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"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia
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domenica 3 marzo 2019

Zoomorfismo, fisiognomica e fitognomica. Della Porta antesignano della biotipologia in medicina


“Zoomorfismo, fisiognomica e fitognomica. 
Della Porta antesignano della biotipologia in medicina”
 di Luigi Turinese

"Cold fire" foto di Gianna Tarantino

“Coloro che vogliono far profitto in questa scienza bisogna che studino
 con grandissima  disciplina  i libri delle istorie degli animali”
(G. B. Della Porta)


Nel caos in cui si trova venendo alla luce, l'uomo cerca da sempre un ordine figurandosi il mondo come un sistema di segni da interpretare. Possedere una semiotica universale, ecco il grande, inconscio desiderio dell'umanità: ogni segno rimanda all'altro, in una ragnatela di significati  da  penetrare con chiavi sempre più  sottili.

Questo vero e proprio metodo di conoscenza, in uso sin dall'antichità, trova la sua più compiuta applicazione, nel tardo Medioevo e nel Rinascimento, con la  dottrina delle signature, secondo la quale il Creatore ha posto nel mondo, e nelle sue creature, dei segni indicatori: basta saperli leggere.

Così ogni pianta reca in sé dei  particolari che indicano la propria funzione terapeutica: il succo giallo della celidonia ci comunica la sua indicazione nelle affezioni epatiche; la preferenza di alcune piante per habitat lacustri o fluviali ci fa comprendere la loro indicazione in malattie  provocate dall'umidità, come le malattie reumatiche; e così via. Non è difficile scorgere la discendenza di tale pensiero dal Timeo platonico, in cui viene adombrata  una  corrispondenza  tra  macrocosmo (mondo) e microcosmo (uomo). Si  tratta  di  un  pensiero analogico, sicuramente prescientifico ma che getta la sua ombra lunga in piena epoca scientifica, se un astronomo del calibro di Keplero (1571-1630) poteva ancora scrivere: "Dio, troppo benevolo per restare in ozio, iniziò a  fare il  gioco  delle segnature ed iscrisse la sua simiglianza nel mondo...".

A  questa  logica  si ispira  anche  la  fisiognomica (da physis =natura e gnome = conoscenza), che nel considerare il volto come centro rivelatore della personalità postula un fondamentale rispecchiamento tra corpo (viso) e anima. Inoltre, essa  manterrà  per  tutta  la  sua  lunga  storia  un  topos immutabile: lo zoomorfismo, cioè la comparazione tra tipologie facciali e tipologie animali allo scopo di trarre indicazioni sul carattere  degli  uomini  traendole  dal  carattere  degli animali a cui assomigliano.

Le prime tracce di un sapere fisiognomico sono riscontrabili in epoca paleo-babilonese (XVII secolo a. C.). 
Passando al mondo greco è d’obbligo citare Pitagora (VI secolo a. C.), che sottoponeva i discepoli a esame fisiognomico. Egli ne avrebbe appreso l’arte presso Arabi, Ebrei, Caldei. Nel Corpus Hippocraticum la prima apparizione del termine si riscontra nel trattato delle “Epidemie” (V secolo a. C.). Platone (V-IV secolo a. C.) introduce elementi di zoomorfismo nel Fedone.
Contemporaneo di Platone, anche Antistene, fondatore della scuola cinica, si sarebbe occupato di fisiognomica. Aristotele (384-322 a.C.) si serve dello zoomorfismo nella sua Storia  degli  animali,  considerata  il  primo  compiuto trattato  di fisiognomica che si conosca.
Un epigramma dell’Antologia Palatina (III secolo a. C.) parla di un certo Eustene, “fisiognomico capace di capire dallo sguardo anche il pensiero”.
Per quel che attiene al mondo latino, Cicerone (106-43 a.C.) si fa divulgatore, nel “De fato”, delle   posizioni aristoteliche. Nel “De oratore” troviamo inoltre la celebre affermazione, pertinente al nostro tema, “Imago animi vultus est”.
Polemone di Laodicea (II secolo) riprende lo zoomorfismo nel suo trattato sulla fisiognomica, conservato in una versione in lingua araba del XIV secolo e tradotto in latino soltanto nel XIX secolo. Apuleio (II secolo), nelle “Metamorfosi”, si produce in una descrizione fisiognomicamente considerevole del protagonista Lucio. A Roma fioriva l’attività dei metoposcopi, che leggevano il futuro nelle rughe della fronte.

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Dopo alcuni secoli di relativo letargo, nel corso del Medioevo la fisiognomica  riprende vigore e viene diffusa in Europa grazie alla mediazione della cultura araba.
Il Rinascimento vede il fiorire di posizioni nuove accanto a riflessioni sulle cosmogonie antiche, per lo più mutuate dal Timeo.
La  figura  di  Leonardo  da  Vinci  (1452-1519)  è  centrale nell'evoluzione della fisiognomica. Non solo per quel tanto di genio che  Leonardo mise in ogni campo  dello scibile cui  si interessò; non solo per la possibile esistenza, di cui gli studiosi discutono da tempo, di uno studio leonardesco sulla fisiognomica, che sarebbe perduto; ma soprattutto per la connessione, che con Leonardo si fa esplicita, tra fisiognomica e arte figurativa. "Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell'animo; altrimenti la tua arte non sarà laudabile". Come  afferma  lo  storico  dell'arte  Flavio  Caroli (1995: 12):  "[...] il cammino della pittura strettamente intersecata con la psicologia, cioè con la fisiognomica, è l'asse portante della cultura figurativa occidentale". Tale asse affonda le sue radici nel genio di Leonardo.
Dopo  di  lui,  innumerevoli  uomini  d'arte  e  di  scienza rinascimentali hanno affrontato le tematiche fisiognomiche. Nel “De sculptura” di Pomponio Gaurico (1481-1530) un capitolo viene dedicato alla fisiognomica, con particolare riguardo ai temi degli occhi e dello zoomorfismo.
Un gigante della pittura come Tiziano Vecellio (1490-1576), nella “Allegoria della prudenza”, del 1565, utilizza temi zoomorfici, giustapponendo a tre teste di uomini di diversa età rispettivamente il cane, il leone (considerato dai fisiognomici l’animale in cui si celebra al massimo grado la combinazione di forza e saggezza) e il lupo. Michelangelo Biondo (1497-1656), filosofo e medico veneziano di formazione napoletana, nel “De cognitione hominis per aspectum” (1544) seppe conciliare conoscenze artistiche, fisiognomiche e mediche.
Ma è soprattutto Gerolamo Cardano (1501-1576) ad imprimere un segno originale allo studio dei rapporti tra anima e corpo. Nel primo libro del trattato “Metoposcopia”, pubblicato postumo, possiamo  leggere: "Questa  arte,  che  è  la  parte principale della fisiognomica, si sforza di predire il futuro attraverso l'ispezione sia della faccia frontale che della sua lunghezza, larghezza e delle sue diverse linee, ed anche dai marchi naturali che vi si trovano". Cardano, pur essendo medico, si muove ancora in un universo culturale in cui la pratica divinatoria ha la meglio su quella più propriamente clinica, e in cui i segni del volto sono signature a tutti gli effetti.
Montaigne (1533-1592) dedica alla fisiognomica un intero capitolo degli “Essais” (1588).

Il punto di cerniera, e al tempo stesso di svolta, tra cultura cinquecentesca impregnata di magismo e pensiero razionalistico secentesco si ha con l'opera di Giovan Battista Della Porta (1535-1615). La sua “Fisionomia dell'huomo” (Napoli, 1598) è l'edizione in lingua volgare dei  precedenti studi in latino dell'autore, arricchita di  un centinaio  di  tavole  esemplificative  che mettono  aristotelicamente  a  confronto  animali  e  uomini.  Di nuovo lo zoomorfismo, dunque, che Della Porta utilizza, nel trattato “Phytognomonica octo libris contenta” (1588), anche per  uno spericolato  studio  comparativo  tra  mondo  animale  e  mondo vegetale, in cui indaga le proprietà delle piante a partire  da  somiglianze  morfologiche  con  parti  di  organismi animali.
Lo studio delle signature delle piante è volto alla ricerca di una unità estetica dell’Universo. Lo zoomorfismo di Della Porta si situa tra lo schematismo grafico di Gerolamo Cardano e il razionalismo di Charles Le Brun, che vedremo tra breve.
L’animale simboleggia l’essenza, la qualità fondamentale di un essere umano. “Mai la natura fece un animal che avesse il corpo d’uno o l’animo di un altro animale: cioè un lupo, over agnello, che avesse anima di cane o di leone […] Se l’anima umana venisse in un corpo di cane, restandogli però l’intelletto, non avrebbe costumi se non di cane”.
L’Universo appare così come un grande teatro di frattali: ogni cosa riflette e significa tutte le altre: tout se tient, in una dimensione protostrutturalista.

Il  Seicento  è  il  secolo  in  cui  si  cerca  di  indagare  le passioni con l'ausilio della ragione. René Descartes (1596-1650) indirizza parte della sua attività filosofica ad investigare il rapporto tra anima e corpo. Di  questa  sezione  della  produzione  di  Cartesio  bisogna ricordare “Les Passions de l'Ȃme” (1649), di cui trascriviamo un  brano  in  cui  vengono  elencati  i  segni  esteriori  delle passioni: "I più importanti tra questi segni sono i moti degli occhi  e  del  volto,  i  mutamenti  di  colore,  i  tremiti,  il languore,  gli  svenimenti,  il riso,  le lacrime,  i  gemiti,  i sospiri".
Pressoché contemporaneo di Cartesio è Charles Le Brun (1619-1690), primo pittore di Luigi XIV, cui si devono importanti riflessioni teoriche su tematiche fisiognomiche. Si ricordano il “Traité des Passions” (1649) e soprattutto la serie di conferenze tenute  presso  l'Accademia  Reale  di  Pittura  e  Scultura, dedicate all’espressione generale e particolare.
A partire dal Settecento, la fisiognomica tende per così dire a specializzarsi, spostandosi progressivamente in ambito medico e lasciando alla pittura un ruolo più illustrativo.
Mantiene una certa autonomia artistica e una certa unitarietà l'opera del pittore inglese William Hogarth (1697-1764), che nel 1743 realizza, nella stampa “Caratteri e  caricature”, una vera e propria  summa  di  fisiognomica  applicata al disegno.  Dieci  anni  più tardi,  l'artista  sente  il  bisogno  di  dare  una  copertura teoretica  alla  sua  perizia  grafica,  pubblicando il  trattato di estetica “The analysis of beauty” (1753), di cui riportiamo un passo dalla prima traduzione in lingua italiana, del 1761: "[...] il volto è l'indice dell'animo; e questa massima è tanto radicata in noi, che non  possiamo  fare a  meno[...]  di  formare qualche particolar concetto della persona, di cui si osserva il volto, anche  prima  di  ricevere  informazione  per  altri  versi[...]  E' ragionevole il credere che l'aspetto sia una vera e leggibile immagine dell'animo, che dà a ognuno a prima vista l'istessa idea;  e  vien  poi  confermata  in  fatti:  per  esempio,  tutti concorrono  nell'istessa  opinione  a  prima  vista  di  un  vero idiota".
Lo  svizzero  Johann  Caspar  Lavater  (1741-1801)  può  essere considerato l'ultimo fisiognomico puro, che indaga le forme fisse per carpirne significati oggettivi. Dopo di lui saranno maggiormente indagate le forme mobili dell'espressione: la mimica, la gestualità, il comportamento. Si parlerà allora più   propriamente   di   patognomica   (da pathos = passione e gnome = conoscenza); mentre  la fisiognomica rifluirà in ambito medico e avrà come erede la frenologia. L'opera di Lavater è probabilmente sopravvalutata, forse perché a suo tempo ebbe l'iniziale  adesione  di  due  personaggi  del calibro di Goethe e di Füssli. Lavater è ricordato soprattutto per le sue silhouettes, tratte dal “Physiognomische Fragmente” (1775-1778).

