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"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia
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lunedì 7 giugno 2021

"Da Catherine Marie-Agnès a Caterina Luisa; e ritorno" di Luigi Turinese - Introduzione a "Il giardino dei tarocchi: il gioco di Niki" (Futura libri, 2020) di Caterina Luisa de Caro

 

Da Catherine Marie-Agnès a Caterina Luisa; e ritorno
di Luigi Turinese

“Quando siamo in un giardino, si manifesta qualcosa dell’anima”

James HIllman



 "Vuoto di senso, senso di vuoto"- foto di Gianna Tarantino 

Un ricordo personale. A metà degli anni ’70, studente di Medicina con una insopprimibile tensione verso le arti e il sapere umanistico, avevo preso l’abitudine, una volta terminato l’orario delle lezioni al Policlinico di Roma, di salire sul primo tram che scendeva verso il Flaminio. Alla fermata di Belle Arti saltavo giù e facevo il mio ingresso nella Galleria Nazionale di Arte Moderna, allora diretta dalla leggendaria Palma Bucarelli. Nel buio di una saletta, non di rado da solo, mi godevo la proiezione di diapositive su un pittore o su un movimento artistico. Le monografie cambiavano ogni due giorni, consentendo così a chiunque di erudirsi nella storia dell’arte. Dopo la proiezione gironzolavo per le sale e ogni tanto “giocavo” con una installazione assai buffa. Si chiamava “Baluba bye bye” e pigiando un pedale si animava tutta, producendo un suono metallico che conferiva al titolo un valore onomatopeico e fonosimbolico. Racconto questo episodio perché, leggendo le dense pagine di Caterina Luisa de Caro, mi sono imbattuto in un deuteragonista della storia narrata, il cui nome era rimasto sepolto in un recesso della mia memoria: Jean Tinguely, scultore svizzero alfiere del “Nuovo Realismo” e dell’arte cinetica, secondo marito di Catherine Marie-Agnès (Niki) de Saint-Phalle e responsabile delle gigantesche strutture metalliche che costituiscono l’”impalcatura” dei Tarocchi realizzati da Niki. Nonché, si sarà capito, autore del mitico “Baluba” della GNAM.

Il libro che sono chiamato a prefare è così saturo da non tollerare commenti superflui. Il lettore vi troverà amplificazioni e nessi che sarebbe ridondante sottolineare. Come altri giardini filosofico-iniziatici, anche il Giardino dei Tarocchi – per chi lo sappia percorrere con intenzione alchemica – costituisce un opus contra naturam. Niki lo ideò e lo realizzò innanzitutto per curare sé stessa. Un po’ come accade all’analista consapevole del fatto che il lavoro svolto nella stanza dell’analisi finirà per modificare entrambi gli attori di quel dramma. Jung lo racconta molto bene ne La psicologia del transfert (1946)[1], dove il fenomeno della traslazione viene esposto sulla falsariga del Rosarium philosophorum, un testo alchemico medioevale le cui venti tavole rappresentano i momenti salienti dell’opus alchemicum, dunque anche del lavoro analitico. Come nell’immaginazione attiva e nella sandplay therapy, metodi di sapore autenticamente junghiano, o nel singolare caso clinico della pittrice americana  Christiana Morgan, le cui elaborazioni figurative costituiscono il nucleo di un seminario[2] tenuto da Jung tra il 1930 e il 1934, nel Gardino dei Tarocchi troviamo una esplicita rappresentazione di archetipi. I ventidue Arcani Maggiori trovano corrispondenza nelle ventidue Sephiroth della Kabbalah; i colori sgargianti richiamano la progressione del Magnum Opus: dalla nigredo alla rubedo, passando per la citrinitas fino all’albedo. “Se si vuole formare una raffigurazione del processo simbolico, la serie di immagini trovate nell’alchimia sono buoni esempi […] Sembra anche come se l’insieme d’immagini nel tarocco fossero discese a distanza dagli archetipi della trasformazione, un punto di vista che è stato confermato per me da una lezione molto illuminante del professor (Rudolf) Bernoulli. Il processo simbolico è un’esperienza in immagini e di immagini. Il suo sviluppo generalmente si presenta come una struttura enantiodromica come il testo dell’I Ching, e così presenta un ritmo di negativo e positivo, perdita e guadagno, oscurità e luce”[3]. In tutte le mantiche da lui indagate, come anche nell’astrologia, Jung vede all’opera la dimensione della sincronicità, quel “principio di nessi acausali” che lega due eventi, uno appartenente alla sfera fisica, l’altro alla sfera psichica. Esso “afferma che i termini d’una coincidenza significativa sono legati da un rapporto di contemporaneità e dal senso” (Jung, 1951: 506)[4].

In conclusione, leggendo il libro di Caterina Luisa de Caro veniamo condotti in un percorso iniziatico che si dipana tra le pagine come un gioco e al gioco chiama[5]. Fruibile come un ipertesto, per la grande mole di richiami e di aperture verso altri mondi sapienziali, non sfigura come viatico per chi decida di effettuare la contemplativa passeggiata tra le gigantesche Lame del giardino di Garavicchio, dono di Niki al viaggiatore mistico[6]. Seguendo James Hillman quando scrive che nei giardini, come in un tempio greco o in una moschea, “[…] il rapporto fra corpo e psiche si rovescia completamente – non più l’anima nel corpo, ma il corpo che passeggia in quel giardino che è l’anima”[7].



[1] Jung, C. G.: In Opere complete, vol. 16 (“Pratica della psicoterapia”), Bollati Boringhieri, Torino 1981.

[2] Jung, C. G.: Visioni. Appunti del Seminario tenuto negli anni 1930-1934, a cura di Claire Douglas, Edizioni Magi, 2004.

[3] “Gli archetipi dell’inconscio collettivo” (1934/1954), in Opere complete, vol. 9.1 (“Gli archetipi e l’inconscio collettivo”), Bollati Boringhieri, Torino 1980.

[4] Jung, C. G.: “La sincronicità come principio di relazioni acausali”, In Opere complete, vol. 8 (“La dinamica dell’inconscio”), Bollati Boringhieri, Torino 1976.

[5] Qui ci riferiamo al gioco nel suo senso filosofico-sapienziale, seguendo Nietzsche quando scrive: “Nel considerare il mondo un gioco divino e al di là del bene e del male, ho come predecessori la filosofia dei Vedanta ed Eraclito” (Nietzsche, F.: Opere, edizione a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1964, VII, II, p.182).

[6] Voglio evidenziare come l’interesse per il Gardino dei Tarocchi non sia un vezzo di pochi stravaganti, se nell’anno in corso (2019) la casa editrice e/o ha pubblicato un godibilissimo romanzo di Lorenza Pieri intitolato Il giardino dei mostri.

[7] Hillman, J.: “Nei giardini. Un ricordo psicologico”, in Politica della bellezza, Moretti & Vitali, Bergamo 1999.


Prefazione a "Il giardino dei tarocchi: il gioco di Niki" di Caterina Luisa de Caro, Futura libri, Giugno 2020, pagg. 9-12 



sabato 10 aprile 2021

lunedì 21 maggio 2018

Pellegrinaggio sui luoghi di Jung - Luigi Turinese per ilcamminodellanima.it





l termine pellegrinaggio è sottilmente ironico ma in fondo poi non così tanto: C. G. Jung rappresenta infatti, tra i padri della psicologia del profondo, colui il quale più di ogni altro raccoglie su di sé e sul suo pensiero una complessa combinazione di elementi intellettuali, psicologici e spirituali. 
Come molti psicologi analisti ho precocemente amato Ricordi, sogni, riflessioni, prima di affrontare lo Jung ostico e penetrante dei Collected works: lì c’erano confessioni intime, diari di viaggio, aperture verso mondi “altri” e quella lunga dissertazione sulla Torre che Jung iniziò a costruire con le sue mani sul lago di Zurigo per poi farne rifugio per le sue attività creative, dalla scrittura alla scultura, e per ritemprare la sua natura introversa. 

