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"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia
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venerdì 17 giugno 2022

Menopausa: lo "smarrimento" del tempo - Articolo di Luigi Turinese pubblicato sulla rivista online GENERIAMO SALUTE

di Luigi Turinese

Pur senza negarne la fisiopatologia ormonale, vorrei servirmi di strumenti psicologici e antropologici per suggerire un’interpretazione e una comprensione di alcuni sintomi riferiti all’area psichica della sindrome climaterica.

Esiste una scuola antropologica, detta di cultura e personalità – le cui principali esponenti sono Margaret Mead (1901-1978) e Ruth Benedict (1887-1948) – che studia i rapporti tra psicologia individuale e cultura nella quale l’individuo si trova a vivere. Applicando questo metodo alla sindrome climaterica, cercherò di dimostrare come il disagio psicologico di alcune donne costituisca una reazione di personalità alle spinte ambientali e culturali o a quello che in linguaggio junghiano si definisce conscio collettivo. 

In tutte le culture a noi note, la dicotomia più profonda è quella tra i sessi, proprio perché coinvolge ogni ambito dell’esistenza. Alla base della creazione culturale vi è un’immagine simbolica della donna, che rimane per così dire sospesa tra Natura e Cultura e sul cui corpo – si pensi alle immagini della sessualità o della bellezza – si giocano spesso nodi e snodi della creazione culturale.

[...] Continua a leggere su GENERIAMO SALUTE

lunedì 14 settembre 2020

Mezz'ora di Medicina Integrata - Videointervista a Luigi Turinese, di Gino Santini

 

Mezz’ora di Medicina Integrata

Nella sera del 10 luglio 2020 nasce sulla pagina Facebook della Siomi una rubrica che vuole portare una ventata di chiarezza su tanti temi che, volutamente o meno, vediamo diffusi in modo distorto e superficiale. Si parla di Medicina Integrata e lo si fa con i professionisti che la utilizzano nel quotidiano con i loro pazienti. Il taglio volutamente divulgativo della rubrica vuole contribuire a quella chiarezza che deve sempre essere alla base del rapporto tra medico e paziente.

Gino Santini intervista Luigi Turinese

Guarda la videointervista


Intervista a Luigi Turinese from Gino Santini on Vimeo.

mercoledì 18 settembre 2019

Omeopatia. Dalla biotipologia alla cura del sintomo - al Nobile Collegio Chimico Farmaceutico








Omeopatia
Dalla biotipologia alla cura del sintomo

Programma
GIOVEDÌ 19 SETTEMBRE 2019: La nozione di terreno in medicina e in omeopatia.
(Dott. Luigi Turinese)
LUNEDÌ 23 SETTEMBRE 2019: I principali medicinali costituzionali in omeopatia.
(Dott. Luigi Turinese)
MARTEDÌ 24 SETTEMBRE 2019: L’omeopatia in pediatria.
(Dott.ssa Adele Imperiale)
MARTEDÌ 1 OTTOBRE 2019: L’omeopatia e la preadolescenza.
(Dott.ssa Adele Imperiale)
GIOVEDÌ 3 OTTOBRE 2019: Lo studio dei modelli reattivi e di alcuni medicinali di fondo.
(Dott. Luigi Turinese)
MARTEDÌ 8 OTTOBRE 2019: Il consiglio omeopatico nella donna (prima parte).
(Dott.ssa Adele Imperiale)
GIOVEDÌ 10 OTTOBRE 2019: I principali medicinali diatesici.
(Dott. Luigi Turinese)
MARTEDÌ 15 OTTOBRE 2019: Il consiglio omeopatico nella donna (seconda parte).
(Dott.ssa Adele Imperiale)
GIOVEDÌ 17 OTTOBRE 2019: Il tipo sensibile.
(Dott. Luigi Turinese)
MARTEDÌ 22 OTTOBRE 2019: Il consiglio omeopatico maschile.
(Dott.ssa Adele Imperiale)
GIOVEDÌ 24 OTTOBRE 2019: Descrizione di alcuni tipi sensibili.
(Dott. Luigi Turinese)
MARTEDÌ 29 OTTOBRE 2019: Il consiglio omeopatico nella stagione invernale.
(Dott.ssa Adele Imperiale)
Test di apprendimento



domenica 3 marzo 2019

Zoomorfismo, fisiognomica e fitognomica. Della Porta antesignano della biotipologia in medicina