Dicevamo prima della frenologia. Il suo fondatore, Franz Joseph Gall  (1758-1828),  nei  lavori “Recherches  sur le système nerveux” (1808) e “Anatomie et physiologie du système nerveux” (1819) afferma che la forma che definisce le funzioni non è quella  facciale ma  quella cerebrale e che quest'ultima può essere  dedotta  dalla  forma del  cranio.
Inizia  così  una minuziosa analisi delle bozze e degli avvallamenti del cranio, ingenua anticipazione dello studio delle aree cerebrali. La  frenologia  conosce  in  breve  tempo  un  largo  successo  di pubblico. Gli imprenditori    cominciano a richiedere certificazioni  craniologiche  prima  di  assumere  impiegati, proprio  come  si  fa  oggi  inserendo  uno  psicologo  nelle commissioni che  selezionano il personale. A un livello più popolare, ci si fa fare il profilo frenologico come ai giorni nostri si chiederebbe  il  tema  natale astrologico. A questo scopo, nel 1835 i fratelli Povel aprono a Philadelphia  il  primo locale dove, a pagamento,  viene effettuata  la  lettura  del cranio; il successo sarà di  tale portata  da  indurli  ad  aprire  a  New York un Phrenological Cabinet;  non avendo  tempo  e  modo  di  recarvisi,  i  clienti potevano inviare un buon dagherrotipo del proprio cranio. Non mancano i veri e propri ciarlatani. Il filosofo Friedrich Engels ricorda  lo  spettacolo  di  un frenologo che girava per le campagne con una ragazza che faceva sprofondare in estasi mistica premendole sul cranio il “centro della preghiera”. Il tutto davanti a un folto pubblico,  dapprima  incredulo  e  poi  convertito  alla nuova “scienza”.

Sempre  nell'Ottocento,  è  d'obbligo  menzionare  un  precursore dell'etologia: niente meno che il grande Charles Darwin (1809-1882), conosciuto per “L'origine delle specie” (1859) ma anche autore di un libro meno noto, “The expression of emotions in man and animals” (1872),  in  cui  sostiene  che  le  espressioni  delle emozioni sono al servizio della selezione naturale, fisiologici segnali di difesa o di attacco.
Passato  alla  storia  per  il  celebre  ritratto  che  gli  fece Vincent Van Gogh nel 1890, pochi mesi prima del suicidio, il dottor  Paul  Ferdinand  Gachet  (1829-1903)  fu  psichiatra, elettroterapeuta,  omeopata.  Da  pittore  dilettante  qual  era, effettuò  ritratti  delle  internate  all'ospedale  psichiatrico della Salpetrière, allo scopo di studiare i segni somatici ed espressivi della follia. Gachet si era laureato con una tesi sulla  Malinconia,  di  cui riportiamo  un passo  che  assume  un valore  ancora  maggiore  se  lo  leggiamo  avendo  presente  il ritratto  che   gli   fece   Van   Gogh e    che  sembra un'iconografia  esplicativa dei suoi argomenti. Gachet  descrive la patognomica  del malinconico:  "Sembra  che  la  creatura  si rattrappisca, si ripieghi su se stessa, si comprima, come se dovesse  occupare  il  minor  posto  possibile  nello  spazio.  La postura  del  malato  è  tutt'affatto  particolare.[...]  Il  tronco semiflesso sul bacino, le braccia trattenute verso il torace.[...] La testa quasi piegata sul petto leggermente inclinata.[...] Tutti i  muscoli  del  corpo  sono  in  uno  stato  di  semicontrazione permanente[...]  i  muscoli  facciali  sono  come  contratti[...]  e conferiscono alla fisionomia un aspetto di particolare durezza; i  muscoli  sopraccigliari,  aggrottati  in  maniera  permanente, sembrano nascondere l'occhio e aumentare la sua profondità.[...] La bocca è serrata in una linea diritta, sembra che le labbra siano  scomparse.[...]  Il colorito  è  giallastro e  terroso.[...]  Lo sguardo è fisso, inquieto, obliquo, diretto verso terra o di lato."
Di  lì  a  pochi  anni  l'ospedale  psichiatrico  parigino  della Salpetrière diventerà teatro delle gesta del maggiore studioso ottocentesco dell'isteria: il neurologo  Jean-Marie Charcot, ai cui celebri e frequentati corsi assistette, dall'ottobre 1885 al  febbraio  1886,  un  giovane  neurologo  austriaco  di  belle speranze: Sigmund Freud.

Con  Paolo  Mantegazza  (1831-1914), autore di  “Fisionomia e mimica” (1861),  nasce  l'antropologia  scientifica,  antenata dell'antropologia criminale di Lombroso.
Cesare Lombroso (1835-1909) è un giovane psichiatra quando, analizzando le protuberanze craniche di un ladro, Giuseppe Villella, ritiene di scorgervi le stigmate  di un'atavica predisposizione  al  crimine.  Prendono corpo cosi “L'uomo delinquente studiato in rapporto all’antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie” (1876; poi ripubblicato nel 1897 provvisto di  un Atlante) e  “La donna delinquente, la prostituta e la donna normale” (1893). Il considerare  la tendenza al crimine alla stregua della predisposizione ad una malattia naturale spinge Lombroso a chiedere l'isolamento di queste  persone  in  luoghi di  cura piuttosto  che in  carcere.
Nasce  in  questo  modo  l'istituzione  del  manicomio  criminale (1891)  e,  nel  1905,  viene  istituita  la  prima  cattedra  di antropologia  criminale, affidata allo stesso Lombroso.
Se da una parte, con le sue teorie, Lombroso  può  essere  considerato  un  precursore  della  funesta idea  di   predestinazione  razziale,   dall'altra   cerca  una giustificazione per così dire naturalistica al crimine. La sua fortuna comincia ad incrinarsi pochi giorni dopo la sua morte allorquando, all'autopsia  effettuata da  un    avversario scientifico, il suo cranio rivela la tipica natura dell'alienato e del criminale.
Oggi rimane  un  Museo  Lombroso  a  Torino  e,  soprattutto,  un  modo popolare di parlare a prima vista di faccia da delinquente che, a ben vedere, si riverbera anche nell'uso delle fotografie segnaletiche e degli identikit.

Nel   Novecento,   lo   studio   del   volto   umano   abbandona definitivamente il territorio della fisiognomica  e prende fondamentalmente  tre  vie:  la  via  antropologica,  la  via criminologica e la via psichiatrica, con la creazione di discipline intermedie come la medicina criminologica e la psichiatria forense.
A queste andrebbe affiancata la via costituzionalistica, basata sulla dottrina delle costituzioni umane. Essa, oramai abbandonata da ogni ambito medico, sopravvive in quella speciale metodica clinico-terapeutica che è la medicina omeopatica.


BIBLIOGRAFIA

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Della Porta, G. B. (1586): Della fisionomia dell’uomo, Guanda, Parma 1988.
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Turinese, L.: Biotipologia. L’analisi del tipo nella pratica medica (seconda edizione), 
                     Tecniche Nuove, Milano 2006.


Intervento pubblicato ne “Il cenacolo alchemico. Incontri ed eventi ispirati al pensiero di Giovan Battista Della Porta”, a cura di Alfonso Paolella e Gennaro Rispoli. Atti del Convegno, Napoli, 24-26 maggio 2018 (pp. 197-205).

venerdì 5 ottobre 2018

"Hahnemann e la Psichiatria" , di Luigi Turinese


Hahnemann e la Psichiatria
di
Luigi Turinese


Opus contra naturam  (Foto Gianna Tarantino)

“Dopo aver condotto per molti anni uno studio particolareggiato di disturbi della specie più persistente e generalmente incurabili, e di malattie veneree, cachessia, ipocondria e follia, progettai, con l’assistenza dell’onesto Duca (1) , una casa di cura per questo tipo di malattie a Georgenthal, nei pressi di Gotha; fu allora che Klockenbring mi fu condotto da Hannover” (2)

Nell’anamnesi omeopatica, come sappiamo, una parte di rilievo è occupata dall’indagine sul carattere del paziente e sugli eventuali sintomi psichici concomitanti. Il tenore stesso delle domande, volte a far luce su di un’area comunemente ignorata dal medico pratico che non sia specialista in psichiatria, contribuisce a creare una salda relazione medico-paziente e qualcosa che somiglia ad un clima psicoterapeutico.
Qui, dopo tutto, risiede l’origine di quell’effetto placebo che il trattamento omeopatico sembra in effetti possedere in misura maggiore rispetto alle terapie convenzionali e che, se diventa lo strale preferito dai detrattori, dovrebbe invece costituire motivo di vanto per gli omeopati: perché possedere una tecnica anamnestica dotata per così dire di azione terapeutica non è cosa di poco conto.

Il fatto che l’anamnesi omeopatica lasci emergere contenuti psichici ha una duplice conseguenza: da un lato contribuisce a rinsaldare il rapporto tra medico e paziente, con ovvie implicazioni positive, anche sotto il profilo terapeutico e della compliance da parte del malato; dall’altro immette nel campo terapeutico materiali e questioni che, nel caso di pazienti nevrotici, abbisognerebbero di un intervento psicoterapeutico: in questi casi occorre molto buon senso, perché omeopatia e psicoterapia sono interfacciate ma non sono la stessa cosa.
Indubbiamente, all’origine dell’importanza che l’Omeopatia conferisce alla valutazione dell’area psicologica concorre più di un motivo. Certamente vi è un motivo tecnico, ovvero la necessità di porre il maggior numero di elementi gerarchicamente significativi – l’area psicologica certamente lo è – al vaglio della similitudine. Scrive Hahnemann nella “Materia Medica Pura” (1811-1821): “L’impiego omeopatico dei medicinali è più indicato quando non solo i sintomi somatici del rimedio sono simili a quelli della malattia, ma anche quando le alterazioni mentali ed emozionali provocate dalla droga incontrano stati simili nel quadro morboso da curare”. Alcune scuole posthahnemanniane, in verità, hanno in un certo senso ipertrofizzato, isolandole o quanto meno eleggendole a elemento trainante nella ricerca della similitudine, le alterazioni mentali ed emozionali. Oltre al motivo tecnico testé richiamato, però, vi è un motivo storico poco noto, che rivela una disposizione naturale del padre fondatore all’ascolto e alla comprensione del paziente.