Frontone della casa di Jung con il celebre aforisma

Con i colleghi del Cipa Meridionale, associazione di cui faccio felicemente parte, ho avuto occasione di visitare a metà marzo la Torre, il Club Psicologico di Zurigo, e a Küsnacht lo Jung Institute, il giardino della casa (sul cui frontone spicca il celebre aforisma Vocatus atque non vocatus deus aderit) e il piccolo cimitero – di fatto l’ultima casa – dove una tomba di estrema semplicità accoglie le spoglie mortali di Carl Gustav e della moglie. Poco più in là, in un’unica tomba, riposano Marie Louise von Franz, l’allieva più brillante, e Barbara Hannah, autrice della biografia più attendibile.

Ognuno prova sentimenti diversi, privati e perciò stesso incomunicabili, recandosi sui luoghi dei Maestri. 
Di certo i luoghi di Jung traducono la sobrietà svizzera, priva di culto della personalità: ed è un gran bene questo invito alla deflazione. 
Visitare la Torre, vista in tante fotografie e filmati, con la guida di due nipoti del grande nonno, ha costituito in ogni caso un’esperienza unica. Trovarvi poi, con la sua inseparabile macchina da presa, l’amico e documentarista Werner Weick – autore del magnifico documentario Dal profondo dell’anima – ha costituito un valore aggiunto.

Luigi Turinese

lunedì 4 dicembre 2017

Presentazione del libro "Il grande Grabsky" di Marco Rinaldi, Roma 10 Dicembre 2017


Nell'ambito della manifestazione 

Roma EUR
Nuvola di Fuksas
Viale Asia, 40


Domenica 10 Dicembre 2017
ore 16.30
Sala Elettra

Psicanalisi, che spasso!
Il grande Grabsky
di Marco Rinaldi
(Fazi Editore)

Intervengono con l'autore
Paolo Restuccia
scrittore e regista de Il ruggito del coniglio
e
Luigi Turinese
psicoanalista junghiano


domenica 3 dicembre 2017

La psicologia oracolare di Bianca Garufi - di Luigi Turinese


LA PSICOLOGIA ORACOLARE DI BIANCA GARUFI
Luigi Turinese

Alla memoria di B. G., mia iniziatrice ai misteri della Psiche


Riassunto
A un decennio dalla scomparsa e in attesa che nel 2018 si celebri il centenario della nascita, la figura di Bianca Garufi appare come quella di un caposaldo della Psicologia Analitica e in particolare della corrente archetipica, imperniata sul valore dell’immagine. Poetessa e letterata raffinata, Garufi percorre il Novecento con passo leggero eppure originalissimo. Nel presente articolo vengono ricordate le tappe della sua formazione e si passano sinteticamente in rassegna i suoi scritti di ambito psicoanalitico.
Abstract 
Ten years after her passing and waiting for her centennial in 2018, Bianca Garufi appears as a stronghold in Analytical Psychology, particularly in Archetypal Psychology, centered on image. Elegant poetess and literary woman, Garufi crosses the Twentieth Century with a light and very original pace. This paper recalls her training steps and reviews her psychoanalytical works.


"Il Re dei tre Regni" foto Gianna Tarantino


Scrivere su colei che è stata la propria analista personale è un compito che fa tremare le vene e i polsi. Può persino essere un’operazione incosciente, venata di hybris e sempre a rischio di deriva sentimentale.
Tuttavia ho deciso di cimentarmi, se non altro perché ritengo che si debba sempre cercare di restituire ciò che si è ricevuto.

Bianca Garufi (Roma, 21 luglio 1918 – Roma, 26 maggio 2006) appartiene alla prima generazione di analisti junghiani italiani, formati direttamente da Ernst Bernhard nel leggendario studio di Via Gregoriana in Roma.
Erano tempi eroici, nitidamente rievocati dalla stessa Garufi in un appassionato articolo dedicato a Bernhard e intitolato “Una testimonianza” (Rivista di Psicologia Analitica, 54/96, pp. 69-96). “A incontrare Bernhard mi aveva spinto con molta insistenza  […] Bobi Bazlen” (p. 70). Già qui – Roberto Bazlen fu consulente editoriale per le migliori case editrici italiane, nonché nume tutelare della nascente Adelphi – ci troviamo al cospetto di uno degli intellettuali che hanno segnato la vita culturale italiana del ‘900 e che fecero parte dell’entourage di Bianca Garufi.
Bazlen non meno di Cesare Pavese, col quale Bianca ebbe un sodalizio tormentato e fecondo, come testimonia il corposo epistolario a cura di Mariarosa Masoero pubblicato nel 2011 (“Una bellissima coppia discorde”, Olschki, Firenze). La giovane poetessa ispira al più maturo letterato la raccolta poetica “La terra e la morte” e soprattutto “Dialoghi con Leucò”, entrambi pubblicati nel 1947. L’ispirazione mitologica dei Dialoghi e la dedica “A Bianca – Circe – Leucò” non lasciano dubbi sul ruolo di musa culturale avuto dalla Garufi nella vita di Pavese. Nel 1959, nove anni dopo il suicidio dello scrittore, vedrà la luce il romanzo a quattro mani “Fuoco grande” (Einaudi).
La futura psicologa analista ha dunque un DNA innanzitutto letterario.
Nata a Roma da famiglia siciliana[1] , con l’eco del terremoto di Messina del 1908 nelle leggende familiari, Bianca Garufi si trova – giovane donna di ideali progressisti – a partecipare attivamente alla Resistenza e nel dopoguerra si affilia al gruppo di intellettuali che gravita intorno alla casa editrice Einaudi.
Qui frequenta tra gli altri Natalia Ginzburg e, appunto, Cesare Pavese. Nel frattempo (1951) discute la prima tesi di laurea italiana su Jung (“Struttura e dinamica della personalità nella psicologia di Carl Gustav Jung”), relatore il filosofo Galvano Della Volpe.
Negli anni ’60 pubblica i due romanzi “Il fossile” (Einaudi, Torino 1962) e “Rosa cardinale” (Longanesi, Milano 1968) e continua ad accrescere la produzione poetica che verrà raccolta in un unico raffinato volume edito dal prestigioso editore Vanni Scheiwiller (“Se non la vita. Poesie 1938-1991”, Scheiwiller, Milano 1992).
All’attività letteraria in proprio affianca quella di traduttrice, nell’ambito della quale mi piace ricordare la traduzione dal francese di un classico dell’antropologia: “Tristi tropici” di Claude Levi-Strauss (Il Saggiatore, Milano 1960).
Dopo alcuni soggiorni all’estero intraprende l’attività clinica, entrando a far parte dell’AIPA.
Tra i suoi meriti, vorrei citare una naturale inclinazione a sprovincializzare il mondo junghiano italiano, grazie a una caratura internazionale che la conduce a ricoprire la carica di Vicepresidente della IAAP.
Alla sua lungimiranza dobbiamo anche il precoce apprezzamento per l’opera di James Hillman, che a partire dagli anni ’70, anche grazie alla sua mediazione, inizia un fertile rapporto con il nostro Paese, considerato come la culla della Psicologia Archetipica e più volte visitato, con il risultato di una crescente osmosi culturale.
Ricordo quando Bianca mi parlò della folgorazione avuta nel leggere l’ultima parte de “Il mito dell’analisi” [2] (“Sulla femminilità psicologica”), che la spinse a contattare lo junghiano eretico, ancora poco conosciuto in Italia [3]. Non v’è dubbio che il ruolo centrale svolto dal “fare anima” rese il sistema asistematico di Hillman particolarmente attraente agli occhi dell’autrice di “Femminazione”[4] .