“Zoomorfismo, fisiognomica e fitognomica. 
Della Porta antesignano della biotipologia in medicina”
 di Luigi Turinese

"Cold fire" foto di Gianna Tarantino

“Coloro che vogliono far profitto in questa scienza bisogna che studino
 con grandissima  disciplina  i libri delle istorie degli animali”
(G. B. Della Porta)


Nel caos in cui si trova venendo alla luce, l'uomo cerca da sempre un ordine figurandosi il mondo come un sistema di segni da interpretare. Possedere una semiotica universale, ecco il grande, inconscio desiderio dell'umanità: ogni segno rimanda all'altro, in una ragnatela di significati  da  penetrare con chiavi sempre più  sottili.

Questo vero e proprio metodo di conoscenza, in uso sin dall'antichità, trova la sua più compiuta applicazione, nel tardo Medioevo e nel Rinascimento, con la  dottrina delle signature, secondo la quale il Creatore ha posto nel mondo, e nelle sue creature, dei segni indicatori: basta saperli leggere.

Così ogni pianta reca in sé dei  particolari che indicano la propria funzione terapeutica: il succo giallo della celidonia ci comunica la sua indicazione nelle affezioni epatiche; la preferenza di alcune piante per habitat lacustri o fluviali ci fa comprendere la loro indicazione in malattie  provocate dall'umidità, come le malattie reumatiche; e così via. Non è difficile scorgere la discendenza di tale pensiero dal Timeo platonico, in cui viene adombrata  una  corrispondenza  tra  macrocosmo (mondo) e microcosmo (uomo). Si  tratta  di  un  pensiero analogico, sicuramente prescientifico ma che getta la sua ombra lunga in piena epoca scientifica, se un astronomo del calibro di Keplero (1571-1630) poteva ancora scrivere: "Dio, troppo benevolo per restare in ozio, iniziò a  fare il  gioco  delle segnature ed iscrisse la sua simiglianza nel mondo...".

A  questa  logica  si ispira  anche  la  fisiognomica (da physis =natura e gnome = conoscenza), che nel considerare il volto come centro rivelatore della personalità postula un fondamentale rispecchiamento tra corpo (viso) e anima. Inoltre, essa  manterrà  per  tutta  la  sua  lunga  storia  un  topos immutabile: lo zoomorfismo, cioè la comparazione tra tipologie facciali e tipologie animali allo scopo di trarre indicazioni sul carattere  degli  uomini  traendole  dal  carattere  degli animali a cui assomigliano.

Le prime tracce di un sapere fisiognomico sono riscontrabili in epoca paleo-babilonese (XVII secolo a. C.). 
Passando al mondo greco è d’obbligo citare Pitagora (VI secolo a. C.), che sottoponeva i discepoli a esame fisiognomico. Egli ne avrebbe appreso l’arte presso Arabi, Ebrei, Caldei. Nel Corpus Hippocraticum la prima apparizione del termine si riscontra nel trattato delle “Epidemie” (V secolo a. C.). Platone (V-IV secolo a. C.) introduce elementi di zoomorfismo nel Fedone.
Contemporaneo di Platone, anche Antistene, fondatore della scuola cinica, si sarebbe occupato di fisiognomica. Aristotele (384-322 a.C.) si serve dello zoomorfismo nella sua Storia  degli  animali,  considerata  il  primo  compiuto trattato  di fisiognomica che si conosca.
Un epigramma dell’Antologia Palatina (III secolo a. C.) parla di un certo Eustene, “fisiognomico capace di capire dallo sguardo anche il pensiero”.
Per quel che attiene al mondo latino, Cicerone (106-43 a.C.) si fa divulgatore, nel “De fato”, delle   posizioni aristoteliche. Nel “De oratore” troviamo inoltre la celebre affermazione, pertinente al nostro tema, “Imago animi vultus est”.
Polemone di Laodicea (II secolo) riprende lo zoomorfismo nel suo trattato sulla fisiognomica, conservato in una versione in lingua araba del XIV secolo e tradotto in latino soltanto nel XIX secolo. Apuleio (II secolo), nelle “Metamorfosi”, si produce in una descrizione fisiognomicamente considerevole del protagonista Lucio. A Roma fioriva l’attività dei metoposcopi, che leggevano il futuro nelle rughe della fronte.