Come si ricorderà, Hahnemann si astenne dall’attività clinica a partire dal 1789 per dedicarsi, a partire dall’anno seguente, alla ricerca di un nuovo principio sulla scorta del quale riedificare la clinica. Questo principio, noto come principio di similitudine, troverà una prima enunciazione nel 1796, con la pubblicazione del “Saggio su un nuovo principio per scoprire le virtù curative delle sostanze medicinali, seguito da qualche considerazione sui principî accettati fino ai nostri giorni”, nel quale Hahnemann trae le prime conclusioni di sei anni di sperimentazioni di sostanze medicinali sull’uomo sano.
Il Saggio costituisce in un certo senso l’atto di nascita dell’Omeopatia (anche se il termine Omeopatia apparirà solo nel 1808, nella “Lettera a un medico di alto rango sull’urgenza di una riforma in medicina”); e insieme il colpo d’ala con il quale Hahnemann si solleva da una posizione di mera contestazione della medicina del suo tempo a un livello propositivo e originale. Ad ospitarlo è il secondo numero del Journal der Pratictischen Arzneykunde und Wundarzneykunst, fondato l’anno prima da Cristoph Wilhelm Hufeland (1762-1836), vessillifero della medicina modernista e professore di clinica medica a Jena.
Dunque gli anni dal 1790 al 1796 furono anni di studio e di ricerca, con l’obiettivo di trovare una solida base teorico-pratica sulla quale rifondare l’attività clinica, temporaneamente sospesa.

All’incirca a metà di tale percorso, tuttavia, ci fu un episodio clinico, isolato ma saliente e carico di implicazioni epistemologiche. Siamo nel 1792. La morte del Principe Leopoldo, figlio dell’Imperatrice Maria Teresa, spinge Hahnemann a lanciarsi in una pubblica accusa nei confronti del medico di corte, Lagusius, che ha salassato il paziente per ben quattro volte in ventiquattro ore. La polemica assume toni durissimi; e consente ad Hahnemann di utilizzare quel singolo caso per scagliarsi con una violenza senza mediazioni contro le pratiche – allora molto in uso – dei salassi, degli emetici, dei purganti. L’editore dell’articolo, Becker, forse anche per allontanare il suo confratello massone (Hahnemann aveva aderito alla Massoneria nel 1777) da ulteriori polemiche che non gli avrebbero giovato, gli procura l’incarico di direttore del manicomio di Georgenthal, in Turingia.
Si tratta di uno spazio ricavato dal riadattamento del castello di caccia di Ernst, duca di Gotha, e ospiterà un solo paziente: Friedrich Klockenbring, alto funzionario della cancelleria di Hannover e ministro di polizia, curato senza risultati, tra gli altri, dal dottor Wichmann, medico di corte di Hannover. La moglie, avendo letto su una rivista di divulgazione medica la notizia della prossima apertura dell’ospedale psichiatrico di Georgenthal, decide di tentare quest’ultima carta.
È l’inizio dell’estate del 1792 e un uomo malinconico, sporco, col viso pieno di macchie e l’espressione idiota viene condotto dalla moglie nel castello adibito ad ospedale. L’attuale linguaggio psichiatrico lo diagnosticherebbe probabilmente come uno psicotico maniaco-depressivo con elementi deliranti. È altresì probabile, da notizie in nostro possesso, che il grave quadro clinico sia espressione di una sifilide secondaria. Lunghi periodi di taciturna malinconia si intercalano con fasi eccitatorie in cui egli, guidato da un’energia allucinata e febbrile, declama brani dell’Iliade in greco e testi in ebraico, canta arie dallo Stabat Mater di Pergolesi, recita a memoria passaggi dell’Inferno di Dante o del Paradiso perduto  di Milton, elenca lunghe formule algebriche. Una volta – spinto dall’ansia di conoscere i misteri dell’armonia – fa a pezzi un pianoforte.

Hahnemann trasferisce l’intera famiglia a Georgenthal; per nove mesi osserva il malato, rimane lunghe ore con lui, lo ascolta. Soprattutto, non usa i mezzi di coercizione in uso all’epoca.

Nel febbraio 1796, pubblicando sul Deutsch Monatschrift il caso clinico in questione (“Ritratto di Klockenbring durante la sua follia”), scriverà: “Non faccio mai punire gli alienati con percosse o con altre pene corporali, perché ritengo che non si possa punire la ‘follia’ involontaria; sono convinto che questi malati abbiano diritto alla nostra pietà e che la loro condizione si aggravi quanto più essi vengono maltrattati, senza poter riporre alcuna speranza in un miglioramento: lui mi mostrava spesso i segni delle percosse che i guardiani precedenti gli avevano inflitto durante il ricovero. Il medico di questi infelici deve potersi far rispettare da loro, ma deve anche ispirare loro fiducia; non si ritiene mai offeso da quanto essi possano dire o fare, perché agli alienati è impossibile offendere qualcuno. I loro irragionevoli accessi di collera suscitano la sua comprensione per uno stato tanto meritevole di pietà e suscitano in lui quell’amore per il prossimo che lo induce ad aiutarli” .
Hahnemann si trova immerso nello spirito del suo tempo. Egli, in realtà, non inventa nulla ma applica il buon senso e probabilmente ha ricevuto un’eco della riforma che ha luogo a Parigi in quegli stessi anni ad opera di Philippe Pinel (1745-1826); questi, proprio nei mesi in cui Hahnemann e Klockenbring si fronteggiano nel manicomio di Georgenthal, libera dalle catene i pazzi dell’ospedale Bicêtre, una struttura trasformata via via in ospedale militare, orfanotrofio, prigione e il cui ospite più illustre era stato Donatien Alphonse François de Sade (1740-1814).

Risale infatti a Pinel – e poi al suo erede Jean-Étienne-Dominique Esquirol (1772-1840) – una vera e propria riforma dell’orizzonte psichiatrico, che oltre ai metodi rivoluzionerà il punto di vista sulla follia. Come dirà Hegel, attento lettore di Pinel, nel folle rimane sempre un residuo di ragione, alla quale bisognerà guardare per comprendere e curare la malattia mentale.
"Più o meno, i folli ragionano tutti", scriverà Esquirol nella sua tesi di dottorato del 1805. Ed ancora: "Non solo le passioni sono la causa più comune dell'alienazione, ma intrattengono con questa malattia e con le sue varietà dei sorprendenti rapporti di somiglianza”.
Quest’ultima affermazione può senz’altro applicarsi al caso di Klockenbring, erudito di grande valore ma emotivamente fragile, il cui equilibrio psichico dipende in grande misura dagli umori dell’opinione pubblica. Il suo temperamento eccentrico riceve un colpo irrimediabile allorché il drammaturgo Kotzebue lo diffama in un pamphlet, accusandolo di essere socio del malfamato scrittore Karl Bahrdt, dipinto come alcoolista e sfruttatore della prostituzione.
La condizione in cui Klockenbring precipita è stata illustrata in precedenza. Il trattamento di Hahnemann – in pratica una rieducazione all’umanità attraverso l’umana partecipazione – nel febbraio del 1793 restituisce Klockenbring alla famiglia e al mondo del lavoro (sebbene declassato a un incarico di minore responsabilità). Egli, probabilmente fiaccato nel corpo sebbene curato nell’anima, morirà nel giugno del 1795.

Anche a causa della difficoltà di reperire pazienti in grado di pagare la retta e l’onorario, il caso rimane isolato e nessun altro malato di mente approda al castello di Georgenthal, che viene così dismesso. A chi gli domanda quanti folli siano in cura da Hahnemann, il magistrato distrettuale risponde sarcastico: “Soltanto uno: lui stesso”. Tale è la sorte degli innovatori.

Luigi Turinese

NOTE
[1] Hahnemann si riferisce al Duca di Gotha, suo protettore.
[2] In Haehl, R. (1922, vol. I, p. 41), traduzione mia dall’inglese. 
[3] In Tétau, M. (1997): “Hahnemann. Intuizione e genialità”, Tecniche Nuove, Milano, 2003, p. 42.

BIBLIOGRAFIA

Bradford, T.L. (1885): “La nascita dell’Omeopatia. Vita e lettere di Samuel Hahnemann”, Perla Edizioni, Milano/Grosseto, 1995.
Cook, T.: “Samuel Hahnemann”, Thorsons Publishers Limited, 1981.
Demarque, D: “L’Homéopathie médecine de l’expérience”, Maisonneuve, Muolins-lès-Metz, 1981.
•         de Torrebruna, R. – Turinese, L.: “Hahnemann. Vita del padre dell’Omeopatia. Sonata in cinque movimenti”, Edizioni e/o, Roma 2007.
Guillot, R.-P.: “Samuel Hahnemann pionnier de l’homéopathie”, Editions Sum, Genève, 1993.
Hahnemann, S. (1796): “Saggio su un nuovo principio…”, Guna Editore, Milano, 1994.
      •  Hahnemann, S. : “Striche zur Schilderung Klockenbrings während seines Trübsinns”, Deutsche Monatschrift, Leipzig, 1796.
• Haehl, R. (1922): “Samuel Hahnemann. His life and work”, B. Jain Publishers Pvt. Ltd., New Delhi, 1985.
Larnaudie, R.: “La vita sovrumana di Samuele Hahnemann, fondatore dell’omeopatia”, Fratelli Bocca Editori, Milano, 1942.
Tétau, M. (1997): “Hahnemann. Intuizione e genialità”, Tecniche Nuove, Milano, 2003.
•         Turinese, L.: “Il farmacista omeopata”, Tecniche Nuove, Milano 2002

Articolo pubblicato in HIMed – HOMEOPATHY and Integrated Medicine, Maggio 2018, Volume 9, Numero 1, pp. 18-19


venerdì 23 febbraio 2018

Videointervista a Luigi Turinese su Omeopatia, vaccini, Medicina integrata, Psicoterapia e Storia della Medicina


Luigi Turinese  risponde a Massimo Leopardi su temi come
 Omeopatia, vaccini, Medicina Integrata, Psicoterapia, 
psicofarmaci e Storia della Medicina

