto tra cultura archetipica e mondo moderno. 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
AVENS, R. (1984, 2003): Heidegger, Hillman e gli angeli. Per una nuova gnosi, Atlantide, Roma 2019.
CORBIN, H. (1958-1993): L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Edizioni Laterza, Roma-Bari 2005.
CORBIN, H. (1964): Storia della filosofia islamica, Adelphi 1973.
CORBIN, H. (1971): Nell’Islam iranico, 4 voll., Mimesis, Milano-Udine, 2012, 2015, 2017, 2020.
DONFRANCESCO, F. (a cura di): James Hillman. Verso il sapere dell'anima, Moretti&Vitali, Bergamo 2012.
GOPI KRISHNA (1970): Kundalini. L’energia evolutiva dell’uomo (con un commento psicologico di James Hillman), Ubaldini Editore, Roma 1971.
HILLMAN, J. (1967): La ricerca interiore. Psicologia e religione, Moretti&Vitali, Bergamo 2010.
HILLMAN, J. (1972): IL mito dell’analisi, Adelphi, Milano 1979. 
HILLMAN, J. (1974, 1981, 1982): L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Garzanti, Milano 1993.
HILLMAN, J. (1975): Re-visione della psicologia, Adelphi, Milano 1983.
HILLMAN, J. (1976): “Picchi e valli: la distinzione fra anima e spirito come fondamento delle differenze fra psicoterapia e disciplina spirituale”, in Saggi sul Puer, Raffaello Cortina Editore, Milano 1988.
HILLMAN, J. (1979): Il sogno e il mondo infero, Il Saggiatore, Milano 1988.
HILLMAN, J. (1974, 1981, 1982): L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Garzanti, Milano 1993.
HILLMAN, J.: “Psicologia archetipica”, in Enciclopedia del Novecento, Roma 1980.
HILLMAN, J. (1983): Le storie che curano, Raffaello Cortina, Milano 1984.
HILLMAN, J.: Intervista su amore anima e psiche (a cura di Marina Beer), Laterza, Roma-Bari 1983.
HILLMAN, J. (1985): Anima. Anatomia di una funzione personificata, Adelphi, Milano 1989.
HILLMAN, J. (1988): “Dallo specchio alla finestra”, in Oltre l'umanismo (a cura di Francesco Donfrancesco), Moretti & Vitali, Bergamo 1996.
HILLMAN, J. (1996): Il codice dell’anima; Adelphi, Milano 1997. 
HILLMAN, J.: L’anima del mondo. Conversazione con Silvia Ronchey, Rizzoli, Milano 2001. 
HILLMAN, J.: Il piacere di pensare. Conversazione con Silvia Ronchey, Rizzoli, Milano 2004.
HILLMAN, J.-Ventura, M. (1993): Cent’anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio, Garzanti, Milano 1993.
HILLMAN, J.- RONCHEY, S.: L’ultima immagine, Rizzoli, Milano 2021.
JUNG, C. G. (1939): “Prefazione a D. T. Suzuki, ‘La grande liberazione. Introduzione al buddhismo zen’”, in Opere, vol. 11, Bollati Boringhieri, Torino 1979.
MARTINI, A.: “Colloqui sulla scultura 1944-1945”, Canova Edizioni, Roma 1997.
MONDO, R.-TURINESE, L.: Caro Hillman… Venticinque scambi epistolari con James Hillman, LSWR, Milano 2021.
RUSSELL, D.: The Life and Ideas of James Hillman, Vol. I, Arcade Publishing, New York 2013.
RUSSELL, D.: The Life and Ideas of James Hillman, Vol. II, Arcade Publishing, New York 2022.