 La radice biografica e culturale siciliana spinge Bianca a guardare alla Psicologia Archetipica come alla corrente post-junghiana più adatta ad accogliere il suo peculiare amore per le immagini, che la rendeva capace di entrare col paziente nelle pieghe dei sogni fino a ricavarne l’essenza. Senza nulla togliere alla sua cifra intellettuale, che come vedremo è stata di tutto rispetto, mi piace pensare Bianca come la sacerdotessa di una psicologia oracolare. Negli ultimi anni di attività, quando una grave malattia agli occhi l’aveva privata del piacere di leggere in maniera disinvolta, era emozionante osservare come si lasciasse rapire dalle immagini dei sogni che le venivano raccontati in seduta. Sembrava entrare nel sogno con tutta se stessa e ne tornava sempre con illuminanti associazioni che passo dopo passo contribuivano a costruire nell’analizzato quell’io onirico di cui Hillman auspica la nascita.
Tra i suoi molti lasciti, ho portato con me nella mia attività clinica una allocuzione semplice ma profonda: piano piano, che alludendo ai tempi metabolici della psiche è anche un formidabile suggerimento ansiolitico.

Il lavoro di Bianca Garufi era una dimostrazione empirica del valore anche clinico e non soltanto culturale della psicoterapia archetipica. Come è noto, difatti, una delle critiche più frequenti, quasi retorica, che si muove alla Psicologia Archetipica è di essere debole dal punto di vista clinico. Ebbene, sia il lavoro di Bianca sia quello, teoricamente certo più robusto, di James Hillman, dimostrano la superficialità di tale critica. Oltre a introdurre in Italia il lavoro del Maestro di Atlantic City, la Garufi ha fatto da “madrina” ad altri importanti analisti junghiani di area archetipica. Tra i maggiori ricordiamo Rafael Lopez-Pedraza e Adolf Guggenbühl-Craig, autore tra l’altro di un libro importante, di cui Bianca curò la pubblicazione in lingua italiana e per il quale scrisse la prefazione: “Al di sopra del malato e della malattia” (Raffaello Cortina, Milano 1987).

In ambito psicoanalitico, Bianca Garufi – simile in questo al suo Maestro Ernst Bernhard – non ha lasciato libri compiuti ma soltanto articoli sparsi, pubblicati in Italia[5]  prevalentemente sulla Rivista di Psicologia Analitica e su Anima.
“Sul preconcetto di inferiorità della donna. Alcune riflessioni sul femminile dal punto di vista della Psicanalisi e della Psicologia analitica” (RPA, 16/77, pp. 19-46) è forse il suo articolo più completo e complesso: un vero e proprio saggio, equilibrato, junghiano nello spirito ma capace di riconoscere il genio di Freud. Trovo particolarmente interessante, in un saggio scritto in anni segnati dal femminismo da parte di un’autrice dichiaratamente femminista, la relativizzazione critica della posizione di Emma Jung, giudicata in definitiva tiepida e non abbastanza coraggiosa. “Man mano che le donne diventano più coscienti del loro proprio potenziale, il matrimonio patriarcale diventa sempre più formale e insostenibile” (p. 29). Profetico.
Figure relativamente poco note al mainstream analitico come Esther Harding e Robert Grinnell sono valutate come meritano, mentre un mostro sacro come Erich Neumann riceve la sua dose di critiche: “Le teorie di Neumann sono, senza il minimo dubbio, affascinanti, però nell’approfondirle una donna non può non sentirsi sostanzialmente lasciata fuori”(p. 30).
Tra i grandi post-junghiani, il solo Hillman [6]  sembra incontrare i favori (quasi) completi dell’autrice: “La soluzione alla quale Hillman giunge ci sembra l’elaborazione più attuale delle risposte finora date al problema del femminile nell’ambito della psicologia del profondo. Egli infatti vede la reintegrazione, la riaccettazione del femminile non come una mèta ma come un dato di fatto” (p. 41). Ma Bianca vola più in alto, oltre Hillman: “Così come Hillman vorrebbe che l’integrazione del femminile nell’uomo sia considerato un dato di fatto perché l’uomo possa ritrovare la propria anima, così vorremmo che la realizzazione del maschile venisse considerato un dato di fatto affinché la donna possa ritrovare la propria anima […] Che possa esistere un’umanità nella quale la mente e l’anima abbiano la stessa importanza e possano essere appannaggio di ambo i sessi sembra impossibile, invece è solo difficile” (p. 44).

L’assimilazione del metodo archetipico nell’universo poetico e apparentemente “leggero” di Bianca si può apprezzare compiutamente in “La moda come relazione corpo-psiche” (RPA, 23/81, pp. 53-69), argomento al quale l’autrice afferma di applicare un “approccio immaginistico” (p. 57). Il bisogno umano di ornarsi viene ascritto all’istinto creativo postulato da Jung. Quindi il colpo d’ala: “Come dal «crudo al cotto» per quanto riguarda i cibi, potremmo dire dal nudo al decorato per quanto riguarda il corpo. Decorarsi allora potrebbe essere considerato una sorta di elaborazione alchemica dell’immagine che si ha di sé” (p.. 59-60).

“L’interpretazione innata” (Anima, 4, autunno 1990, pp. 39-46) costituisce un esempio di come un breve articolo dal linguaggio precipuamente filosofico – Jung vi è presentato come una sorta di antesignano della decostruzione à la Derrida, un post-moderno  ante litteram – possa sfociare in un estuario decisamente clinico: “L’interpretazione è buona purché: 1. Essa conservi e il setting e un vero contatto con la psiche. 2. Dia la parola anche alle immagini invece di darla sempre e solo all’Io. 3. Sensibilizzi alla sacralità del basso, così come si è sempre sacralizzato l’alto. 4. Mantenga l’analista in rapporto con la sua ferita segreta, ed insegni al paziente a convivere con la propria. 5. Per quanto possibile incoraggi il valore del gioco, della cordialità e dell’ironia. 6. E, dulcis in fundo, abbia l’abilità di riportare in vita la sua gemella, l’interpretazione innata” (p. 46). Ovvero il naturale istinto di spiegarsi il mondo.

“Reale e surreale. Note fra sonno e veglia” (Anima, 1991, pp. 7-16) richiama sin dal titolo il celebre saggio, breve ma illuminante, scritto da Jung nel 1933 e intitolato Realtà e surrealtà (Jung, Opere complete, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 1976). Vi si può apprezzare la qualità letteraria della scrittura saggistica della Garufi, da questo punto di vista rara avis – occorre dirlo – rispetto alla media della produzione media di ambito psicoanalitico. “Realtà-surrealtà, due dimensioni insite nella vita, nel mondo, e quindi in noi, e che unitamente ad infinite altre coppie di dimensioni dà, a noi, e a tutto quanto è intorno a noi, sostanza e valore pluridimensionale” (p. 9). Un altro Profeta dell’immaginale viene chiamato in causa: “Sarebbe utile […] chiedere lumi a Gaston Bachelard, lo studioso francese che ha dedicato tutta la sua vita alla surrealtà, e alla realtà della surrealtà” (p. 12).

Dello stesso prolifico anno è “Un esempio di funzione trascendente” (RPA, 43/91, pp. 55-70), articolo dettagliato e clinicamente avvertito, non privo di elementi di teoria della clinica, come si può apprezzare nella parte finale, dedicata al metodo, tutt’affatto junghiano, dell’amplificazione. Il leit-motiv è costituito da un caso clinico in cui ricorre il tema onirico del serpente: immagine archetipica che “appare […] spesso nei sogni e nelle fantasie quando la mente conscia si allontana dalle sue basi istintuali” (p. 57). La funzione trascendente chiamata in causa sin dal titolo indica nell’opera di Jung l’esito del confronto tra istanze psichiche opposte: quando l’Io riesce a mantenerle in uno stato di tensione creativa senza identificarsi con una delle due potrà crearsi una condizione nuova in grado di trascendere il conflitto tra gli opposti.