Veggie Channel LIVE Show del 22 febbraio 2018 
con il Dott. Luigi Turinese (I parte, fino min 32,22)





venerdì 26 gennaio 2018

Presentazione Calendario CeMOM 2018 "HAHNEMANNIANA", Roma 15 Febbraio 2018



CeMON Presidio Omeopatia Italiana
in collaborazione con 
Fondazione Negro Museo dell'Omeopatia Roma
invita a:


presso il Museo dell’Omeopatia Fondazione Negro
Piazza Navona, 49 - Roma
Giovedì 15 Febbraio 2018 ore 18,00

 La partecipazione è libera. Si prega di confermare la propria presenza via mail a info@cemon.eu o telefono 081-3951888 (ore 9-14) 

ALLA PRESENTAZIONE PARTECIPERANNO:

il Prof. Francesco Eugenio Negro - Direttore del Museo dell’Omeopatia Roma
il Prof. Paolo Negro - Fondazione Negro Museo dell’Omeopatia Roma
il Prof. Gennaro Rispoli - Direttore del Museo delle Arti Sanitarie – Ospedale degli Incurabili Napoli
il Dott. Francesco Marino - Presidente per l’Italia LMHI (Liga Medicorum Homoeopathica Internationalis) e Vicepresidente F.I.A.M.O. (Federazione Italiana Associazioni e Medici Omeopati)
il Dott. Pietro Federico - Direttore Accademico Scuola di Medicina Omeopatica I.R.M.S.O. – Roma
il Dott. Luigi Turinese - Medico chirurgo, omeopata e psicoterapeuta
  
È PREVISTO UN APERITIVO

Nell’occasione sarà presentata l’ultima e importantissima acquisizione del Museo dell’Omeopatia, il ritratto di Hahnemann realizzato nel 1838 dalla seconda moglie Melanie d’Hervilly Gohier.


Museo dell’Omeopatia, Piazza Navona, 49- Roma 
Tel. +39 338.70.09.947 



mercoledì 12 giugno 2013

Università degli Studi di Siena, Master di II Livello in Omeopatia - Orario lezioni Giugno 2013

Università degli Studi di SienaMASTER DI II LIVELLO in OMEOPATIA
– Percorso formativo in MEDICINA INTEGRATA
Orario lezioni
Giugno 2013


Giovedì 13 e Venerdì 14
9.00 - 13.00
14.30 - 18.30

MODULO DI OMEOPATIA CLINICA: Neuropsichiatria





Docente: LUIGI TURINESE

· Disturbi della sfera psicologica
· Ansia
· Panico
· Depressione
· Insonnia
· Casistiche cliniche e discussione di casi in video

Vai alla lezione di Maggio 2011
Vai alla lezione di Giugno 2012

* Master Universitario di II livello in Medicina Integrata con indirizzo Omeopatia o Fitoterapia o Agopuntura. Il Master, riservato all’area sanitaria, è rivolto alla formazione teorico-pratica in Medicina Complementare di laureati in Medicina, Farmacia, CTF e Odontoiatria.


Dipartimento di Scienze Neurologiche - Neurochirurgiche e del Comportamento - Università di Siena: Strada delle Scotte 6 - 53100 Siena - Tel. 0577-233226 Dott.ssa Simonetta Bernardini



lunedì 14 gennaio 2013

Hahnemann “protopsicoterapeuta”: un aspetto poco noto - di Luigi Turinese

Hahnemann “protopsicoterapeuta”: un aspetto poco noto 

di Luigi Turinese 

 Nell’anamnesi omeopatica, come sappiamo, una parte di rilievo è occupata dall’indagine sul carattere del paziente e sugli eventuali sintomi psichici concomitanti.
Il tenore stesso delle domande, volte a far luce su di un’area comunemente ignorata dal medico pratico che non sia specialista in psichiatria, contribuisce a creare una salda relazione medico-paziente e qualcosa che somiglia ad un clima psicoterapeutico.
Qui, dopo tutto, risiede l’origine di quell’effetto placebo che il trattamento omeopatico sembra in effetti possedere in misura maggiore rispetto alle terapie convenzionali e che, se diventa lo strale preferito dai detrattori, dovrebbe invece costituire motivo di vanto per gli omeopati: perché possedere una tecnica anamnestica dotata per così dire di azione terapeutica non è cosa di poco conto.
Il fatto che l’anamnesi omeopatica lasci emergere contenuti psichici ha una duplice conseguenza: da un lato contribuisce a rinsaldare il rapporto tra medico e paziente, con ovvie implicazioni positive, anche sotto il profilo terapeutico e della compliance da parte del malato; dall’altro immette nel campo terapeutico materiali e questioni che, nel caso di pazienti nevrotici, abbisognerebbero di un intervento psicoterapeutico. Ora, la domanda esplicita è: il medico omeopatico di media cultura è in grado di identificare queste situazioni per sottoporle a chi ne è competente? Non è un problema di poco conto; si tratta anzi, a mio avviso, di una questione non eludibile, perché il rischio, diciamolo a chiare lettere, è quello di scivolare inconsapevolmente nelle sabbie mobili di una psicoterapia selvaggia, sostenuta da un furor curandi di cui, a diverso titolo, fanno le spese sia il medico sia il paziente.
Indubbiamente, all’origine dell’importanza che l’Omeopatia conferisce alla valutazione dell’area psicologica concorre più di un motivo. Certamente vi è un motivo tecnico, ovvero la necessità di porre il maggior numero di elementi gerarchicamente cogenti – l’area psicologica certamente lo è – al vaglio della similitudine.

Scrive Hahnemann nella Materia Medica Pura (1811-1821): “L’impiego omeopatico dei medicinali è più indicato quando non solo i sintomi somatici del rimedio sono simili a quelli della malattia, ma anche quando le alterazioni mentali ed emozionali provocate dalla droga incontrano stati simili nel quadro morboso da curare”.
Alcune scuole posthahnemanniane, in verità, hanno in un certo senso ipertrofizzato, isolandole o quanto meno eleggendole a elemento trainante nella ricerca della similitudine, le alterazioni mentali ed emozionali.

Oltre al motivo tecnico testé richiamato, però, vi è un motivo storico poco noto, che rivela una disposizione naturale del padre fondatore all’ascolto e alla comprensione del paziente. Come si ricorderà, Hahnemann si astenne dall’attività clinica a partire dal 1789 per dedicarsi, a partire dall’anno seguente, alla ricerca di un nuovo principio sulla scorta del quale riedificare la clinica. Questo principio, noto come principio di similitudine, troverà una prima enunciazione nel 1796, con la pubblicazione del Saggio su un nuovo principio per scoprire le virtù curative delle sostanze medicinali, seguito da qualche considerazione sui principî accettati fino ai nostri giorni, nel quale Hahnemann trae le prime conclusioni di sei anni di sperimentazioni di sostanze medicinali sull’uomo sano. Il Saggio costituisce in un certo senso l’atto di nascita dell’Omeopatia (anche se il termine Omeopatia apparirà solo nel 1808, nella Lettera a un medico di alto rango sull’urgenza di una riforma in medicina); e insieme il colpo d’ala con il quale Hahnemann si solleva da una posizione di mera contestazione della medicina del suo tempo a un livello propositivo e originale.
Ad ospitarlo è il secondo numero del Journal der Pratictischen Arzneykunde und Wundarzneykunst, fondato l’anno prima da Cristoph Wilhelm Hufeland (1762-1836), vessillifero della medicina modernista e professore di clinica medica a Jena.

Dunque gli anni dal 1790 al 1796 furono anni di studio e di ricerca, con l’obiettivo di trovare una solida base teorico-pratica sulla quale rifondare l’attività clinica, temporaneamente sospesa.
All’incirca a metà di tale percorso, tuttavia, un episodio clinico, isolato ma saliente e carico di implicazioni epistemologiche, ci fu. E di tale episodio voglio riferire.
Siamo nel 1792. La morte del Principe Leopoldo, figlio dell’Imperatrice Maria Teresa, spinge Hahnemann a lanciarsi in una pubblica accusa nei confronti del medico di corte, Lagusius, che ha salassato il paziente per ben quattro volte in ventiquattro ore. La polemica assume toni durissimi; e consente ad Hahnemann di utilizzare quel singolo caso per scagliarsi con una violenza senza mediazioni contro le pratiche – allora molto in uso – dei salassi, degli emetici, dei purganti.
L’editore dell’articolo, Becker, forse anche per allontanare il suo confratello massone (Hahnemann aveva aderito alla Massoneria nel 1777) da ulteriori polemiche che non gli avrebbero giovato, gli procura l’incarico di direttore del manicomio di Georgenthal. Questo è in realtà uno spazio ricavato dal riadattamento del castello di caccia di Ernst, duca di Gotha, e ospita un solo paziente: lo scrivano Friedrich Klockenbring, alto funzionario della cancelleria di Hannover e ministro di polizia.
È l’inizio dell’estate del 1792 e un uomo malinconico, sporco, col viso pieno di macchie e l’espressione idiota viene condotto dalla moglie nel castello adibito ad ospedale. L’attuale linguaggio psichiatrico lo definirebbe in preda ad una psicosi maniaco-depressiva con spunti deliranti: i lunghi periodi di malinconia vengono infatti interrotti da fasi eccitatorie in cui egli, guidato da un’energia allucinata e febbrile, declama brani in greco e in ebraico, canta arie dallo Stabat Mater di Pergolesi, recita a memoria passaggi dell’Inferno di Dante o del Paradiso perduto di Milton, elenca lunghe formule algebriche.
Una volta – spinto dall’ansia di conoscere i misteri dell’armonia – fa a pezzi un pianoforte. Hahnemann trasferisce l’intera famiglia a Georgenthal; per nove mesi osserva il malato, rimane lunghe ore con lui, lo ascolta. Soprattutto, non usa i mezzi di coercizione in uso all’epoca.
 Nel 1796, pubblicando il caso clinico in questione (Ritratto di Klockenbring durante la sua follia), scriverà: “Non si possono punire le azioni involontarie; questi sventurati meritano solo pietà e il trattamento violento non li migliora, ma li aggrava sempre”.

