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"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia

martedì 28 aprile 2020

Di virus, di morte e altre sciocchezze (cit. Guccini)

Di virus, di morte e altre sciocchezze (cit. Guccini)
di Luigi Turinese

Giardino d'inverno - foto Gianna Tarantino



Confesso un certo pudore nel provare a dire qualcosa di sensato a proposito dell’epidemia – o pandemia, poco importa come la vogliamo chiamare – da coronavirus.

Dialettica, clima emotivo e nevrosi
Troppo si è detto, letto e dichiarato, oltre tutto sovente in un clima emotivo che poco invita al ragionamento. Su un piano generale, a proposito di questo tema osservo la grande difficoltà di tutti noi nel mantenere un pensiero dialettico: il che, seguendo Jung, è un criterio diagnostico certo di nevrosi. 
Dal punto di vista junghiano, difatti, la conseguenza più vistosa di uno stato nevrotico è l’unilateralità; laddove la salute mentale consiste innanzitutto nella capacità di mantenere vivi – dentro di sé e con gli altri – i due corni di un dilemma. Insomma, saggio è colui che non risolve il conflitto buttandosi da una parte o dall’altra ma che esamina le posizioni, anche le più contraddittorie, riuscendo – ove possibile – a intravvederne la complementarietà.

La nevrosi dei governi
La questione delle differenze tra i vari governi nell’affrontare l’epidemia/pandemia ne è un esempio interessante. Da una parte la scelta cinese, poi, in salsa mediterranea, dell’Italia; dall’altra quella britannica. La prima ha puntato sull’isolamento progressivamente crescente della popolazione, nell’attesa che si attenui la carica virale; la seconda propone una sorveglianza attiva del virus, ad esempio senza chiudere le scuole, nella speranza che si diffonda una immunità di comunità (la cosiddetta “immunità di gregge”). 
Non importa se il diffondersi del contagio, dal momento in cui ho iniziato a scrivere questo articolo a quando l’ho portato a termine, ha modificato alcune delle posizioni indicate. Quel che voglio significare è la possibilità di pensare mantenendo vivi gli opposti, favorendo l’emersione di un pensiero creativo terzo, che trascenda gli estremi.

Negazione, fobia e paralogismo ovvero psicosi
Allo stesso modo, nei singoli hanno prevalso le opposte posizioni difensive della negazione e della fobia, non di rado condite con argomentazioni viziate da un accentuato paralogismo: ovvero da quello snodarsi di passaggi apparentemente inappuntabili ma derivanti da un premessa indimostrabile o palesemente errata. 
È interessante far notare che il paralogismo è una delle caratteristiche del pensiero psicotico. Quanto detto finora investe l’insieme delle riflessioni suscitate dall’epidemia in corso, tra le quali quelle che riguardano gli anziani. Sin dall’inizio, quasi a voler rassicurare la popolazione, si è insistito sul fatto che si trattasse di una forma parainfluenzale, certo piuttosto aggressiva, che “uccide prevalentemente gli anziani”.

Gli scongiuri degli anziani…
A parte il fatto che molti anziani si saranno prodotti in svariate forme di scongiuro – popolari o più raffinate poco importa –, anche se provvista di incontrovertibile evidenza epidemiologica tale affermazione rientra tra quelle difensive. Come dire: “Mi dispiace per il nonno ma anche stavolta io la faccio franca”. 
Va anche detto che alcuni anziani, al grido di “ho fatto la guerra! ho passato l’asiatica!”, hanno inizialmente sottovalutato la situazione....



Articolo apparso su Generiamo salute - Marzo 2020 


venerdì 24 aprile 2020

Sul "Burn out", lo stress da lavoro

Quando ci si sente "fusi" - Note sulla sindrome del burn out
di Luigi Turinese

La luna e il falò - foto Gianna Tarantino


In un film di James Foley del 1992, Americans, interpretato da Al Pacino, Kevin Spacey, Alec Baldwin e un monumentale Jack Lemmon in uno dei suoi rari ruoli drammatici, ai quattro dipendenti di un’agenzia immobiliare di New York vengono dati dei contatti ai quali fornire dei contratti di vendita. Una sera, arriva in agenzia un inviato della proprietà incaricato di fare da motivatore: per risollevarsi, l’agenzia lancia una sfida a tutti i suoi dipendenti. Chi riuscirà a vendere di più avrà in premio una Cadillac Eldorado, il secondo riceverà un servizio di coltelli da bistecca, per gli altri licenziamento immediato. 
Si scatena il panico tra i dipendenti, ognuno dei quali è costretto ad affrontare una serie di problemi derivanti dalla sovrapposizione tra la nuova situazione di urgenza e questioni familiari e private. Come si può ben immaginare, la tensione cresce, insieme al crollo di qualunque residua istanza altruistica e collaborativa.