Altro articolo colto e denso di implicazioni è “Sull’immagine” (RPA, 50/94, p.. 139-156). Oltre alla pregnanza del tema, squisitamente junghiano, scritto in termini filosoficamente ineccepibili e inattaccabile anche dal punto di vista medico-psichiatrico (a p. 153 si trova una interessante digressione sull’argomento delle allucinazioni, molto acutamente distinte dalle visioni), vi sono particolari che meritano attenzione: tra tutti la dedica “A Robert Avens con adesione e amicizia”. Probabilmente pochi ricorderanno questa singolare figura di filosofo lettone (1923-2006), di formazione europea, Professore Emerito di Studi Religiosi negli Stati Uniti. Studioso tra l’altro di Henry Corbin, uno dei padri riconosciuti della Psicologia Archetipica grazie alla centralità nei suoi scritti del mundus imaginalis, Avens fu autore nel 1980 di un libro importante, di cui cinque anni più tardi Bianca curò con amore la traduzione in lingua italiana: “L’immaginazione è realtà. Una lettura radicale delle opere di Jung, Hillman, Barfield, Cassirer” (Edizioni di Comunità, Milano 1985). Il titolo dice tutto. In un’epoca che sembra ormai lontana, in cui l’analisi poteva comprendere – quando la situazione lo richiedeva – anche suggestioni e suggerimenti bibliografici, questo era un testo che Bianca appassionatamente chiamava in causa. L’eleganza con cui venivano immessi nell’ora analitica testi e punti di vista era tale da non disturbare mai il setting. Erano cenni, associazioni laterali, semplici mezzi di amplificazione; ma nel tempo si comprendeva quanto fossero stati mezzi abili per contribuire ad ampliare la coscienza. Ancora ho memoria del primo incontro con la letteratura di Clarice Lispector o la scoperta di Evangelos Christou, autore de Il logos dell’anima (Città Nuova, Roma 1987; ed. or. 1977), un testo impervio con una bella prefazione di Hillman.
 Avvicinandosi agli ottanta anni e soprattutto con l’aggravarsi dei problemi alla vista, i contributi teorici e la partecipazione attiva al dibattito analitico naturalmente si attenuarono.

È di un certo interesse un breve scritto del 1996 dal titolo “L’assassino interiore” (Anima, 1996, pp. 93-97): il caso di una donna i cui sogni rivelano la presenza di un “Barbablù interiore”, responsabile, ben più delle repressioni sociali, delle sue difficoltà evolutive. “Oggi, per la donna moderna, il compito non è più soltanto quello di lottare per la parità dei diritti umani, etici, civili […] Riconoscere, e forse debellare l’assassino interiore, può infatti costituire per la dimensione femminile una lotta ancora più ardua e più dura di quella sostenuta prima. Si tratta di […] un contenuto in cui il maschile ha subito una torsione, che da complementare e creativo come avrebbe potuto essere, lo ha reso antagonista e distruttivo” (p. 96).

La perdita del marito Pierre Denivelle aggravò definitivamente gli insulti dell’età e Bianca sembrò farsi tutta Anima, con quel che ne seguì nei termini dell’affievolirsi della vita del Logos. Tuttavia, quando demmo vita a quell’irripetibile mosaico di pensiero estetico che fu “Caro Hillman. Venticinque scambi epistolari con James Hillman”  (a cura di Riccardo Mondo e Luigi Turinese, Bollati Boringhieri, Torino 2004), io e Riccardo Mondo volemmo fortemente che la prima lettera dell’epistolario (“Alma Mater: per un Logos del sentimento”, pp. 37-43) fosse a firma di Bianca Garufi. Non nascondo che quel faticoso e commovente commiato dalla vita intellettuale necessitò un robusto editing: eppure non avemmo il minimo dubbio che poggiare il libro su quella pietra angolare fosse un doveroso atto di gratitudine. “Caro Jim, affrontare il tuo pensiero non è facile. L’unico modo per farlo mi è sempre sembrato poter disporre insieme del rigore dell’analista e della passione della letterata: logos e  eros, ancora” (p. 38).

Non vorrei che aver voluto chiudere l’articolo su questo episodio possa apparire come un cedimento sentimentale. Bianca Garufi è stata molto di più che un nume protettore, ha svolto un ruolo che sopravanza di molto l’incoraggiamento affettuoso a due giovani analisti che si cimentavano in un’opera forse più grande di loro. Ho cercato di dimostrarlo passando sinteticamente in rassegna i suoi apporti teorici alla nostra disciplina e penso che sia giunto il momento, a oltre dieci anni dalla sua scomparsa, di tornare su alcuni temi e soprattutto su un modo di fare psicologia che è anche un modo di fare anima.

Note:
[1] A Letojanni, paese in provincia di Messina dove la presenza di un Palazzo Garufi attesta l’origine della famiglia, è stata intitolata a Bianca la locale Biblioteca Comunale.
[2] Adelphi, Milano 1979 (ed. or. 1972).
[3] Nell’Introduzione ai Saggi sul Puer (Raffaello Cortina, Milano 1988), silloge di saggi hillmaniani pubblicata come tale soltanto in italiano, l’Autore ringrazia esplicitamente Bianca Garufi per quanto sta facendo per introdurre in Italia il suo pensiero. Tra le curatele della Garufi è doveroso segnalare quella alla prima edizione italiana de Il sogno e il mondo infero (Edizioni di Comunità, Milano 1984; ed. or. 1979).
[4] Si tratta di un lavoro teatrale rappresentato alla RAI nel 1974.
[5] In lingua inglese svariati articoli sono apparsi sul Journal of Analytical Psychology e su Spring, la rivista diretta da Hillman.[6] Come già riferito, Bianca era rimasta letteralmente folgorata dalla lettura della terza parte de “Il mito dell’analisi”, un testo che precede di cinque anni la stesura dell’articolo in questione.


 Articolo pubblicatao su enkelados - Rivista Mediterranea di Psicologia Analitica (Nuova Ipsa Editore), Anno V, 
n 6/2017, pp 49-55

venerdì 4 maggio 2012

Le Recensioni di L.T. - "Lettere", di C.G. Jung

Carl Gustav Jung, "Lettere" (tre vol,), , Edizioni Scientifiche MaGi, Roma, 2006, pp. 1338


Continuare a considerare Jung un allievo, o peggio, ancora un epigono, di Freud costituisce una rimarchevole ingenuità. Il percorso culturale - non solo psicoanalitico - del saggio di Küsnacht si snoda attraverso gran parte del XX secolo, affondando all'indietro negli anni di formazione, avvenuti esattamente nell'ultimo quarto del secolo XIX, essendo Jung nato nel 1875.

La sua produzione "canonica" consta dei diciotto volumi - oltre a un diciannovesimo volume di bibliografia generale e indici analitici - dei Collected Works.
Se si pensa tuttavia che la Philemon Foundation, sotto la direzione di Sonu Shamdasani, ha varato un piano di pubblicazione di trenta volumi di inediti, si ha una misura dell'immensa attività di questo gigante della cultura contemporanea.

L'opera che l'editore Ma.Gi. propone, con la consueta benemerita incoscienza, comprende un migliaio di lettere curate da Aniela Jaffé e da Gerhard Adler.
Si immagini che esistono, ancora inedite, oltre trentamila lettere ... Si può dire che Jung abbia scritto, durante la sua vita attiva, circa un paio di lettere al giorno. Non mere lettere formali, si badi bene: ma talora veri e propri piccoli saggi, che illuminano su un ventaglio di interessi veramente enciclopedico.