Hahnemann si trova immerso nello spirito del suo tempo. Egli, in realtà, non inventa nulla ma applica il buon senso e probabilmente ha ricevuto un’eco della riforma che ha luogo a Parigi in quegli stessi anni ad opera di Philippe Pinel (1745-1826); questi, proprio nei mesi in cui Hahnemann e Klockenbring si fronteggiano nel manicomio di Georgenthal, libera dalle catene i pazzi dell’ospedale Bicêtre, una struttura trasformata via via in ospedale militare, orfanotrofio, prigione e il cui ospite più illustre era stato Donatien Alphonse François de Sade (1740-1814).
Risale infatti a Pinel – e poi al suo erede Jean-Étienne-Dominique Esquirol (1772-1840) – una vera e propria riforma dell’orizzonte psichiatrico, che oltre ai metodi rivoluzionerà il punto di vista sulla follia.
Come dirà Hegel, attento lettore di Pinel, nel folle rimane sempre un residuo di ragione, alla quale bisognerà guardare per comprendere e curare la malattia mentale. "Più o meno, I folli ragionano tutti", scriverà Esquirol nella sua tesi di dottorato del 1805. Ed ancora: "Non solo le passioni sono la causa più comune dell'alienazione, ma intrattengono con questa malattia e con le sue varietà dei sorprendenti rapporti di somiglianza”.
Quest’ultima affermazione può senz’altro applicarsi al caso di Klockenbring, erudito di grande valore ma emotivamente fragile, il cui equilibrio psichico dipende in grande misura dagli umori dell’opinione pubblica. Il suo temperamento eccentrico riceve un colpo irrimediabile allorché il drammaturgo Kotzebue lo diffama in un pamphlet, accusandolo di essere socio del malfamato scrittore Karl Bahrdt, dipinto come un alcoolista e uno sfruttatore della prostituzione.
La condizione in cui Klockenbring precipita è stata illustrata in precedenza.
Il trattamento di Hahnemann – in pratica una rieducazione all’umanità attraverso l’umana partecipazione – restituisce Klockenbring alla famiglia e al suo lavoro.

Purtuttavia, anche a causa della difficoltà di reperire pazienti in grado di pagare la retta e l’onorario, il caso rimane isolato e nessun altro malato di mente approda al castello di Georgenthal. A chi gli domanda quanti folli siano in cura da Hahnemann, l’intendente del castello risponde sarcastico: “Soltanto uno: lui stesso”. Tale è la sorte degli innovatori.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 
 • Bradford, T.L. (1885): La nascita dell’Omeopatia. Vita e lettere di Samuel Hahnemann, Perla Edizioni, Milano/Grosseto, 1995.
• Cook, T.: Samuel Hahnemann, Thorsons Publishers Limited, 1981.
• Demarque, D : L’Homéopathie médecine de l’expérience, Maisonneuve, Muolins-lès-Metz, 1981.
• de Torrebruna, R. – Turinese, L.: Hahnemann. Vita del padre dell’Omeopatia. Sonata in cinque movimenti, Edizioni e/o, Roma 2007.
• Guillot, R.-P.: Samuel Hahnemann pionnier de l’homéopathie, Editions Sum, Genève, 1993.
• Hahnemann, S. (1796): Saggio su un nuovo principio, Guna Editore, Milano, 1994.
 • Hahnemann, S. : Striche zur Schilderung Klockenbrings während seines Trübsinns. Deutsche Monatschrift, Leipzig, 1796.
• Hahnemann, S. (1921): Organon dell’arte di guarire (VI edizione), EDI-LOMBARDO, Roma, 2004.
• Hahnemann, S. (1828): Le malattie croniche, EDIUM, Milano, 1980.
• Hahnemann, S. (1811-1821): Materia Medica Pura, Jain Publishing Co., New Delhi, 1980.
• Haehl, R. (1922): Samuel Hahnemann. His life and work, B. Jain Publishers Pvt. Ltd., New Delhi, 1985.
• Larnaudie, R.: La vita sovrumana di Samuele Hahnemann, fondatore dell’omeopatia, Fratelli Bocca Editori, Milano, 1942.
• Tetau, M. (1997): Hahnemann. Intuizione e genialità, Tecniche Nuove, Milano, 2003.
• Turinese, L.: Il farmacista omeopata, Tecniche Nuove, Milano 2002.
• Turinese, L.: Modelli psicosomatici. Un approccio categoriale alla clinica, Elsevier Masson, Milano 2009.

Luigi Turinese


In foto: "La collera del dio"

 Articolo apparso sulla rivista "Cahiers de biotherapie - N o t i z i a r i o F l a s h s m b I t a l i a", n. 4, anno XX, ottobre-dicembre 2012, pp. 23-26

lunedì 14 novembre 2011

"Biotipologia. L'analisi del tipo nella pratica medica" - Recensione di A. Dorella

Luigi Turinese, "Biotipologia. L'analisi del tipo nella pratica medica", Tecniche Nuove, 1997


di Antonio Dorella

"La tipologia accoglie con pienezza l'accorato appello della scienza medica a riprendere il suo tratto umanistico", è scritto nella prefazione del bellissimo libro di Turinese, in controtendenza rispetto ai recenti fatti di cronaca. La biochimica sembra, proprio in questi mesi, aver toccato l'apogeo del successo e del consenso: con una pillola la farmacologia promette alle persone che soffrono di disfunzioni erettili il ripristino immediato del loro vigore, rassicura ai timidi di poter superare gli imbarazzi delle loro titubanze e agli obesi il recupero di una forma fisica straordinaria. Anche le migliori prestazioni sportive sembrano in alcuni casi essere possibili solo in virtù degli aiuti che provengono dalle farmacie.

Eppure qualcuno ancora si ostina a mettere in discussione lo strapotere senza rivali di questa concezione biochimica dell'uomo. Un vitalismo indisponente continua ad argomentare che le patologie sono anche le modalità con cui il corpo dà voce ai propri disagi e che, al di là delle classificazioni semeiotiche , rappresentano la via maestra per valutare gli ostacoli che si frappongono allo sviluppo della nostra individualità. Ognuno ha la malattia che si merita, o meglio: ogni sintomo, se guarito perché compreso, potrebbe essere la chiave di accesso ad un nuovo livello di coscienza.

Luigi Turinese, medico-omeopata e analista, appartiene alla schiera dei pionieri che affiancano al rigore dell'indagine anatomo-patologa della malattia anche lo sforzo di comprensione del particolare significato che quella malattia riveste nella vita del paziente, utilizzando l'analisi delle caratteristiche tipologiche dell'individuo. Perché, dice Oscar Wilde, con una elegante provocazione - "soltanto i superficiali non giudicano dalle apparenze".

L'interesse per lo studio della tipologia ha una storia antica. Dalle dottrine umorali - in Oriente - della medicina ayurvedica e - in Occidente - di Ippocrate di Coo, alla fisiognomica di Aristotele, di Giovan Battista della Porta e per ultimo Lavater, noto per le silhouettes delle sue teste. Alcuni tentativi maldestri di correlare direttamente le circonvoluzioni della parete esterna, quella palpabile, del cranio con le predisposizioni caratteriali, ad opera del frenologo Joseph Gall, o con la tendenza al crimine, come fece Cesare Lombroso nella sua antropologia criminale, incrinarono nei secoli successivi lo studio del volto umano. Per ironia della sorte, proprio al Lombroso, qualche giorno dopo la sua morte, durante l'autopsia del cranio, vennero riscontrate le caratteristiche che - secondo la sua dottrina - prevedevano la natura dell'alienato e del criminale!

Nel XX secolo riaffiorerà l'interesse per la scienza delle costituzioni umane, attraverso un'indagine anatomicamente più definita delle differenze individuali. A secondo dei criteri di analisi adottati, si differenziano essenzialmente quattro diversi sistemi classificatori: morfofisiologico, antropometrico, endocrinologico e embriologico.

Il primo criterio, quello morfologico, annovera numerosi rappresentanti, fra i quali si evidenziano Allendy e Sigaud.
Allendy distingue i costituzionali in cefalico, toracico e addominale, ciaascuno contrassegnato da un maggior sviluppo del rispettivo segmento anatomico. Sigaud descrive invece quattro tipi base: digestivo, respiratorio, muscolare e cerebrale. Ognuno con precise caratteristiche somatiche e psicologiche.
Il sistema classificatorio antropometrico è basato invece su parametri di misurazione e di rapporti metrici fra alcuni segmenti del corpo.
Concetti e terminologie più dettagliatamente mediche sono introdotte dagli altri criteri di classificazione delle costituzioni umane: il criterio endocrinologico, che applica i nuovi punti di vista biochimici-ormonali e il criterio embriologico che parte dall'ipotesi che esista in ciascun individuo una preponderanza di sviluppo degli organi derivati dai tre foglietti germinativi embrionali (endo. meso ed ecto - derma).

L'omeopatia odierna, malgrado il disinteresse del suol fondatore Hahnemann, raccoglie, personalizzandole, le informazioni sulle biotipologia umana e le congloba a pieno diritto all'interno del suo armamentario terapeutico.
Costituzione sulfurica, carbonica e fosforica divengono i nomi delle principali categorie ermeneutiche per la valutazione dei pazienti omeopatici e delle loro malattie.

Il quinto e ultimo capitolo del libro di Turinese è dedicato alle indagini tipologiche fornite dalla psicologia e dai suoi più illustri rappresentanti, come William Reich, Sigmund Freid e soprattutto Carl Gustav Jung.

La prima opera di Turinese è un libro dotto, armonioso, avvincente ma non sempre facile. Pregiato anche della post-fazione del musicista Franco Battiato che alla fisiognomica ha dedicato alcuni anni di Studio e un album di canzoni sul tema.
Un libro ricco di immagini che ci sarebbero piaciute più grandi per poterne meglio godere i fondamentali dettagli. Manca - ed è l'unica notazione che ci sentiamo di fare all'autore - il coraggio di una sintesi personale e complessiva, per non congedare il lettore con la sensazione finale di una insuperata e insuperabile frammentazione negli studi sulla biotipologia.

Antonio Dorella

In foto: "Il volo"

Recensione apparsa su "Giornale Storico Di Psicologia Dinamica. Rivista del Centro Studi di Psicologia e Letteratura" "Scrittori (Seconda parte)", Vol. XXIII n. 46, Giugno 1999, pp.149-152

Vai alla scheda del libro "Biotipologia. L'analisi del tipo nella pratica medica", di Luigi Turinese

Ascolta la postfazione di Franco Battiato nell'archivio radiofonico latta da Roberta Maresci durante il programma "Due di Notte", Rai Radio2

domenica 16 ottobre 2011

Le Recensioni di L.T. - "Ayurveda e medicina tradizionale" , di B. Romano

Bruno Romano, "Ayurveda e medicina tradizionale", Edizioni Mediterranee, Roma 1991, pp. 162

La scissione tra le "due culture" si fa sentire in modo preminente ogniqualvolta si affronti lo studio di argomenti a cavallo tra scienze umane e scienze "forti".
La medicina di livello etnologico, per esempio, deve studiarla il medico o l'antropologo? La specifica questione è complicata dal fatto che tale ambito di studio non sembra interessare i medici, peraltro sempre più sguarniti di cultura umanistica; e che di conseguenza l'argomento attira studiosi di estrazione umanistica i quali, pur meritando tutto il nostro plauso, non riescono a trattenersi da incursioni nel merito scientifico, con esiti a dir poco discutibili.