Guarda le immagini dell'intervento

Dopo alcuni secoli di relativo letargo, nel corso del Medioevo la fisiognomica  riprende vigore e viene diffusa in Europa grazie alla mediazione della cultura araba.
Il Rinascimento vede il fiorire di posizioni nuove accanto a riflessioni sulle cosmogonie antiche, per lo più mutuate dal Timeo.
La  figura  di  Leonardo  da  Vinci  (1452-1519)  è  centrale nell'evoluzione della fisiognomica. Non solo per quel tanto di genio che  Leonardo mise in ogni campo  dello scibile cui  si interessò; non solo per la possibile esistenza, di cui gli studiosi discutono da tempo, di uno studio leonardesco sulla fisiognomica, che sarebbe perduto; ma soprattutto per la connessione, che con Leonardo si fa esplicita, tra fisiognomica e arte figurativa. "Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell'animo; altrimenti la tua arte non sarà laudabile". Come  afferma  lo  storico  dell'arte  Flavio  Caroli (1995: 12):  "[...] il cammino della pittura strettamente intersecata con la psicologia, cioè con la fisiognomica, è l'asse portante della cultura figurativa occidentale". Tale asse affonda le sue radici nel genio di Leonardo.
Dopo  di  lui,  innumerevoli  uomini  d'arte  e  di  scienza rinascimentali hanno affrontato le tematiche fisiognomiche. Nel “De sculptura” di Pomponio Gaurico (1481-1530) un capitolo viene dedicato alla fisiognomica, con particolare riguardo ai temi degli occhi e dello zoomorfismo.
Un gigante della pittura come Tiziano Vecellio (1490-1576), nella “Allegoria della prudenza”, del 1565, utilizza temi zoomorfici, giustapponendo a tre teste di uomini di diversa età rispettivamente il cane, il leone (considerato dai fisiognomici l’animale in cui si celebra al massimo grado la combinazione di forza e saggezza) e il lupo. Michelangelo Biondo (1497-1656), filosofo e medico veneziano di formazione napoletana, nel “De cognitione hominis per aspectum” (1544) seppe conciliare conoscenze artistiche, fisiognomiche e mediche.
Ma è soprattutto Gerolamo Cardano (1501-1576) ad imprimere un segno originale allo studio dei rapporti tra anima e corpo. Nel primo libro del trattato “Metoposcopia”, pubblicato postumo, possiamo  leggere: "Questa  arte,  che  è  la  parte principale della fisiognomica, si sforza di predire il futuro attraverso l'ispezione sia della faccia frontale che della sua lunghezza, larghezza e delle sue diverse linee, ed anche dai marchi naturali che vi si trovano". Cardano, pur essendo medico, si muove ancora in un universo culturale in cui la pratica divinatoria ha la meglio su quella più propriamente clinica, e in cui i segni del volto sono signature a tutti gli effetti.
Montaigne (1533-1592) dedica alla fisiognomica un intero capitolo degli “Essais” (1588).

Il punto di cerniera, e al tempo stesso di svolta, tra cultura cinquecentesca impregnata di magismo e pensiero razionalistico secentesco si ha con l'opera di Giovan Battista Della Porta (1535-1615). La sua “Fisionomia dell'huomo” (Napoli, 1598) è l'edizione in lingua volgare dei  precedenti studi in latino dell'autore, arricchita di  un centinaio  di  tavole  esemplificative  che mettono  aristotelicamente  a  confronto  animali  e  uomini.  Di nuovo lo zoomorfismo, dunque, che Della Porta utilizza, nel trattato “Phytognomonica octo libris contenta” (1588), anche per  uno spericolato  studio  comparativo  tra  mondo  animale  e  mondo vegetale, in cui indaga le proprietà delle piante a partire  da  somiglianze  morfologiche  con  parti  di  organismi animali.
Lo studio delle signature delle piante è volto alla ricerca di una unità estetica dell’Universo. Lo zoomorfismo di Della Porta si situa tra lo schematismo grafico di Gerolamo Cardano e il razionalismo di Charles Le Brun, che vedremo tra breve.
L’animale simboleggia l’essenza, la qualità fondamentale di un essere umano. “Mai la natura fece un animal che avesse il corpo d’uno o l’animo di un altro animale: cioè un lupo, over agnello, che avesse anima di cane o di leone […] Se l’anima umana venisse in un corpo di cane, restandogli però l’intelletto, non avrebbe costumi se non di cane”.
L’Universo appare così come un grande teatro di frattali: ogni cosa riflette e significa tutte le altre: tout se tient, in una dimensione protostrutturalista.