Per compiere una recensione ai tre volumi che presentiamo basterebbe un elenco dei più noti destinatari.
Si spazia da esponenti della psicoanalisi e della psicologia analitica (ovviamente Freud, ma anche Karl Abraham, Michael Fordham, Esther Harding, Erich Neumann, l'americano Whitmont, anche medico omeopata, Sandor Ferenczi, Ernest Jones, Jolanda Jacobi, oltre alla stessa Aniela Jaffé, preziosa segretaria dell'ultimo periodo) a cercatori spirituali (tra tutti Padre White, il frate domenicano lo scambio epistolare col quale costituirà il primo volume di inediti; e poi Evans-Wentz e D.T. Suzuki, studiosi di buddhismo, l'indologo Heinrich Zimmer e il sinologo Richard Wilheim, Henry Corbin, appassionato esploratore della mistica islamica, il conte Keyserling, Mircea Eliade e il mitologo Karl Kerenyi); da fisici come Oppenheimer e Pauli ad artisti del calibro di Hermann Hesse e James Joyce; e ancora astrologi (tra tutti Andrè Barbault) e promotori culturali come Olga Fröbe-Kapteyn, animatrice e mecenate degli incontri di Eranos.

Non vanno sottovalutate neppure le lettere a interlocutori anonimi, con cui Jung si intrattiene senza alterigia e con passione non inferiore a quella che profonde nel dialogo coi "grandi".

Quello che traspare da questo epistolario è una costante tensione etica, che lascia intravedere come Jung non considerasse il lavoro analitico concluso nelle quattro mura dello studio professionale.
Vi sono, in questo senso, i germi del futuro continuatore James Hillman e della sua preoccupazione per la terapia dell'anima mundi.

Si nota inoltre una dimensione autenticamente interdisciplinare di Jung: la stessa che lo conduceva in spericolate ma preziose amplificazioni nell'interpretare il materiale analitico. Da questo punto di vista, vediamo all'opera un costante spirito di ricerca, sempre guidato da un'istanza empirica e mai dogmatica.
Come si legge in una lettera destinata nell'autunno 1944 al teologo cattolico H. Irminger: "Mio egregio Signore! Io pratico la scienza, non l'apologetica o la filosofia, e non ho né la capacità né la voglia di fondare una religione. Il mio interesse è scientifico e il suo confessionale [...] Come scienziato devo guardarmi dal credere di essere in possesso di una verità definitiva [...] Non ho alcuna ambizione di professare o di sostenere qualsivoglia fede. A me interessano esclusivamente i fatti".

Luigi Turinese

In foto: "Gli strumenti dell’amanuense"

Recensione apparsa nella rubrica "Recensioni" della Rivista di Psicologia Analitica, Nuova serie, n.23, Volume 75/2007,"Tracce di Jung", pagg. 157-58

sabato 31 dicembre 2011

Turinese e l'attualità di Jung nell'orizzonte della scienza e della cultura contemporanee

L'evento: In vista della manifestazione alla biblioteca comunale di Cassino presentiamo in anteprima l'intervento del notissimo psicoanalista (L'inchiesta, Giovedì 1 dicembre 2011, pag. 12)

L’attualità di Jung nell’orizzonte della scienza e della cultura contemporanee

di Luigi Turinese

Uno degli elementi più singolari – ogniqualvolta si confrontino i destini e le fortune postume di Freud e di Jung – mi è sempre sembrato l’ambiente di partenza e quello di arrivo del loro pensiero. Freud infatti prese le mosse dalle pruderies della borghesia austriaca per dare origine a una stirpe di clinici rigorosi e ad una Weltanschauung dominata da un materialismo talora asfittico; mentre Jung, partito dall’esperienza del Burghölzli, l’ospedale psichiatrico dell’Università di Zurigo, che lo costrinse a misurarsi con la schizofrenia, forse per una malintesa interpretazione della sua apertura nei confronti degli elementi a-razionali dell’esperienza ha finito per dar voce a zuccherosi sincretismi new age.

Un altro fenomeno curioso e meritevole di ricerca consiste nella “dispersione” di temi junghiani in altre cornici teoriche. Più di una scuola postfreudiana ospita infatti – talora senza saperlo – intuizioni che furono presentate da Jung nella loro formulazione originaria. Si pensi all’idea che esistano strutture psichiche innate, all’enfasi sull’uso clinico del controtransfert, alla scoperta che il processo analitico ha una valenza trasformativa su entrambi i termini della coppia, alla maggiore attenzione data al Sé piuttosto che all’Io.

Alcuni innovatori della psicologia hanno un debito implicito nei confronti della Psicologia Analitica: per esempio non molti sanno che lo stesso Paul Watzlawick, esponente di spicco della cosiddetta Scuola di Palo Alto, autore di molte opere e coautore della celeberrima Pragmatica della comunicazione umana, ha effettuato tra le sue formazioni anche il training presso lo Jung Institut di Zurigo.

In altro ambito, le scienze della complessità postulano alla loro base un assunto sistemico – la coesistenza di verità parziali ma non contraddittorie – che trova riscontro nella concezione junghiana di psiche complessa, ovvero nella descrizione della topografia psichica non alla stregua di un monolite dominato dall’Io ma come un arcipelago nel quale si possono riconoscere plurime istanze e articolate connessioni tra “sub-personalità” incarnate, appunto, dai cosiddetti complessi a tonalità affettiva.
Questi ultimi furono scoperti da Jung nel corso dei suoi esperimenti di associazione con il galvanometro e con il pneumografo, che daranno luogo, in ambito criminologico, all’invenzione del cosiddetto lie-detector o macchina della verità.

Nel linguaggio comune usiamo ormai con disinvoltura termini come estroverso e introverso, che provengono direttamente da Tipi psicologici, scritto da Jung nel 1921.

Il Web pullula di test di personalità frutto dell’evoluzione della tipologia junghiana, a partire dal test di Myers-Briggs, la cui ultima rielaborazione va sotto il nome di Jung Type Indicator (JTI).

Non parliamo poi delle innumerevoli filiazioni all’interno delle correnti orientaliste e più in generale neospirituali; ma anche del recupero della dimensione spirituale della cura in molte declinazioni della cosiddetta Psicologia Umanistica.

Perché poi non citare anche ricadute dei concetti e del linguaggio lontano dalla sorgente, come testimonia ad esempio l’ultimo, bellissimo album realizzato dal gruppo rock dei Police prima dello scioglimento e intitolato Synchronicity? Nei testi delle canzoni, con autentico furore creativo, Sting utilizza immagini esplicitamente ispirate all’universo junghiano, in particolar modo a quella dimensione al di là dello spazio e del tempo che Jung chiamò sincronicità:
Sincronicità, un principio di collegamento
legato all'invisibile
quasi impercettibile
qualcosa di inesprimibile
la scienza è insensibile
la logica così inflessibile
casualmente collegabile
tuttavia nulla è invincibile
È così profonda, è così vasta
la tua intima Sincronicità
Effetto senza causa, leggi subatomiche, pausa scientifica
Sincronicità


Passiamo a un altro ambito artistico. Quando cerchiamo di comprendere la complessità psicologica di molte pièces del teatro moderno, dei suoi personaggi minori, non eroici, deuteragonisti o antagonisti, la visione freudiana è una chiave interpretativa un po’ angusta. Da questo punto di vista, Jung ci fornisce maggiori suggestioni. Come scrive Samuels, storico della Piscologia junghina e panalista egli stesso: “Tutta la sua psicologia prende la forma di un’animazione di personaggi interiori”. Si tratta, a ben vedere, di un’applicazione particolare della teoria dei complessi a tonalità affettiva, cui facevo riferimento poco sopra.
Tutto ha inizio, come abbiamo visto, con l’impiego del test di associazione, che fornisce la prova sperimentale dell’esistenza di complessi. Il complesso – scrive Jung“si comporta, nell’ambito della coscienza, come un corpus alienum animato”.
Non c’è bisogno di sottolineare più che tanto l’analogia tra i complessi e i personaggi di una pièce. Lo stesso Jung definisce “il teatro come un’istituzione per l’elaborazione pubblica dei complessi”. In un certo senso, il drammaturgo è posseduto dai complessi. I complessi possiedono una potente inclinazione alla personificazione e l’artista, per così dire, ne approfitta.
Scrive ancora Jung: “Quando crea un personaggio per la scena crede forse che si tratti esclusivamente di un prodotto della sua fantasia; questo personaggio si è invece in un certo senso fatto da sé”. Il drammaturgo, dunque, sa attraversare il ponte che mette in comunicazione l’Io e l’Inconscio.