Articolo apparso su
  ARTHOS - I TEMPI ULTIMI , n.31- 2023, pp 227-232 


domenica 11 dicembre 2022

Caro Hillman...L'immaginazione è senza tempo - incontro online Martedì 13.12.2022 ore 21


 Incontro Online
Caro Hillman...
L'immaginazione è senza tempo
Martedì 13.12.2022
ore 21
Canale youtube e gruppo Facebook di
"Letto Riletto e... Recensito"



 Riccardo Mondo e Luigi Turinese nella conversazione con Massimo Salvatore Fazio approfondiranno i temi dell'attualità della Psicologia Archetipica presenti nella nuova edizione di Caro Hillman

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giovedì 3 settembre 2020

"Walking on the wild side. Trame di Dioniso" di Luigi Turinese, Edizioni Magi (Roma, 2020)




Titolo: "Walking on the wild side. Trame di Dioniso"

Autore: Luigi Turinese, 
Editore: Magi Edizioni
Collana: i quadrifogli
Data e Luogo di Pubblicazione: settembre 2020, Roma
EAN: 9788874874354
ISBN: 8874874359
Pagine: 32
Prezzo: 5 €

Quarta di copertina:  Che cosa accomuna la possessione erotica, le dipendenze, gli eccessi di ogni tipo, il pansessualismo che spinge a giocare più ruoli e minaccia le ortodossie morali… il teatro, il carnevale, i travestimenti, l’estasi mistica come quella prodotta dalla musica rock… il profetismo dei leader carismatici, la violenza degli hooligans… l’isteria e la sindrome bipolare? Sono tutte trame di Dioniso, il dio incarnato nel perpetuo fluire della vita con le sue innumerevoli contraddizioni.

Ordina il libro qui




martedì 28 aprile 2020

Di virus, di morte e altre sciocchezze (cit. Guccini)

Di virus, di morte e altre sciocchezze (cit. Guccini)
di Luigi Turinese

Giardino d'inverno - foto Gianna Tarantino



Confesso un certo pudore nel provare a dire qualcosa di sensato a proposito dell’epidemia – o pandemia, poco importa come la vogliamo chiamare – da coronavirus.

Dialettica, clima emotivo e nevrosi
Troppo si è detto, letto e dichiarato, oltre tutto sovente in un clima emotivo che poco invita al ragionamento. Su un piano generale, a proposito di questo tema osservo la grande difficoltà di tutti noi nel mantenere un pensiero dialettico: il che, seguendo Jung, è un criterio diagnostico certo di nevrosi. 
Dal punto di vista junghiano, difatti, la conseguenza più vistosa di uno stato nevrotico è l’unilateralità; laddove la salute mentale consiste innanzitutto nella capacità di mantenere vivi – dentro di sé e con gli altri – i due corni di un dilemma. Insomma, saggio è colui che non risolve il conflitto buttandosi da una parte o dall’altra ma che esamina le posizioni, anche le più contraddittorie, riuscendo – ove possibile – a intravvederne la complementarietà.

La nevrosi dei governi
La questione delle differenze tra i vari governi nell’affrontare l’epidemia/pandemia ne è un esempio interessante. Da una parte la scelta cinese, poi, in salsa mediterranea, dell’Italia; dall’altra quella britannica. La prima ha puntato sull’isolamento progressivamente crescente della popolazione, nell’attesa che si attenui la carica virale; la seconda propone una sorveglianza attiva del virus, ad esempio senza chiudere le scuole, nella speranza che si diffonda una immunità di comunità (la cosiddetta “immunità di gregge”). 
Non importa se il diffondersi del contagio, dal momento in cui ho iniziato a scrivere questo articolo a quando l’ho portato a termine, ha modificato alcune delle posizioni indicate. Quel che voglio significare è la possibilità di pensare mantenendo vivi gli opposti, favorendo l’emersione di un pensiero creativo terzo, che trascenda gli estremi.

Negazione, fobia e paralogismo ovvero psicosi
Allo stesso modo, nei singoli hanno prevalso le opposte posizioni difensive della negazione e della fobia, non di rado condite con argomentazioni viziate da un accentuato paralogismo: ovvero da quello snodarsi di passaggi apparentemente inappuntabili ma derivanti da un premessa indimostrabile o palesemente errata. 
È interessante far notare che il paralogismo è una delle caratteristiche del pensiero psicotico. Quanto detto finora investe l’insieme delle riflessioni suscitate dall’epidemia in corso, tra le quali quelle che riguardano gli anziani. Sin dall’inizio, quasi a voler rassicurare la popolazione, si è insistito sul fatto che si trattasse di una forma parainfluenzale, certo piuttosto aggressiva, che “uccide prevalentemente gli anziani”.