Quella appena descritta è una tipica situazione foriera di burn out. Descritta compiutamente a partire dagli anni ’70 negli USA, la sindrome del burn out è un processo multifattoriale (psico-socio-culturale) che comporta il progressivo esaurimento motivazionale dei lavoratori, soprattutto quelli dediti a professioni di aiuto, anche se negli ultimi anni le condizioni di pressione economica e prestazionale presenti in molti settori hanno condotto a un allargamento del campo di indagine, tanto che nel 2019 della sindrome si è occupata ufficialmente l’OMS. 
“Il burn out – si legge sul sito dell’agenzia speciale dell’Onu per la salute – è incluso nell’11esima revisione dell’International Classification of Diseases (ICD-11) come un fenomeno occupazionale (stress da lavoro). 
Non è classificata come una condizione medica”. Il quadro clinico è polimorfo: si va da sintomi aspecifici (insonnia, astenia, “nervosismo”) a sintomi somatici (cefalea, eretismo cardio-vascolare) e psicologici (depressione, rabbia, indifferenza nei confronti delle mansioni e degli utenti). 
Ne consegue un esaurimento emotivo (con un sinistro gioco di parole potremmo dire che si va dall’empatia all’apatia), depersonalizzazione (distacco dagli altri, cinismo, sino all’ostilità), ridotta realizzazione personale (in ultima analisi, si prova un senso di fallimento). 
Non di rado, prima di rivolgersi al medico e/o alla psicoterapia, il soggetto prova a forzare la situazione con eccitanti o rilassanti leciti (caffè, alcool, talora benzodiazepine autoprescritte) sino a sostanze illegali

giovedì 23 aprile 2020

Terza età e ipermedicalizzazione degli anziani - di Luigi Turinese

Note sull’ipermedicalizzazione degli anziani

“La medicina ha fatto così tanti progressi che oramai più nessuno è sano” 
(Aldous Huxley)

Il padre Anchise - foto Gianna Tarantino



In ambito geriatrico, il 30% dei ricoveri ospedalieri e il 20% delle spese sanitarie superflue sono riconducibili a prescrizioni inappropriate. Senza arrivare a questi estremi, osserviamo che non pochi anziani sono trattati con una politerapia che può superare la quantità di dieci farmaci diversi da distribuire - con fatica - all’interno della giornata. Anche soltanto considerando il rischio di interazioni tra farmaci e la difficile compliance che deriva da una così complessa gestione, si tratta di dati allarmanti.
A questi si aggiunga un fenomeno che rientra a pieno titolo tra gli effetti indesiderati generali: l’aumentato rischio di caduta prodotto da alcuni medicinali di uso comune presso gli anziani (benzodiazepine, antidepressivi, antipertensivi, ecc.), che ha condotto a compilare vere e proprie liste di Fall Risk Increasing Drugs.

Viva i pazienti spaventati
Il fatto è che i medici sono formati per prescrivere; e specularmente i pazienti sono inclini a pretendere una prescrizione, trasformandosi così da (presunti) malati a consumatori.
Il fenomeno della medicalizzazione della società non è limitato agli anziani. Basti pensare alla patologizzazione di ogni esperienza che si situi al di fuori dell’ideale di una vita senza scosse: i bambini vivaci diventano iperattivi, le delusioni sentimentali garantiscono l’ingresso nella categoria “depressione”; e così via. Per ognuno di questi inconvenienti c’è un farmaco. È come se ciascuno di noi fosse dichiarato incapace di affrontare i saliscendi della vita senza tutela medica. Questo scenario si aggroviglia in modo particolare nella cosiddetta “terza età”, anche mercé l’enfasi posta sui “fattori di rischio”.
Non si può infatti trattare il tema dell’ipermedicalizzazione separandolo dalla questione della sovradiagnosi.
A tale riguardo nel settembre 2013 si è tenuta negli USA la prima conferenza internazionale Preventing Overdiagnosis. Ben prima (2002) il British Medical Journal aveva inaugurato la rubrica “Too much medicine” e a partire dal 2010 la rivista Archives of Internal Medicine ospita la rubrica “Less is more” (d’altronde, già Ippocrate ammoniva: “Per il malato, il meno è il meglio”). Segno che anche la medicina accademica si sta accorgendo del problema.

Il target governativo o la professione medica?
L’imperfezione dei test - unita al continuo abbassamento dei valori-soglia, che trasforma ogni disturbo o anomalia statistica in una malattia in agguato –, il trattamento farmacologico di deviazioni dalla norma (già; ma qual è la norma?) che ancora non si sono palesate in quadri clinici (con gli effetti collaterali del caso), l’aspettativa indotta negli utenti di soluzioni definitive sono altrettanti limiti alla forsennata corsa allo screening.
Nel 2009 Michael Oliver, professore emerito di cardiologia presso l’Università di Edimburgo, pubblica sul British Medical Journal un articolo in cui descrive, con humour britannico, l’odissea di un gruppo di pensionati in buona salute convocati dal proprio medico di base per un check-up annuale e trasformati ipso facto in malati spaventati e bisognosi di esami diagnostici, terapie farmacologiche e drastiche proibizioni delle loro abitudini voluttuarie.
“Che razza di medicina è questa, dove la politica prevale sulla professionalità, l'ossessione per i target governativi si sostituisce al buon senso e il paternalismo rimpiazza la responsabilità personale? Sembra che la maggior parte dei Governi occidentali consideri tutte le persone al di sopra dei 75 anni come pazienti.” Una malintesa interpretazione dell’idea di medicina preventiva concorre dunque a trasformare i sani in malati.



Bibliografia:
Su disease mongering vedi Marco Bobbio, dal significativo titolo “Il malato immaginato” (Einaudi, Torino 2010).
Sull’invito a passare dalla patologia alla clinica cfr. Turinese, L.: “Modelli psicosomatici. Un approccio categoriale alla clinica”, Elsevier-Masson, Milano 2009.
Su Colesterolo vedi Marco Bobbio “Leggenda e realtà del colesterolo. Le labili certezze della medicina” (Bollati Boringhieri, Torino 1993).
Vedi anche:
Illich, I. (1976): “Nemesi medica”, Mondadori, Milano 1977.
Richard J. Ablin (2014): “Il grande inganno sulla prostata”, Raffaello Cortina, Milano 20

Luigi Turinese

Articolo apparso su Generiamo salute  - Gennaio 2020

  

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