Non vorrei però dare l’impressione che Jung abbia fornito spunti ad artisti e uomini di cultura, trascurando il mondo scientifico. Basti pensare al mutuo fecondarsi del pensiero junghiano e della fisica quantistica, incarnato nel rapporto tra lo stesso Jung e il premio Nobel per la Fisica Wolfgang Pauli e che ha dato i migliori frutti nell’elaborazione della dimensione della sincronicità, cui abbiamo fatto cenno prima parlando del musicista rock Sting.
Il termine descrive la connessione fra eventi del mondo fisico e del mondo psichico che avvengono nello stesso tempo e tra i quali non vi è una relazione di causa-effetto ma una comunanza di significato. Essa è all’origine delle cosiddette coincidenze significative.
Tale dimensione non causale – spesso adoperata a sproposito per indicare banali coincidenze nella vita di tutti i giorni – può fornire tra l’altro la base per rifondare il paradigma psicosomatico su basi più solide. Difatti il funzionamento psicofisico, nel costrutto junghiano, è un caso speciale della teoria generale della sincronicità: corpo e psiche vivono in una simbiosi intima e, appunto, sincronica. Il parallelismo delle concezioni nel campo della fisica e in quello della psicologia – postulato da Jung in accordo appunto con gli sviluppi della “nuova fisica” – suggerisce la visione di una fondamentale unicità di tutti i fenomeni della vita: un mondo in cui psiche e materia non si attuano separatamente e che Jung definisce Unus Mundus.

Voglio concludere con un’immagine stimolata dal pianeta dominante del Leone, segno di nascita di Jung, che tra l’altro fu sempre molto incuriosito dall’astrologia. Così come il Sole irradia luce e calore donando vita a distanze siderali, allo stesso modo il pensiero di Jung, a distanza di cinquant’anni dalla morte, continua a nutrire la nostra cultura, generosamente, a volte inconsapevolmente, proprio come fa il Sole ogni giorno.

Luigi Turinese

In foto: "Light UFO"

Articolo pubblicato su "L'inchiesta - Quotidiano dell'alta terra di lavoro e della Ciociaria", 1 dicembre 2011, pag 12

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domenica 4 dicembre 2011

Articolo su "L'Inchiesta", Quotidiano di Cassino

"Il pensiero di Jung, medicina del tratto nevrotico dell'uomo"
di Sergio Procacci

Cassino/ A 50 anni dalla morte, un evento per ricordare e far conoscere la figura dell'esistenzialista

Sono intervenuti ieri, presso la biblioteca comunale, Maria Felice Pacitto e Luigi Turinese

In una società che insegue i miti che ha creato e di cui ormai è schiava, in una Cassino che è città di provincia in espansione, in bilico tra fantasmi del passato, mali quotidiani e prospettive del futuro, ricordare Jung a 50 anni dalla scomparsa poteva apparire quanto di più lontano dalle esigenze della gente, da quella comune a quella "sofisticata".
E invece la manifestazione organizzata da Maria Felice Pacitto ha stupito la città. Ha presentato infatti la figura, forse a tratti controversa come tutte le figure dei grandi del passato, di un uomo che ha veicolato il messaggio del "mettiti a viaggiare", "trova te stesso", "individuati", "lavora", per citare la conclusione del discorso della stessa Pacitto.

Quel monito che assomiglia ad un "gnôthi sautòn" (conosci te stesso) di memoria classica, è preambolo di un viaggio nell'universo junghiano che porta alla scoperta di un pensatore, di un artista, di un medico, di una personalità poliedrica che va ad affrontare "il tratto nevrotico dell'uomo contemporaneo" cercando di "limare l'unilateralità" come sapientemente illustrato da Luigi Turinese, psicologo-analista junghiano.
Se infatti l'uomo deve compiere il cammino della "individuazione", quale processo di differenziazione della personalità individuale, questo a maggior ragione non significa fossilizzarsi su un unico aspetto del proprio essere, ma diventare una persona completa.

"Trovare sé stessi, differenziarsi dagli altri" ha ribadito la psicoterapeuta Pacitto. Una lezione complessa e impegnativa che ha saputo spaziare dagli aspetti più accademici del fenomenologo esistenzialista autore del "Libro rosso", diario segreto e manifestazione delle proprie teorie, al loro riverberarsi nella vita e nel linguaggio di tutti i giorni.

Dalla "macchina della verità" alla musica rock dei Police, al teatro, per evidenziare l'evoluzione del sistema delle associazioni emotive di Jung, il concetto di sincronicità e lo spazio per l'elaborazione pubblica dei complessi, Turinese conclude parlando di Jung come di un "misterioso big bang" come "un sole che riscalda senza preoccuparsi del luogo lontano che va a scaldare" per via di una generosità incondizionata.

Ricordando Jung non si poteva non parlare di Freud, del rapporto tra i due, di come il "discepolo designato" diventò per "il padre della psicoanalisi" un figlio ribelle.
Ma diversamente non poteva essere, dopo che agli occhi di Jung, Freud perse di autorevolezza proprio non volendo dare una risposta che a un suo avviso avrebbe generato proprio questo effetto.

Jung fu capace di "mettere insieme la spiritualità, ma anche lo spirito scientifico", ha detto la Pacitto mettendo insieme le note biografiche di un uomo circondato da un "ambiente medianico". Aneddoti e note di colore in cui prepotente torna il sogno della basilica di Basilea sommersa dallo sterco e quella negazione del dio cristiano che la Pacitto accosta alla "Morte di Dio" a cui era arrivato Nietzsche.

E di lì al confronto allo Zarathustra il passo è breve. "I don't believe, I know", risponde Jung in un'intervista in cui gli viene chiesto se crede in Dio e fa sorridere Turinese, che sembra avere negli occhi l'immagine dello psicologo, mentre spiega: "Non credo, conosco".
Perché la forza del sapere scaccia la credenza.




In Foto: "Orsa lucente"

Articolo di Sergio Procacci, apparso sul quotidiano di Cassino "L'Inchiesta", nella rubrica "Primo Piano", di sabato 3 Dicembre 2011

Vai alla pagina del Convegno di Cassino

domenica 27 novembre 2011

"Incontrare Jung" - Cassino, 2 Dicembre 2011


A 50 anni dalla morte
"Incontrare Jung"
Proiezione del film biografico:
"Dal profondo dell'anima" di
Werner Weick

Venerdì 2 Dicembre ore 16
Biblioteca "Piero Malatesta" - Cassino


Introduce:
Maria Pia Pacitto
"Introduzione a Jung: tra mito, psiche, filosofia"

Interviene:
Luigi Turinese
"L'attualità di Jung nell'orizzonte della scienza e della cultura contemporanee"


Associazione di Psicologia Umanistica ed Analisi Fenomenologica-Esistenziale.
Con il Patrocinio dell'Ordine degli Psicologi della Regione Lazio


Leggi il resoconto sul Convegno, di Sergio Procacci pubblicato sul quotidiano di Cassino "L'Inchiesta" di sabato 3 dicembre 2011

Leggi il contributo di Luigi Turinese pubblicato su "L'Inchiesta" del 1 dicembre 2011, pag 12

martedì 15 novembre 2011

Jung 50 anni dopo.Un confronto tra psicologia analitica e il mondo contemporaneo - Convegno internazionale






Jung 50 anni dopo


Un confronto tra psicologia analitica
e il mondo contemporaneo.
Congresso Internazionale




Per celebrare il cinquantesimo nniversario della morte di Carl Gustav Jung e della fondazione in Italia della prima istituzione dedicata allo studio ed alla promozione della Psicologia Analitica, l’Associazione Italiana di Psicologia Analitica (AIPA) ed il Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA) hanno deciso di organizzare insieme un Congresso che si svolgerà a



Roma
nei giorni
18, 19 e 20 novembre 2011

alla
LUISS Guido Carli
Via Pola, 12




Leggi il programma completo

sabato 5 novembre 2011

Le Recensioni di L.T. - "Analisi dei sogni", di C.G. Jung

Carl Gustav Jung, "Analisi dei sogni", Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 708

Alla celeberrima definizione di Freud – “Il sogno è la via regia che porta alla conoscenza dell’inconscio nella vita psichica” – fa da contraltare l’affermazione di Jung che “il sogno è la piccola porta occulta che conduce alla parte più mistica e più intima dell’anima”.