Gli scongiuri degli anziani…
A parte il fatto che molti anziani si saranno prodotti in svariate forme di scongiuro – popolari o più raffinate poco importa –, anche se provvista di incontrovertibile evidenza epidemiologica tale affermazione rientra tra quelle difensive. Come dire: “Mi dispiace per il nonno ma anche stavolta io la faccio franca”. 
Va anche detto che alcuni anziani, al grido di “ho fatto la guerra! ho passato l’asiatica!”, hanno inizialmente sottovalutato la situazione....



Articolo apparso su Generiamo salute - Marzo 2020 


venerdì 5 ottobre 2018

"Hahnemann e la Psichiatria" , di Luigi Turinese


Hahnemann e la Psichiatria
di
Luigi Turinese


Opus contra naturam  (Foto Gianna Tarantino)

“Dopo aver condotto per molti anni uno studio particolareggiato di disturbi della specie più persistente e generalmente incurabili, e di malattie veneree, cachessia, ipocondria e follia, progettai, con l’assistenza dell’onesto Duca (1) , una casa di cura per questo tipo di malattie a Georgenthal, nei pressi di Gotha; fu allora che Klockenbring mi fu condotto da Hannover” (2)

Nell’anamnesi omeopatica, come sappiamo, una parte di rilievo è occupata dall’indagine sul carattere del paziente e sugli eventuali sintomi psichici concomitanti. Il tenore stesso delle domande, volte a far luce su di un’area comunemente ignorata dal medico pratico che non sia specialista in psichiatria, contribuisce a creare una salda relazione medico-paziente e qualcosa che somiglia ad un clima psicoterapeutico.
Qui, dopo tutto, risiede l’origine di quell’effetto placebo che il trattamento omeopatico sembra in effetti possedere in misura maggiore rispetto alle terapie convenzionali e che, se diventa lo strale preferito dai detrattori, dovrebbe invece costituire motivo di vanto per gli omeopati: perché possedere una tecnica anamnestica dotata per così dire di azione terapeutica non è cosa di poco conto.

Il fatto che l’anamnesi omeopatica lasci emergere contenuti psichici ha una duplice conseguenza: da un lato contribuisce a rinsaldare il rapporto tra medico e paziente, con ovvie implicazioni positive, anche sotto il profilo terapeutico e della compliance da parte del malato; dall’altro immette nel campo terapeutico materiali e questioni che, nel caso di pazienti nevrotici, abbisognerebbero di un intervento psicoterapeutico: in questi casi occorre molto buon senso, perché omeopatia e psicoterapia sono interfacciate ma non sono la stessa cosa.
Indubbiamente, all’origine dell’importanza che l’Omeopatia conferisce alla valutazione dell’area psicologica concorre più di un motivo. Certamente vi è un motivo tecnico, ovvero la necessità di porre il maggior numero di elementi gerarchicamente significativi – l’area psicologica certamente lo è – al vaglio della similitudine. Scrive Hahnemann nella “Materia Medica Pura” (1811-1821): “L’impiego omeopatico dei medicinali è più indicato quando non solo i sintomi somatici del rimedio sono simili a quelli della malattia, ma anche quando le alterazioni mentali ed emozionali provocate dalla droga incontrano stati simili nel quadro morboso da curare”. Alcune scuole posthahnemanniane, in verità, hanno in un certo senso ipertrofizzato, isolandole o quanto meno eleggendole a elemento trainante nella ricerca della similitudine, le alterazioni mentali ed emozionali. Oltre al motivo tecnico testé richiamato, però, vi è un motivo storico poco noto, che rivela una disposizione naturale del padre fondatore all’ascolto e alla comprensione del paziente.