Il libro di Bruno Romano non sfugge a questa tentazione fin dal preoccupante sottotitolo: "Manuale pratico per l'autogestione della salute". Non è la precisione scientifica che pretendiamo da un autore laureato in lettere e filosofia, ma la disposizione ad affrontare la materia di studio con i propri strumenti: in questo caso, l'indagine storico-filosofica, possibilmente condita di rigore filologico. Invece ci imbattiamo in errori che rischiano di invalidare l'intero lavoro e inoltre di respingere eventuali moti di interessamento da parte del mondo scientifico.

Non è vero, per esempio, che "la medicina moderna allopatica attribuisce ai virus e ai germi la responsabilità dei processi di degenerazione della salute" e che è suo obiettivo " ... appurare l'origine batteriologica della malattia e procedere di conseguenza al trattamento di eliminazione di tali batteri" (pag. 7). Ciò vale, infatti, solo per le malattie infettive; le malattie dismetaboliche, quelle degenerative, quelle autoimmuni, non vengono certo messe in relazione a microorganismi.
A pag. 19 leggiamo che " ... la medicina omeopatica, sorta alla fine del diciottesimo secolo, quando ormai le teorie della nuova medicina allopatica erano divenute imperanti, ha messo come suo fondamento la teoria dei tre umori (miasmi) responsabili di ogni manifestazione patologica". Ora, alla fine del '700 la medicina era un guazzabuglio di discutibili teorie e di empiriche terapie: la farmacologia moderna nasce soltanto nel 1806, con l'isolamento della morfina dall'oppio: siamo ancora ben lontani da Pasteur (1822-1895) e dalla microbiologia, e ancor più dalla sintesi dei primi sulfamidici (1935) e della penicillina (1941), capostipite di tutti i moderni antibiotici, mediante i quali si è potuto realizzare lo scopo che Romano attribuisce all'intera medicina moderna - e che è in realtà la meta dell'infettologia: " ... l'eliminazione di tali batteri" (pag. 7)

Per venire alla medicina omeopatica, poi, essa non propugna affatto una teoria umorale, come indubbiamente facevano la medicna ippocratica e quella ayurvedica, che attribuivano la malattia a uno squilibrio (discarsia) tra gli umori corporei circolanti: Hahnemann (1755-1843), fondatore dell'Omeopatia, attribuisce sin dalla sua prima opera sistematica, l'"Organon dell'arte di guarire" (1810), l'origine delle malattie croniche all'azione di tre miasmi contagiosi, facendosi in tal modo precursore di Pasteur; e nel "Trattato delle malattie croniche" (1828), approfondirà tale feconda intuizione.
La stessa opera hahnemanniana è stata poi sottoposta a revisione critica, come è ovvio per un edificio teorico vecchio di due secoli; ma mai nella direzione, invero arcaica e inaccettabile di una teoria umorale.

Per tornare alla nostra perplessità iniziale: sino a che non si comporrà, se mai si comporrà, il dissidio tra le "due culture", argomenti come quelli trattati in questo libro potrebbero essere affrontati efficacemente soltanto tramite un gruppo di lavoro interdisciplinare che comprenda rappresentanti della comunità scientifica e studiosi di scienze umane.

Luigi Turinese

In foto: "Caleidoscopio IV"

Recensione apparsa nella rubrica "Libri" di "PARAMITA, Quaderni di Buddhismo", Anno XII, n.46, Aprile-Giugno 1993


Per un approfondimento sull'argomento vedi anche:
La scienze delle costituzioni umane
e
La medicina nei contesti culturali

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venerdì 30 settembre 2011

"Hahnemann. Vita del padre dell'omeopatia" - Recensione di R. Brotzu

di Rosa Brotzu




Il termine “sonata” dal latino sonare, indica un brano musicale eseguito da più strumenti diviso in quattro movimenti (allegro, andante, minuetto e finale). Parlare della vita del fondatore dell’Omeopatia , Christian Friedrich Samuel Hahnemann – utilizzando la metafora musicale – rimanda all’idea della malattia soprattutto come assenza di ritmo, intendendo per “ritmo” quell’equilibrio universale rintracciabile in tutti gli uomini e in tutti gli elementi. Ritmo che Hahnemann, attraverso il suo modo di fare medicina, cercò incessantemente di recuperare. La scelta, tuttavia, d’inserire un quinto movimento a monte dell’ultimo capitolo “Marcia funebre”, rimanda alle sinfonie Beethoveniane, per rendere ancora più maestose le ultime – immaginate – “vedute” del maestro.

Il testo si offre al lettore come uno spartito in due sezioni: da un lato l’aspetto narrato, poetico e immaginale, – seppur fedele – dell’esperienze di vita del grande maestro, dall’infanzia fino alla morte, ove è possibile attingere al travaglio e alle passioni interiori che lo videro protagonista sia di innovazioni che di conflitti con l’allora mondo accademico; dall’altro l’aspetto scientifico delle evoluzioni del suo pensiero. Samuel Hahnemann nasce a Meissen (Sassonia) il 10 Aprile 1755. Figlio di un vasaio, amante della pittura e della natura, attinge dal padre non solo tutte le conoscenze riguardanti le piante, ma anche quelle doti caratteriali che forgeranno il suo pensiero. Sfuggito, tuttavia, all’intenzione del padre di iniziarlo ad un lavoro manuale presso una drogheria di Lipsia, intraprende nella stessa città gli studi di medicina, mantenendosi economicamente grazie alle traduzioni di libri.

Spirito inquieto ma caparbio, intransigente, come si addice al segno zodiacale dell’Ariete, non si accontenta dell’insegnamento teorico del suo tempo, iniziando quel peregrinare – che lo accompagnerà per tutta la vita – da una città all’altra, alla ricerca di sempre maggiori approfondimenti, tratti soprattutto dalle sperimentazioni su se stesso e sugli individui sani, dei vari rimedi. Laureatosi ad Erlangen nel 1779, sposò nel 1782 la diciannovenne Johanna Henriette Kucher, che gli diede undici figli e che lo seguì instancabilmente nelle sue peregrinazioni, sia a causa delle note guerre dell’epoca, sia a causa dei conflitti che il suo nuovo pensiero creava all’interno delle istituzioni mediche.
Studioso e sperimentatore, conoscitore di varie lingue, spesso non praticava la professione medica, costringendo la ben grande famiglia a sostentarsi con poco, pur di sviluppare fino in fondo il suo impianto teorico-clinico: per molti anni della sua vita gli unici proventi derivarono dalle traduzioni di testi. Dissentendo dalle pratiche mediche dell’epoca (salassi usati come purgativi ed emetici), pensava piuttosto che la malattia si curasse rafforzando le energie vitali al fine di ripristinare l’equilibrio dell’organismo.
La prima intuizione omeopatica venne dalla traduzione del libro di Cullen sulla malaria, allora trattata con la corteccia di china. Hahnemann ipotizzò – sperimentando su sé la china e riproducendo i sintomi malarici – che alcuni sintomi si potessero curare con quella sostanza che in una persona sana avrebbe prodotto gli stessi sintomi. La nascita dell’omeopatia è in qualche modo segnata dal “Saggio su un nuovo principio per scoprire le virtù curative delle sostanze medicinali, seguito da qualche considerazione sui principi accettati fino ai nostri giorni” del 1796, dal quale si evincono le sperimentazioni dei vari rimedi sull’uomo sano.

Il termine omeopatia – dal greco omoios/simile, e pathos/malattia – indica il nuovo modo di curare le malattie, in contrasto con l’allopatia dell’epoca, che non osservando il malato nella sua interezza, utilizza le stesse, ingiustificate pratiche per tutti. Il fondamento teorico dell’omeopatia è il vecchio ippocratico concetto di “similia, similibus curantur”, grazie al quale le medicine vengono scelte in base alla somiglianza tra i loro effetti e i sintomi dei pazienti.

La base metodologica dell’omeopatia verrà più tardi esposta nel testo “Organon dell’arte di guarire”, la cui prima edizione è del 1810: qui si rintracciano i metodi di somministrazione dei rimedi (piccole dosi) e il tempo necessario alla ripetizione dei trattamenti, che dovranno essere effettuati solo al ripresentarsi dei sintomi.

Il pensiero e l’azione di Hahnemann vengono evidenziati nella di cura di un malato psichiatrico, nel 1792, di nome Klockenbring. Contrariamente agli usi dell’epoca – ove tali pazienti erano soggetti alle violenze più efferate – egli, sulla scia di Pinel, osservava solo le espressioni della malattia, producendo – attraverso “l’ascolto” e, quindi, l’esserci – la guarigione del soggetto. Nel 1812 inizia un corso universitario di omeopatia che durerà dieci anni e durante i quali pubblica “La materia Medica Pura”, in cui vengono descritti i cinquantaquattro rimedi omeopatici. Da quel momento l’omeopatia diviene una scienza solida, ma egli rimette in discussione il suo edificio approfondendo le cause delle malattie croniche ed elaborando la teoria dei miasmi.
Secondo tale teoria, esiste una triplice radice esogena che causa le malattie croniche; la psora, la scabbia e la sifilide. Quindi l’anamnesi deve estendersi fino ai sintomi concomitanti e agli antecedenti morbosi.

Lo sviluppo fiorente della sua disciplina si esplica in un clima di terrore determinato dalle guerre dovute all’espansionismo napoleonico, che Hahnemann considera espressione di una personalità malata. Ciò nonostante, è proprio in quel clima di morte che egli cura centinaia di soggetti affetti dalle malattie più disparate. A ciò vanno aggiunti i lutti familiari come la figlia Wilhelmine, più tardi la fedele e paziente moglie Johanna ed infine, la figlia Friedericke, assassinata nel corso di una rapina. Nell’alternarsi di gioie e disgrazie, gli ottant’anni di Hahnemann vedono avvicinarsi, comunque, una nuova epoca che diverrà quella definitiva.

Conosce Marie Melanie d’Hervilly, più giovane di quarantacinque anni, dal carattere forte e invasivo, che diviene più tardi la sua seconda moglie. Il carattere intransigente di Melanie, che ben si accorda con quello di Hahnemann, crea , tuttavia, dei dissapori tra Hahnemann e le sue due figlie, rimaste ad accudirlo. Ma la passione che lega i due sposi poco si cura delle proteste familiari e, nel 1835, alla richiesta di Melanie di fare un viaggio a Parigi, Hahnemann accetta. Ma sarà il suo ultimo viaggio, poiché vi rimarrà fino alla morte. A Parigi conoscerà l’alta società da cui continuerà a ricevere pieni riconoscimenti.
Dopo la morte della figlia Eleonore, porta a termine la sesta edizione dell’Organon che, tuttavia, uscirà postuma durante la prima guerra mondiale. Samuel Hahnemann muore il 2 Luglio del 1843 e viene sepolto nel cimitero di Montmatre (all’inizio del XX secolo le sue spoglie verranno traslate nel cimitero monumentale del Père-Lachaise).