Fatta salva la notevole differenza linguistica, la concezione del sogno come grimaldello per penetrare nel sancta sanctorum della vita psichica accomuna i due padri fondatori.
Tuttavia Jung abbandona la pretesa semeiologica di Freud, attribuendo le inintelligibilità contenute nei sogni non già al nascondimento di un contenuto latente da portare alla luce bensì alla nostra difficoltà di decifrare un linguaggio così distante da quello della coscienza. “In contraddizione radicale con Freud, affermo che l’inconscio dice ciò che vuole dire. La natura non è mai diplomatica. Se la natura produce un albero, è un albero, non un errore per un cane. […] La teoria di Freud è stata creata dalle sue pazienti. L’analista è troppo soggetto all’influenza delle pazienti, gli riempiono la mente con il loro pensiero. Questi meccanismi desideranti delle donne sono fonte d’errore per il medico; dobbiamo continuamente lottare contro questi pensieri insinuanti” (p. 76).

Nel Seminario sui sogni qui presentato – che l’ottima curatela da parte di Luciano Perez consente finalmente di apprezzare in italiano – il distanziamento da Freud e dalla sua pretesa di razionalizzare il sogno è espresso con chiarezza: “L’idea di Freud è che il sogno sia razionale. Io affermo, invece, che è irrazionale, che succede e basta. Un sogno appare, come può apparire un animale. Io sto seduto nel bosco, e appare un cervo” (p. 133).

Ogni approccio al sogno, inoltre, presuppone un modello della psiche; il modello junghiano, come è noto, è quello della dissociabilità della psiche e dei suoi complessi, che qui viene ribadito con suggestive amplificazioni: “Forse ognuno di noi è soltanto un complesso di una mente più grande, come nelle nostre menti i complessi sono istanze autonome individuali” (p. 440). Nel rivelarci che siamo plurimi, il sogno depotenzia l’egemonia dell’io. Il mondo notturno è popolato da innumerevoli figure e restituisce alla coscienza questo senso di molteplicità; l’io onirico recita semplicemente uno dei ruoli del dramma (Jung insiste sulla struttura drammatica del sogno: preambolo, situazione, catastrofe, soluzione) e arriva a percepirsi come immagine.

L’ Analisi dei sogni è il resoconto di cinquantuno incontri – avvenuti il mercoledì mattina, presso il Club psicologico di Zurigo, tra il 7 novembre 1928 e il 25 giugno 1930 – nell’ambito dei quali Jung presenta il caso di un paziente di quarantacinque anni, uomo d’affari, che lo consulta per così dire perché “troppo adattato” e alla ricerca di un senso. “La storia di quest’uomo […] è il processo di individuazione” (p. 329).
È interessante che tra adattamento e individuazione Jung ponga una dialettica, sullo sfondo della quale immaginazioni e simboli possono risultare fertili per l’uomo ben adattato e invece germi di inflazione per chi sia ancora senza radici.
I partecipanti al Seminario – tutti selezionati dallo stesso Jung e analizzati da lui o da colleghi zurighesi – sono una cinquantina, un terzo dei quali analisti praticanti o in formazione. Nell’esposizione del caso, Jung si appoggia a trenta sogni del paziente, presentati con un commento ipertestuale fatto di sterminate amplificazioni, che rivelano un’erudizione immensa e confermano un talento sciamanico unito ad un buon senso sempre pronto a preferire la vita a qualunque catechismo analitico.

L’importanza di questo Seminario risiede nella sua particolare collocazione storica. Tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, infatti, assistiamo ad un passaggio cruciale nello sviluppo del pensiero di Jung, come testimoniano anche le lezioni sul kundalini yoga, oggetto di un seminario in quattro parti tenuto nell’autunno del 1932.

Si ricordi che, anche se un po’ scolasticamente, si può dividere il percorso di ricerca di Jung in tre fasi:
* La fase psichiatrica, che va dal 1900 al 1912 e comprende al suo interno la parabola del rapporto con Freud.
* La fase gnostica (1912-1929), nel corso della quale vengono elaborati i concetti di archetipo e di inconscio collettivo, oltre che naturalmente la tipologia psicologica.
* La fase alchemica, che costituisce di certo la maggiore originalità di Jung e si svilupperà in varie direzioni fino alla morte (1961).

Pur considerando tutt’altro che insignificante o meramente preparatoria la prima fase, non c’è dubbio che lo snodo principale nella teoria e nella prassi junghiane si situi a cavallo tra terzo e quarto decennio del secolo, proprio negli anni in cui vediamo dipanarsi l’ Analisi dei sogni.
Nei Collected Works, paradigmatica per chiarire questo passaggio è un’opera come L’io e l’inconscio (Jung, 1928), nella prima parte della quale (“L’azione dell’inconscio sulla coscienza”) Jung si muove ancora in un contesto gnostico. Nella metafora gnostica, la guarigione coincide con la scoperta del dio dentro di sé; o, se si preferisce, con la liberazione di Sophia, cioè dell’Anima imprigionata nella materia.

Radicalmente diversa la metafora alchemica, che costella l’attesa dell’emersione delle immagini dall’inconscio; lo Jung alchemico sottolinea l’importanza di mantenere viva la tensione tra gli opposti, ciò che evoca l’apparire del terzo: la funzione trascendente, che, componendo gli opposti, consente l’accesso a una nuova situazione psichica.
Sono molte le allusioni alle coppie di opposti, nell’ Analisi dei sogni: Eros/Logos; coscienza/inconscio; inconscio personale/inconscio collettivo…

Altri concetti-chiave dello junghismo sono tratteggiati o solamente allusi; è il caso della sincronicità, che come concezione compiuta, invero, è di là da venire (La sincronicità come principio di nessi acausali è del 1952) ma è presente in embrione quando Jung dice: “Il sincronismo è il pregiudizio dell’Oriente; la causalità è il pregiudizio dell’Occidente moderno” (p. 89).

Vi sono poi numerose amplificazioni nella direzione dell’alchimia, delle religioni (si citano il mandala, il Bardo Thödol – tradotto in inglese nel 1927 – l’ I Ching, l’Islam; ma anche la Trinità), dell’antropologia (Jung aveva già compiuto i suoi viaggi in Africa).
Interessanti digressioni sul simbolismo della croce e della mezzaluna prendono le mosse da relazioni di allievi, tra cui si può notare Ester Harding, che in seguito porterà la psicologia analitica negli Stati Uniti e scriverà La strada della donna e I misteri della donna.
Alla difesa della nozione di archetipo viene affiancata una sua distinzione dal simbolo, a proposito del quale si spendono parole fondamentali: “Si è abusato moltissimo della parola simbolo. Freud chiama simboliche cose che sono soltanto semiotiche. Se avesse avuto una formazione filosofica, non avrebbe confuso i due termini” (p. 525).

Jung afferma ripetutamente l’importanza del fare coscienza. “La nostra meta dovrebbe essere quella di ampliare la nostra coscienza. Ci succedono delle cose, che noi ne siamo consci o no, ma se siamo inconsci la vita non ha senso” (p. 248). O ancora: “[…] avere un inconscio personale è una cosa assolutamente superflua, una sorta di negligenza” (p. 115).