Come si ricorderà, Hahnemann si astenne dall’attività clinica a partire dal 1789 per dedicarsi, a partire dall’anno seguente, alla ricerca di un nuovo principio sulla scorta del quale riedificare la clinica. Questo principio, noto come principio di similitudine, troverà una prima enunciazione nel 1796, con la pubblicazione del “Saggio su un nuovo principio per scoprire le virtù curative delle sostanze medicinali, seguito da qualche considerazione sui principî accettati fino ai nostri giorni”, nel quale Hahnemann trae le prime conclusioni di sei anni di sperimentazioni di sostanze medicinali sull’uomo sano.
Il Saggio costituisce in un certo senso l’atto di nascita dell’Omeopatia (anche se il termine Omeopatia apparirà solo nel 1808, nella “Lettera a un medico di alto rango sull’urgenza di una riforma in medicina”); e insieme il colpo d’ala con il quale Hahnemann si solleva da una posizione di mera contestazione della medicina del suo tempo a un livello propositivo e originale. Ad ospitarlo è il secondo numero del Journal der Pratictischen Arzneykunde und Wundarzneykunst, fondato l’anno prima da Cristoph Wilhelm Hufeland (1762-1836), vessillifero della medicina modernista e professore di clinica medica a Jena.
Dunque gli anni dal 1790 al 1796 furono anni di studio e di ricerca, con l’obiettivo di trovare una solida base teorico-pratica sulla quale rifondare l’attività clinica, temporaneamente sospesa.

All’incirca a metà di tale percorso, tuttavia, ci fu un episodio clinico, isolato ma saliente e carico di implicazioni epistemologiche. Siamo nel 1792. La morte del Principe Leopoldo, figlio dell’Imperatrice Maria Teresa, spinge Hahnemann a lanciarsi in una pubblica accusa nei confronti del medico di corte, Lagusius, che ha salassato il paziente per ben quattro volte in ventiquattro ore. La polemica assume toni durissimi; e consente ad Hahnemann di utilizzare quel singolo caso per scagliarsi con una violenza senza mediazioni contro le pratiche – allora molto in uso – dei salassi, degli emetici, dei purganti. L’editore dell’articolo, Becker, forse anche per allontanare il suo confratello massone (Hahnemann aveva aderito alla Massoneria nel 1777) da ulteriori polemiche che non gli avrebbero giovato, gli procura l’incarico di direttore del manicomio di Georgenthal, in Turingia.
Si tratta di uno spazio ricavato dal riadattamento del castello di caccia di Ernst, duca di Gotha, e ospiterà un solo paziente: Friedrich Klockenbring, alto funzionario della cancelleria di Hannover e ministro di polizia, curato senza risultati, tra gli altri, dal dottor Wichmann, medico di corte di Hannover. La moglie, avendo letto su una rivista di divulgazione medica la notizia della prossima apertura dell’ospedale psichiatrico di Georgenthal, decide di tentare quest’ultima carta.
È l’inizio dell’estate del 1792 e un uomo malinconico, sporco, col viso pieno di macchie e l’espressione idiota viene condotto dalla moglie nel castello adibito ad ospedale. L’attuale linguaggio psichiatrico lo diagnosticherebbe probabilmente come uno psicotico maniaco-depressivo con elementi deliranti. È altresì probabile, da notizie in nostro possesso, che il grave quadro clinico sia espressione di una sifilide secondaria. Lunghi periodi di taciturna malinconia si intercalano con fasi eccitatorie in cui egli, guidato da un’energia allucinata e febbrile, declama brani dell’Iliade in greco e testi in ebraico, canta arie dallo Stabat Mater di Pergolesi, recita a memoria passaggi dell’Inferno di Dante o del Paradiso perduto  di Milton, elenca lunghe formule algebriche. Una volta – spinto dall’ansia di conoscere i misteri dell’armonia – fa a pezzi un pianoforte.

Hahnemann trasferisce l’intera famiglia a Georgenthal; per nove mesi osserva il malato, rimane lunghe ore con lui, lo ascolta. Soprattutto, non usa i mezzi di coercizione in uso all’epoca.