Il  Seicento  è  il  secolo  in  cui  si  cerca  di  indagare  le passioni con l'ausilio della ragione. René Descartes (1596-1650) indirizza parte della sua attività filosofica ad investigare il rapporto tra anima e corpo. Di  questa  sezione  della  produzione  di  Cartesio  bisogna ricordare “Les Passions de l'Ȃme” (1649), di cui trascriviamo un  brano  in  cui  vengono  elencati  i  segni  esteriori  delle passioni: "I più importanti tra questi segni sono i moti degli occhi  e  del  volto,  i  mutamenti  di  colore,  i  tremiti,  il languore,  gli  svenimenti,  il riso,  le lacrime,  i  gemiti,  i sospiri".
Pressoché contemporaneo di Cartesio è Charles Le Brun (1619-1690), primo pittore di Luigi XIV, cui si devono importanti riflessioni teoriche su tematiche fisiognomiche. Si ricordano il “Traité des Passions” (1649) e soprattutto la serie di conferenze tenute  presso  l'Accademia  Reale  di  Pittura  e  Scultura, dedicate all’espressione generale e particolare.
A partire dal Settecento, la fisiognomica tende per così dire a specializzarsi, spostandosi progressivamente in ambito medico e lasciando alla pittura un ruolo più illustrativo.
Mantiene una certa autonomia artistica e una certa unitarietà l'opera del pittore inglese William Hogarth (1697-1764), che nel 1743 realizza, nella stampa “Caratteri e  caricature”, una vera e propria  summa  di  fisiognomica  applicata al disegno.  Dieci  anni  più tardi,  l'artista  sente  il  bisogno  di  dare  una  copertura teoretica  alla  sua  perizia  grafica,  pubblicando il  trattato di estetica “The analysis of beauty” (1753), di cui riportiamo un passo dalla prima traduzione in lingua italiana, del 1761: "[...] il volto è l'indice dell'animo; e questa massima è tanto radicata in noi, che non  possiamo  fare a  meno[...]  di  formare qualche particolar concetto della persona, di cui si osserva il volto, anche  prima  di  ricevere  informazione  per  altri  versi[...]  E' ragionevole il credere che l'aspetto sia una vera e leggibile immagine dell'animo, che dà a ognuno a prima vista l'istessa idea;  e  vien  poi  confermata  in  fatti:  per  esempio,  tutti concorrono  nell'istessa  opinione  a  prima  vista  di  un  vero idiota".
Lo  svizzero  Johann  Caspar  Lavater  (1741-1801)  può  essere considerato l'ultimo fisiognomico puro, che indaga le forme fisse per carpirne significati oggettivi. Dopo di lui saranno maggiormente indagate le forme mobili dell'espressione: la mimica, la gestualità, il comportamento. Si parlerà allora più   propriamente   di   patognomica   (da pathos = passione e gnome = conoscenza); mentre  la fisiognomica rifluirà in ambito medico e avrà come erede la frenologia. L'opera di Lavater è probabilmente sopravvalutata, forse perché a suo tempo ebbe l'iniziale  adesione  di  due  personaggi  del calibro di Goethe e di Füssli. Lavater è ricordato soprattutto per le sue silhouettes, tratte dal “Physiognomische Fragmente” (1775-1778).

Dicevamo prima della frenologia. Il suo fondatore, Franz Joseph Gall  (1758-1828),  nei  lavori “Recherches  sur le système nerveux” (1808) e “Anatomie et physiologie du système nerveux” (1819) afferma che la forma che definisce le funzioni non è quella  facciale ma  quella cerebrale e che quest'ultima può essere  dedotta  dalla  forma del  cranio.
Inizia  così  una minuziosa analisi delle bozze e degli avvallamenti del cranio, ingenua anticipazione dello studio delle aree cerebrali. La  frenologia  conosce  in  breve  tempo  un  largo  successo  di pubblico. Gli imprenditori    cominciano a richiedere certificazioni  craniologiche  prima  di  assumere  impiegati, proprio  come  si  fa  oggi  inserendo  uno  psicologo  nelle commissioni che  selezionano il personale. A un livello più popolare, ci si fa fare il profilo frenologico come ai giorni nostri si chiederebbe  il  tema  natale astrologico. A questo scopo, nel 1835 i fratelli Povel aprono a Philadelphia  il  primo locale dove, a pagamento,  viene effettuata  la  lettura  del cranio; il successo sarà di  tale portata  da  indurli  ad  aprire  a  New York un Phrenological Cabinet;  non avendo  tempo  e  modo  di  recarvisi,  i  clienti potevano inviare un buon dagherrotipo del proprio cranio. Non mancano i veri e propri ciarlatani. Il filosofo Friedrich Engels ricorda  lo  spettacolo  di  un frenologo che girava per le campagne con una ragazza che faceva sprofondare in estasi mistica premendole sul cranio il “centro della preghiera”. Il tutto davanti a un folto pubblico,  dapprima  incredulo  e  poi  convertito  alla nuova “scienza”.