Molte altre perle il lettore potrà scoprire da sé, in questo libro ottimamente curato e provvisto di un didattico saggio introduttivo di Augusto Romano (pp. 9-22) e di un CD-Rom contenente, tra l’altro, 364 immagini.

Soltanto due notazioni mi premono, per chiudere questa incompleta recensione.
Una ha a che fare con un tema che può sorprendere, dato il presunto pregiudizio di Jung circa il lavoro con i gruppi; si legge infatti a p. 244: “Un uomo è qualcosa soltanto in rapporto ad altri individui. Se ne ha un quadro completo soltanto se lo si vede in rapporto al suo gruppo; allo stesso modo, non si conoscono una pianta o un animale se non si conosce il suo habitat”. L‘altra riguarda il costante richiamo alla necessità di tenere presente la tipologia psicologica dell’analista e del paziente nel lavoro clinico (Tipi psicologici è del 1921): prassi che ogni psicologo analista contemporaneo sente di dover irridere, chissà per quale arcano motivo; e che Jung ribadisce invece innumerevoli volte, fino alla radicale ingiunzione presente a p. 172: “Ci si deve accostare a ogni tipo nella sua modalità specifica”.

Luigi Turinese

In foto: "Sancta sanctorum"

Recensione pubblicata su Studi Junghiani, n° 18, Franco Angeli, Milano, Luglio–Dicembre 2003, pag 101

e nella Rubrica "In libreria" di Crocevia

giovedì 3 novembre 2011

Le Recensioni di L.T. - "C.G. Jung. Immagine e parola", (a cura di) A. Jaffé

Aniela Jaffé (a cura di): "C.G. Jung. Immagine e parola", Edizioni Magi, Roma 2003, pp. 242

Dobbiamo essere grati alle Edizioni Magi per questo commovente omaggio a Jung, la cui originalità risiede nel felice connubio tra le molte immagini – tratte dalla mostra organizzata a Zurigo in occasione del primo centenario della nascita (1975) – e testi, in parte inediti, ricavati soprattutto dalle lettere e da Ricordi, sogni, riflessioni.

L’imponente lavoro di montaggio si deve ad Aniela Jaffé, nelle cui fedele mani Jung aveva depositato il prezioso lascito di RSR.
Il libro è organizzato in diciannove capitoli, un’appendice nella quale viene descritta la personalità di Jung, una cronologia e un glossario. Ogni capitolo contiene una scelta di testi essenziali per comprendere il relativo tema e una raccolta di immagini, fotografie, disegni atti a completarne il profilo.

Ne viene fuori un ritratto del ricercatore svizzero abbastanza esaustivo, forse un poco agiografico, tenuto conto del fatto che si è scelto di trascurare gli aspetti d’ombra e problematici; cosa abbastanza comprensibile, tuttavia, se si ricorda l’occasione per la quale la mostra fu organizzata. Inoltre, il volume ha il sapore di un omaggio amoroso giustamente idealizzante e devo dire che semplicemente sfogliarlo dà una certa emozione a chi Jung lo ama, oltre a considerarlo il fondatore della Psicologia Analitica.
Vedere un destino che si annuncia, si dipana e infine si compie dà sempre una certa emozione; e questo è il fascino delle biografie, per chi si dia la pena di provarlo. Nel caso di Jung, poi, vi è una tale corrispondenza tra la sua vita e le sue costruzioni teoriche che non è retorico parlare, a proposito di questo volume, di un documento di individuazione.

È difficile dare conto dei capitoli più interessanti. Il libro inizia significativamente dai nonni – con la nota leggenda che vuole il nonno omonimo figlio naturale di Goethe – e prosegue con la giovinezza; vi ritroviamo un ragazzo introverso e al tempo stesso assai determinato, la cui presenza alle riunioni del circolo studentesco universitario Zofingia era così “rumorosamente” attiva da valergli il nomignolo di Walze (rullo compressore).
Un capitolo viene opportunamente dedicato alla tesi di laurea, nella scelta dell’argomento della quale (Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti) si ritrovano a ben vedere – sebbene ancora in nuce – alcuni dei temi che condurranno, cinquant’anni più tardi, agli studi sulla sincronicità.
È poi documentato il fondamentale soggiorno al Burghölzli, l’ospedale psichiatrico di Zurigo in cui vennero effettuati gli esperimenti di associazione e nell’alveo del quale maturò Psicologia della dementia praecox (1907). A questo proposito, merita notare il paradosso per il quale Jung, partito dall’esperienza del Burghölzli che lo costrinse a misurarsi – giovane psichiatra – con la schizofrenia, forse per una malintesa interpretazione della sua apertura nei confronti degli elementi a-razionali dell’esperienza ha finito per dar voce – malgrè lui – ad epigoni responsabili di zuccherosi sincretismi New Age.

I capitoli rispettivamente dedicati a Freud e ad Adler – significativo recupero – uniscono alla ricostruzione storica la rivalutazione del tema della tipologia psicologica, assurdamente rimosso in casa junghiana: è noto infatti che Tipi psicologici (1921) nacque dalla domanda : ”In che mi differenzio da Freud e da Adler?”.
I capitoli centrali del libro sono dedicati al fertile e drammatico confronto con l’inconscio, che diede luogo alle suggestive amplificazioni nella direzione delle filosofie orientali e dell’alchimia; da un ramo collaterale dell’interesse per quest’ultima derivarono le due conferenze su Paracelso, la cui genesi è ampiamente documentata.
Due capitoli legati alla tecnica riguardano rispettivamente i temi della psicoterapia e della traslazione, nei quali si conferma la profonda umanità di Jung, il suo modo di interpretare il ruolo del medico e il suo senso di responsabilità nel lavoro con i pazienti.
Il capitolo più lungo del libro – trenta pagine – è dedicato ai viaggi compiuti in Africa, in India, nelle Americhe; e che, se da una parte rivelano l’attitudine antropologica di Jung, dall’altra – o forse proprio in virtù di essa – spiegano il suo radicato sentimento di cristiano europeo. La conoscenza e il rispetto delle altrui tradizioni confermarono infatti Jung nella necessità di tenersi alla propria, senza annacquarla in impossibili sincretismi.

Bellissimo è il capitolo in cui si descrivono i Convegni Eranos, che si svolsero ad Ascona, sul Lago Maggiore, in un clima di interdisciplinarietà e di amore per la conoscenza; Jung vi tenne quattordici relazioni, la prima nel 1933 – anno inaugurale – e l’ultima nel 1951, anticipando i temi dello scritto sulla sincronicità, che fu pubblicato l’anno seguente.

Un lungo capitolo riguardante quella struttura in continua progressione che fu la torre di Bollingen – vero e proprio correlato in pietra dell’evoluzione spirituale di Jung – apre alle pagine finali del libro, nelle quali si rivela in tutta la sua essenza l’homo religiosus; poiché – sia detto chiaramente – non si può sperare di comprendere veramente Jung trascurando l’aspetto spirituale del suo lavoro. Su questo punto egli è molto chiaro: “Fra tutti i miei pazienti al di sopra della mezza età, non ce n’è stato uno solo il cui problema sostanziale non fosse quello del suo atteggiamento religioso; e nessuno è guarito veramente se non è riuscito a raggiungere un atteggiamento religioso”. Ancora: “L’interesse principale del mio lavoro non risiede nel trattamento delle nevrosi, ma nell’accostamento al numinoso. In effetti l’accesso al numinoso è la vera terapia, e nella misura in cui si arriva alle esperienze numinose si è salvati dalla maledizione della malattia. La malattia stessa assume un carattere numinoso”.

Che cos’altro dire di questo libro? Sentitamente commossi, ringraziamo.

Luigi Turinese

In foto: "Pianeta copta (particolare)"

Recensione apparsa su "La Perdita. Lutti e trasformazioni", "Rivista di Psicologia Analitica", "Nuova serie n.17, La biblioteca di Vivarium, 69/2004, pp. 191-192

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