Nel febbraio 1796, pubblicando sul Deutsch Monatschrift il caso clinico in questione (“Ritratto di Klockenbring durante la sua follia”), scriverà: “Non faccio mai punire gli alienati con percosse o con altre pene corporali, perché ritengo che non si possa punire la ‘follia’ involontaria; sono convinto che questi malati abbiano diritto alla nostra pietà e che la loro condizione si aggravi quanto più essi vengono maltrattati, senza poter riporre alcuna speranza in un miglioramento: lui mi mostrava spesso i segni delle percosse che i guardiani precedenti gli avevano inflitto durante il ricovero. Il medico di questi infelici deve potersi far rispettare da loro, ma deve anche ispirare loro fiducia; non si ritiene mai offeso da quanto essi possano dire o fare, perché agli alienati è impossibile offendere qualcuno. I loro irragionevoli accessi di collera suscitano la sua comprensione per uno stato tanto meritevole di pietà e suscitano in lui quell’amore per il prossimo che lo induce ad aiutarli” .
Hahnemann si trova immerso nello spirito del suo tempo. Egli, in realtà, non inventa nulla ma applica il buon senso e probabilmente ha ricevuto un’eco della riforma che ha luogo a Parigi in quegli stessi anni ad opera di Philippe Pinel (1745-1826); questi, proprio nei mesi in cui Hahnemann e Klockenbring si fronteggiano nel manicomio di Georgenthal, libera dalle catene i pazzi dell’ospedale Bicêtre, una struttura trasformata via via in ospedale militare, orfanotrofio, prigione e il cui ospite più illustre era stato Donatien Alphonse François de Sade (1740-1814).

Risale infatti a Pinel – e poi al suo erede Jean-Étienne-Dominique Esquirol (1772-1840) – una vera e propria riforma dell’orizzonte psichiatrico, che oltre ai metodi rivoluzionerà il punto di vista sulla follia. Come dirà Hegel, attento lettore di Pinel, nel folle rimane sempre un residuo di ragione, alla quale bisognerà guardare per comprendere e curare la malattia mentale.
"Più o meno, i folli ragionano tutti", scriverà Esquirol nella sua tesi di dottorato del 1805. Ed ancora: "Non solo le passioni sono la causa più comune dell'alienazione, ma intrattengono con questa malattia e con le sue varietà dei sorprendenti rapporti di somiglianza”.
Quest’ultima affermazione può senz’altro applicarsi al caso di Klockenbring, erudito di grande valore ma emotivamente fragile, il cui equilibrio psichico dipende in grande misura dagli umori dell’opinione pubblica. Il suo temperamento eccentrico riceve un colpo irrimediabile allorché il drammaturgo Kotzebue lo diffama in un pamphlet, accusandolo di essere socio del malfamato scrittore Karl Bahrdt, dipinto come alcoolista e sfruttatore della prostituzione.
La condizione in cui Klockenbring precipita è stata illustrata in precedenza. Il trattamento di Hahnemann – in pratica una rieducazione all’umanità attraverso l’umana partecipazione – nel febbraio del 1793 restituisce Klockenbring alla famiglia e al mondo del lavoro (sebbene declassato a un incarico di minore responsabilità). Egli, probabilmente fiaccato nel corpo sebbene curato nell’anima, morirà nel giugno del 1795.

Anche a causa della difficoltà di reperire pazienti in grado di pagare la retta e l’onorario, il caso rimane isolato e nessun altro malato di mente approda al castello di Georgenthal, che viene così dismesso. A chi gli domanda quanti folli siano in cura da Hahnemann, il magistrato distrettuale risponde sarcastico: “Soltanto uno: lui stesso”. Tale è la sorte degli innovatori.

Luigi Turinese

NOTE
[1] Hahnemann si riferisce al Duca di Gotha, suo protettore.
[2] In Haehl, R. (1922, vol. I, p. 41), traduzione mia dall’inglese. 
[3] In Tétau, M. (1997): “Hahnemann. Intuizione e genialità”, Tecniche Nuove, Milano, 2003, p. 42.