L’originalità del testo consiste non solo nell’essere in Italia la prima esauriente biografia del padre dell’omeopatia, ma nell’essersi – gli autori – accostati al suo mondo interno; immaginando , quindi, – e rendendone possibilità di visione a loro volta ai lettori – quale potesse essere il travaglio di un genio di tale portata. La sofferenza, nelle personalità dei geni, diviene il motore portante dello sviluppo delle idee, e il distacco dal mondo circostante, sia in termini fisici che di pensiero o professionale, inevitabile. Laddove il nuovo, destruttura necessariamente il vecchio, solitudine come viatico s’impone. E gli autori, con grande poesia e magia, fanno omaggio attraverso la sintonia del cuore, ad un grande uomo della medicina, che seppe aprire le porte alla medicina dell’Uno, confinando non più l’uomo nell’organo, ma restituendolo all’Universo.
In questo incredibile ed originalissimo libro-spartito, Riccardo de Torrebruna , autore teatrale, ha curato la parte narrativa, mentre Luigi Turinese, omeopata e psicoanalista junghiano, ha curato la parte scientifica. Come hanno giustamente sottolineato nel 2007, nella presentazione del libro presso il Refettorio piccolo del Monastero dei Benedettini di Catania, Franco Battiato, musicista e Giovanna Giordano, scrittrice, se la malattia è assenza di ritmo – non solo all’interno dell’individuo, ma anche fuori di sé – la cura consiste, allora, nel recupero di tale ritmo: equilibrio che non può ripristinarsi combattendo la malattia con armi diverse da se stessa, bensì utilizzandone le stesse al fine di sviluppare risorse interne all’organismo ( similia similibus curantur ).

La presentazione del testo, in sintonia con la metafora musicale, si è svolta in “facies” quasi poetica, dove aspetti umani e scientifici si sono “accordati”, per comunicare ancora una volta, quanto l’opera di ogni grande uomo – come Samuel Hahnemann – comporti pathos, solitudine, lotta, mai resa, al fine di dar voce al daimon interiore che incessantemente distrugge e crea, al servizio della collettività.

Rosa Brotzu










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venerdì 10 settembre 2010

La scienza delle costituzioni umane - Omeopatia e Ayurveda

E' nota la differenza tra clinica e patologia: la prima si occupa del malato, mentre la seconda studia le malattie.
Mi sembra interessante che i grandi sistemi antichi di medicina, a differenza di quanto accade di norma al giorno d'oggi, siano imperniati più sulla clinica che sulla patologia.
Interessandosi conseguentemente all'uomo nella sua totalità, essi hanno scoperto che non tutti gli individui reagiscono allo stesso modo, sia nello stato di salute sia nello stato di malattia. Questa scoperta segna la nascita della scienza delle costituzioni umane.
Sono sempre state individuate tre o più spesso quattro linee fondamentali in cui si vanno ad incanalare le tendenze biotipologiche. A queste linee fondamentali si affiancano le molteplici combinazioni rappresentate dai tipi misti di più comune riscontro nella pratica clinica.


Il tentativo organico più antico di compiere una classificazione tipologica spetta alla medicina ayurvedica. Essa pone a fondamento della propria fisio-patologia il principio dei Tridosa: tre forze. Vata, Pitta e Kapha, governano il microcosmo, e dalla loro armonia o disarmonia discendono la salute o la malattia.
Le tre costituzioni di base sono il risultato del dosa predominante al momento del concepimento. Una persona il cui dosa dominante sia il Pitta avrà una Pitta Prakriti, caratterizzata da un'esuberanza di Pitta e da una quantità minore, variabile, di Vata e Kapha. Le altre due costituzioni di base sono rispettivamente la Vata Prakriti e la Kapha Pakriti, a cui si può affiancare la Sama Prakriti, o costituzione ideale, in cui c'è perfetto equilibrio dei tre dosa

(vedi anche il post: Breve storia dell'idea tipologica)

La Sushruta Samhita contiene una minuziosa descrizione delle tipologie basilari. Vediamone le linee fondamentali.
Il tipo Vata è aggravato dal freddo umido, dal lavoro psico-fisico prolungato, dalle preoccupazioni, da un regime alimentare piccante. Ha un a spiccata predilezione per l'arte, particolarmente per la musica. Impaziente ed irrequieto, incostante e incoerente, ha temperamento incerto e presenta frequenti variazioni d'umore. Frettoloso ed iperattivo, è soggetto a malattie nervose. Essendo ipersensibile al dolore, che non sopporta, si lamenta con facilità. E' piuttosto gracile.
Il tipo Pitta è aggravato dal calore, dalla collera, da alimenti grassi e di origine animale e da disturbi durante la digestione. Migliora con il sapore dolce e con le sostanze digestive. Ha buona memoria, è brillante in società e ama monopolizzare ogni conversazione. Irascibile, dopo la collera ritorna tuttavia subito alla normalità. Vigoroso e instancabile, ama la competizione, perché gli dà modo di emergere. La cute è un apparato facilmente interessato da scariche tossiniche, che si manifestano sotto forma di eruzioni, facili arrossamenti e sudorazioni maleodoranti.
Il tipo Kapha è aggravato dalla vita sedentaria, dal freddo, in tutte le condizioni di umidità (ricordiamo che l'elemento dominante in questa costituzione è l'acqua), da pasti troppo ravvicinati, dall'eccesso di cibi salati e di dolci. E' paziente ed autocontrollato, metodico e lento. Ha spiccato senso del dovere ed è conservatore per natura. Pondera a lungo ogni decisione, cui poi si attiene con costanza e coerenza. Tende all'obesità.

Proporzione e disarmonia.
Il mondo greco classico esprime una filosofia e una medicina che mostrano più di una analogia con la cosmobiotipologia dell'Ayurveda.
Il grande Ippocrate di Coo (458-370),prendendo spunto dalla quadruplice ripartizione empedoclea degli elementi macrocosmici in acqua, aria, fuoco e terra, postula l'azione del microcosmo di quattro principi, che egli chiama umori: flemma, sangue, bile gialla e bile nera. La loro giusta proporzione (crasi) determina la salute, mentre la loro disarmonia (discrasia) è alla radice della malattia. A seconda dell'umore prevalente, avremo quattro temperamenti di base: flemmatico, sanguigno, biliare e atrabiliare.
la fisiopatologia umorale testè descritta sarà rielaborata e perfezionata da Galeno (138-201) e poi dai medici arabi. Sempre in abito greco, è da notare che nel XL capitolo del Timeo Platone (427-347 a. C.) espone una patologia basata sull'alterazione di aria, flemma e bile, che presenta sorprendenti analogie col principio dei Tridosa.
il Medioevo occidentale custodisce la dottrina costituzionalistica umorale e la tramanda ai secoli successivi. Ricordiamo per tutte la grande scuola ippocratica di Montpellier, che ancora nel XVII secolo aveva la forza di esprimere un grande clinico come Lazaro Riverio, autore di una minuziosa e tuttora valida descrizione dei quattro temperamenti ippocratico-galenici.
Tra il XVII e il XVIII secolo si afferma la più affascinante tra le scienze delle costituzioni parziali, la Fisiognomica, che dai tratti del volto pretende di risalire al temperamento del soggetto.

Ci siamo occupati, finora, con la sola eccezione dell'Ayurveda, di altrettanti capitoli di storia della medicina, privi in apparenza di possibilità applicative; tra le dottrine esposte, infatti, nessuna trova impiego oggi.
Nell'Omeopatia di Hahneman (1755-1843), invece, troviamo un ideale raccordo tra antico e moderno, e una metodica clinico-terapeutica non solo praticata tuttora, ma in via di continua espansione. Hahneman, come è noto, riprende e mette in pratica, sviluppandolo, il similia similibus curentur di Ippocrate.

I pilastri della dottrina omeopatica sono quattro.
Vi è la legge della similitudine: ogni elemento naturale capace di provocare, se assunto dall'uomo sano, un certo quadro morboso, può guarire se assunto in dosi infinitesimali, un malato che presenti un quadro morboso simile.
Vi è poi la legge della diluizione. E' contenuta nella precedente: il medicinale raggiunge lo scopo desiderato, senza effetti collaterali, se usato a dosi infinitesimali.
Vi è l'individualizzazione del rimedio. Non ci sono medicinali per le singole malattie, ma per i singoli malati. L'Omeopatia infatti, come tutti i sistemi costituzionalistici, è una metodica fondata sulla clinica e non sulla patologia. Ciò significa che, poniamo per una tonsillite, il rimedio sarà diverso a seconda che il malato abbia o meno febbre alta, presenti o meno ipersalivazione, abbia le tonsille color rosso vivo o rosso cupo, sia abbattuto o agitato, e così via.


E infine, vi è lo studio delle costituzioni. Assai usata è una classificazione su base biochimica, che prevede tre costituzioni: Carbonica, Sulfurica e Fosforica, a seconda dell'elemento di cui ha più bisogno il biotipo (carbonio, zolfo, fosforo). Per essere più precisi, la costituzione Sulfurica dovrebbe essere sdoppiata in Sulfurica grassa e Sulfurica magra; quest'ultima ha bisogno di ioduro di zolfo e di sali di cloro, ed è più equilibrata, avvicinandosi alla Sama Prakriti dell'Ayurveda.
La descrizione dei tre biotipi principali ricalca abbastanza precisamente quella ayurvedica di Kapha Prakriti, Pitta Prakriti e Vata Prakriti rispettivamente.
L'ultimo, determinante impulso alla precisazione della scienza delle costituzioni umane è opera del neo-ippocratismo, movimento scientifico e di pensiero che nella prima metà del '900 ha fatto sentire la sua voce soprattutto in Italia e in Francia.
Va citata in particolare l'opera di due grandi studiosi: Pende e Martiny.
La neuroendocrinologia costituzionale di Nicola Pende (1880-1970) ha permesso di distinguere due costellazioni neuroormonali: una orientata verso l'anabolismo , il vagatonismo e lo sviluppo della parte viscerale e del tronco; l'altra orientata verso il catabolismo, il simpaticotonismo e lo sviluppo relativo degli arti e del capo.
La prima costellazione determina la variante brachitipica megalosplancnica, la seconda costellazione dà luogo alla variante longitipica microsplanicncnica. Il comportamento funzionale, esito dell'attività del sistema neuroendocrino e degli apparati fondamentali, permette di distinguere, per ciascuna variante, due atteggiamenti: uno astenico e uno stenico.
Pende pertanto descrive quattro costituzioni di base: brevilineo astenico, brevilineo stenico, longilineo astenico, longilineo stenico.