BIBLIOGRAFIA

Bradford, T.L. (1885): “La nascita dell’Omeopatia. Vita e lettere di Samuel Hahnemann”, Perla Edizioni, Milano/Grosseto, 1995.
Cook, T.: “Samuel Hahnemann”, Thorsons Publishers Limited, 1981.
Demarque, D: “L’Homéopathie médecine de l’expérience”, Maisonneuve, Muolins-lès-Metz, 1981.
•         de Torrebruna, R. – Turinese, L.: “Hahnemann. Vita del padre dell’Omeopatia. Sonata in cinque movimenti”, Edizioni e/o, Roma 2007.
Guillot, R.-P.: “Samuel Hahnemann pionnier de l’homéopathie”, Editions Sum, Genève, 1993.
Hahnemann, S. (1796): “Saggio su un nuovo principio…”, Guna Editore, Milano, 1994.
      •  Hahnemann, S. : “Striche zur Schilderung Klockenbrings während seines Trübsinns”, Deutsche Monatschrift, Leipzig, 1796.
• Haehl, R. (1922): “Samuel Hahnemann. His life and work”, B. Jain Publishers Pvt. Ltd., New Delhi, 1985.
Larnaudie, R.: “La vita sovrumana di Samuele Hahnemann, fondatore dell’omeopatia”, Fratelli Bocca Editori, Milano, 1942.
Tétau, M. (1997): “Hahnemann. Intuizione e genialità”, Tecniche Nuove, Milano, 2003.
•         Turinese, L.: “Il farmacista omeopata”, Tecniche Nuove, Milano 2002

Articolo pubblicato in HIMed – HOMEOPATHY and Integrated Medicine, Maggio 2018, Volume 9, Numero 1, pp. 18-19


lunedì 21 maggio 2018

Pellegrinaggio sui luoghi di Jung - Luigi Turinese per ilcamminodellanima.it





l termine pellegrinaggio è sottilmente ironico ma in fondo poi non così tanto: C. G. Jung rappresenta infatti, tra i padri della psicologia del profondo, colui il quale più di ogni altro raccoglie su di sé e sul suo pensiero una complessa combinazione di elementi intellettuali, psicologici e spirituali. 
Come molti psicologi analisti ho precocemente amato Ricordi, sogni, riflessioni, prima di affrontare lo Jung ostico e penetrante dei Collected works: lì c’erano confessioni intime, diari di viaggio, aperture verso mondi “altri” e quella lunga dissertazione sulla Torre che Jung iniziò a costruire con le sue mani sul lago di Zurigo per poi farne rifugio per le sue attività creative, dalla scrittura alla scultura, e per ritemprare la sua natura introversa. 

Frontone della casa di Jung con il celebre aforisma

Con i colleghi del Cipa Meridionale, associazione di cui faccio felicemente parte, ho avuto occasione di visitare a metà marzo la Torre, il Club Psicologico di Zurigo, e a Küsnacht lo Jung Institute, il giardino della casa (sul cui frontone spicca il celebre aforisma Vocatus atque non vocatus deus aderit) e il piccolo cimitero – di fatto l’ultima casa – dove una tomba di estrema semplicità accoglie le spoglie mortali di Carl Gustav e della moglie. Poco più in là, in un’unica tomba, riposano Marie Louise von Franz, l’allieva più brillante, e Barbara Hannah, autrice della biografia più attendibile.

Ognuno prova sentimenti diversi, privati e perciò stesso incomunicabili, recandosi sui luoghi dei Maestri. 
Di certo i luoghi di Jung traducono la sobrietà svizzera, priva di culto della personalità: ed è un gran bene questo invito alla deflazione. 
Visitare la Torre, vista in tante fotografie e filmati, con la guida di due nipoti del grande nonno, ha costituito in ogni caso un’esperienza unica. Trovarvi poi, con la sua inseparabile macchina da presa, l’amico e documentarista Werner Weick – autore del magnifico documentario Dal profondo dell’anima – ha costituito un valore aggiunto.

Luigi Turinese


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