I segni

Ci si domanda a questo punto: da dove traggono origine i segni morfologici, funzionali, neuro-endocrini, psichici che fanno di un biotipo ciò che è?
Martiny (1897) ha indicato la via per rispondere a questo centrale interrogativo. Egli, nel faticoso e affascinate approssimarsi alle origini del Mistero, si è rivolto allo studio dello sviluppo enmbrionale. Nella seconda e nella terza settimana di vita intrauterina l'embrione si struttura in tre lamine o foglietti germinativi: endoblasta, mesoblasta, ectoblasta. Il periodo compreso tra la quarta e l'ottava settimana è cruciale per lo sviluppo dell'organismo. Inizia infatti l'organogenesi, che si attua attraverso la differenziazione dei foglietti germinativi.
Dall'endoblasta derivano le mucose dell'apparato digerente e dell'apparato respiratorio, fegato e pancreas, timo, tiroide e paratiroidi.
Dal mesoblasta traggono origine l'apparato osteo-articolare e muscolare, l'apparato cardio-vascolare, milza, reni, e corticosurrene, gonadi e ipofisi anteriore.
Dall'ectoblasta nascono il sistema nervoso, l'epidermide, la midollare del surrene e l'ipofisi posteriore.
Secondo Martiny, la costituzione di ciascun individuo dipende da quanto avviene in questo stadio. Il foglietto germinativo che ha la maggiore sollecitazione energetica di sviluppo dà luogo a un'esuberanza dei rispettivi organi di derivazione. Abbiamo così tre costituzioni (Endoblasta, Mesoblasta, Ectoblasta) corrispondenti alla dominanza del foglietto germinativo rispettivo e una quarta costituzione, dal Martiny denominata Cordoblasta, risultante dall'equilibrio di sviluppo dei tre foglietti.
L'Endoblasta assimila molto, e quindi tende all'obesità, a causa del suo ipoendocrinismo; anche se la tiroide nasce dall'endoblasta, infatti, il biotipo è un ipotiroideo per insufficiente stimolo ipofisario sulla tiroide. E' calmo, sedentario, dotato di saggezza pratica.
Il Mesoblasta è pletorico, muscoloso, iperendocrino. Bisognoso di movimento e di conquista, va in collera con facilità ma perdona presto.
L'Ectoblasta è gracile, ipoendocrino, emotivo e neurolabile. Ha intelligenza astratta e senso artistico, ma scarse attitudini realizzative per la sua proverbiale incostanza.
Il Cordoblasta è longilineo ma robusto, normoendocrtino con prevalenza tiroidea. Ha volontà tenace e notevole capacità intellettuale, ed è molto equilibrato.
Può essere utile, a questo punto, tentatere di costruire una tabella correlativa.



Tab 1


Kapha Prakriti
Flemmatico
Carbonico
Brevilineo astenico
Endoblasta

Pitta Prakriti
Sanguigno
Sulfurico Grasso
Brevilineo Stenico
Mesoblasta

Sama Prakriti
Biliare
Sulfurico Magro
Longilineo Stenico
Cordoblasta

Vata Prakriti
Atrabiliare
Fosforico
Longilineo Astenico
Ectoblasta




(Tab. 1):i sistemi sin qui descritti hanno alcune caratteristiche comuni.
a) Incorporano una psicologia, individuando nel corpo-mente un continuum senza opposizione.
b) Costituiscono la base indispensabile per attuare la vera medicina preventiva, che non è diagnosi precoce, ma conoscenza delle tendenze fisio-patologiche di ogni biotipo.
c) Il loro "umanesimo" ne fa la premessa ideale perché il rapporto medico-paziente sia qualcosa di più di un semplice incontro tecnico.
d) Hanno una valenza "ecologica", poiché prendono atto del legame indissolubile che lega l'uomo al suo ambiente, il microcosmo al macrocosmo.
e) Portano un contributo non indifferente alla comprensione filosofica dell'uomo e del suo posto nell'Universo. Non a caso ogni grande sistema costituzionalistico è pervaso da un'ispirazione che non esiterei a definire religiosa. Non credo di esagerare affermando che lo studio della biotipologia, aiutando a conoscere se stessi e gli altri, contribuisce a migliorare i rapporti interpersonali. In questo senso, esso dovrebbe far parte di ogni programma educativo, e non essere destinato solo agli addetti ai lavori.

(vedi anche il post: Breve storia dell'idea tipologica)

Omeopatia ed Ayurveda
Sul piano clinico-terapeutico, l'Omeopatia e l'Ayurveda sono attualmente praticate e in espansione. L'Omeopatia è presente da tempo nel subcontinente indiano, e non a caso, essendo filosoficamente assai vicina alla Weltanschauung indiana.
L'Ayurveda sta invece compiendo i primi passi in Occidente, in coincidenza con la crisi del modello meccanicisticonewtoniano-cartesiano e come aspetto particolare dell'incontro Oriente-Occidente. Ma l'Ayurveda è stato esposto e messo in pratica in India secoli fa. E' possibile vanificare questo divario spazio-temporale e considerare l'Ayurveda patrimonio dell'intera umanità? Ritengo senz'altro di sì, poiché la sostanza di questo sistema medico è universale e universalizzabile.
Quando parliamo di rendere applicabile l'Ayurveda al mondo intero, tuttavia, si pone il problema della "traduzione". Si tratta, a ben vedere, del problema generale di chi è convinto che la grande tradizione orientale abbia tanto da insegnare all'Occidente, e per farlo debba assumere un linguaggio che permetta un'esposizione coerente con la pedagogia occidentale.
Fa perfettamente al nostro caso, mutatis mutandis. quanto Maria Angela Falà, studiosa di filosofia buddhista, sostiene a proposito della traduzione dei testi buddhisti in lingue occidentali: "...Traducendo, si pensa che perdendo laf orma originaria si perda l'universalità del messaggio. Se così fosse, tuttavia, il messaggio buddhista non avrebbe poi una grande universalità! E' forse vero il contrario: mantenendo questa adesione letterale al testo, si rischia di compromettere la sua universalità. Una buona traduzione che si basi sul senso del mesaggio da trasmettere non è mai un tradimento del testo originale. Al contrario gli fa onore, perché gli permette di attraversare le frontiere linguistiche e culturali".


In foto: "I segni"

Rimanere legati all'ipse dixit di Charas o di Sushruta significa trascurare il contributo dei secoli successivi. Come Bhava Mishra, nel XVI secolo introdusse nella farmacopea ayurvedica arsenico e mercurio per fronteggiare la sifilide, così dobbiamo, nel quadro dell'avvicinamento tra Oriente e Occidente, mettere le rispettive tradizioni mediche in condizione di illuminarsi a vicenda. Così, conoscendo la fisio-patologia elaborata dalla medicina omeopatica, l'embriologia, l'endocrinologia e in generale la scienza delle costituzioni umane, si può trovare spiegazione a modalità e caratteristiche che altrimenti devono essere accettate acriticamente, o tutt'alpiù rappresentano il resoconto di osservazioni empiriche.

Non hanno più che valore antropologico gli accostamenti dei tipi costituzionali agli animali, così come vanno reinterpretate le descrizioni morfologiche, che fanno riferimento, ovviamente, al tipo fisico indiano. Parimenti relativi sono i giudizi che di tanto in tanto gli autori classici esprimono, condizionati, com'è naturale dai canoni morali estetici della propria cultura. I giudizi entusiastici sul tipo Kapha, per esempio, non sarebbero totalmente condivisi da un occidentale moderno, che probabilmente non apprezzerebbe quanto Sushruta "il corpo florido, dal petto ampio e grasso, dall'addome grosso e dalla pelle untuosa e fredda" tipico dellla Kapha Prakriti.
L'endoblastismo, che dà predominanza digestiva e predispone all'obesità, è la nota saliente della Kapha Prakriti. L'esuberanza e il pletorismo della Pitta Prakriti si spiegano con la predominanza del mesoblasta, che lo espone ad accidenti vascolari acuti. Le caratteristiche salienti della Vata Prakriti, infine, si spiegano con una predominanza, in questa costituzione, dell'ectoblasta: il sistema nervoso è il vero centro del soggetto, organo bersaglio più di ogni altro apparato.

L'Omeopatia, con i suoi medicinali energetici in grado di ristabilire e mantenere l'equilibrio costituzionale, si integra perfettamente con la dietetica differenziale dell'Ayurveda e con la sua farmacopea tratta dai tre Regni della Natura.
L'Ayurveda, d'altra parte, mostra notevole finezza quando prescrive alimenti diversi a seconda della costituzione e della malattia, a anzicché basarsi sulla quantità presta attenzione alla qualità degli alimenti, al loro "genio", ai sapori, ecc... Naturalmente occorre anche qui "tradurre", a meno che non si vogliano importare cibi esotici: una volta compresi i principi, potremo avvalerci dei vegetali nostrani: è lo spirito che conta, non la lettera.


In foto: "I segni II"

Si tratta di un tentativo iniziale, da approfondire e da completare , il cui fine è di unire gli sforzi per aiutare il mondo moderno a ritrovare una dimensione perduta, quella del servizio a beneficio dell'uomo e non dell'ideologia.
Mi sia consentito concludere con un passo di Ananda Kentish Coomaraswamy. Scritto a proposito delle religioni comparate, esso ben si adatta anche alla nostra ricerca, che è ricerca di conoscenza. "Molti sono i sentieri che conducono alla vetta dell'unico e identio monte: le differenze fra questi sentieri sono tanto più visibili quanto più in basso ci si trova, ma essesvaniscono arrivando sulla vetta". La vetta è la conoscenza dell'Uomo.

Luigi Turinese

Biblografia
A.K. Bhattacharya, "Tridosha and Homeopathy", Calcutta
V. Busacchi, "Storia della medicina", Bologna, 1973
A. Carrel, "Medicina ufficiale e medicine eretiche", Milano, 1950
G. Chandrashekkar Thakkur, "Introduzione all'Ayurveda", Roma, 1974
A.K. Coomaraswamy, "Sapienza orientale e cultura occidentale", Milano, 1944
M.A.Falà, "Dalla tradizione orale alla tradizione scritta: problemi di interpretazione dei testi coanonici buddhisti" Atti del Congresso su "Il Buddhismo in Europa", 1984
P. Huard, J.Bossy, G. Mazars, "Le medicine dell'Asia", Bari, 1978
N. Pende, "Scienza della costituzione. Sua evoluzione storica", Roma, 1953
Platone, "Opere", Firenze, 1974
A. Santini, "Lezioni di dottrina e farmacologiaomeopatica", Roma, 1983

Articolo apparso su "Yoga e Ayurveda", n. 24, Settembre 1987, pagg.43-47

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Luigi Turinese Cantautore

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