Sempre  nell'Ottocento,  è  d'obbligo  menzionare  un  precursore dell'etologia: niente meno che il grande Charles Darwin (1809-1882), conosciuto per “L'origine delle specie” (1859) ma anche autore di un libro meno noto, “The expression of emotions in man and animals” (1872),  in  cui  sostiene  che  le  espressioni  delle emozioni sono al servizio della selezione naturale, fisiologici segnali di difesa o di attacco.
Passato  alla  storia  per  il  celebre  ritratto  che  gli  fece Vincent Van Gogh nel 1890, pochi mesi prima del suicidio, il dottor  Paul  Ferdinand  Gachet  (1829-1903)  fu  psichiatra, elettroterapeuta,  omeopata.  Da  pittore  dilettante  qual  era, effettuò  ritratti  delle  internate  all'ospedale  psichiatrico della Salpetrière, allo scopo di studiare i segni somatici ed espressivi della follia. Gachet si era laureato con una tesi sulla  Malinconia,  di  cui riportiamo  un passo  che  assume  un valore  ancora  maggiore  se  lo  leggiamo  avendo  presente  il ritratto  che   gli   fece   Van   Gogh e    che  sembra un'iconografia  esplicativa dei suoi argomenti. Gachet  descrive la patognomica  del malinconico:  "Sembra  che  la  creatura  si rattrappisca, si ripieghi su se stessa, si comprima, come se dovesse  occupare  il  minor  posto  possibile  nello  spazio.  La postura  del  malato  è  tutt'affatto  particolare.[...]  Il  tronco semiflesso sul bacino, le braccia trattenute verso il torace.[...] La testa quasi piegata sul petto leggermente inclinata.[...] Tutti i  muscoli  del  corpo  sono  in  uno  stato  di  semicontrazione permanente[...]  i  muscoli  facciali  sono  come  contratti[...]  e conferiscono alla fisionomia un aspetto di particolare durezza; i  muscoli  sopraccigliari,  aggrottati  in  maniera  permanente, sembrano nascondere l'occhio e aumentare la sua profondità.[...] La bocca è serrata in una linea diritta, sembra che le labbra siano  scomparse.[...]  Il colorito  è  giallastro e  terroso.[...]  Lo sguardo è fisso, inquieto, obliquo, diretto verso terra o di lato."
Di  lì  a  pochi  anni  l'ospedale  psichiatrico  parigino  della Salpetrière diventerà teatro delle gesta del maggiore studioso ottocentesco dell'isteria: il neurologo  Jean-Marie Charcot, ai cui celebri e frequentati corsi assistette, dall'ottobre 1885 al  febbraio  1886,  un  giovane  neurologo  austriaco  di  belle speranze: Sigmund Freud.

Con  Paolo  Mantegazza  (1831-1914), autore di  “Fisionomia e mimica” (1861),  nasce  l'antropologia  scientifica,  antenata dell'antropologia criminale di Lombroso.
Cesare Lombroso (1835-1909) è un giovane psichiatra quando, analizzando le protuberanze craniche di un ladro, Giuseppe Villella, ritiene di scorgervi le stigmate  di un'atavica predisposizione  al  crimine.  Prendono corpo cosi “L'uomo delinquente studiato in rapporto all’antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie” (1876; poi ripubblicato nel 1897 provvisto di  un Atlante) e  “La donna delinquente, la prostituta e la donna normale” (1893). Il considerare  la tendenza al crimine alla stregua della predisposizione ad una malattia naturale spinge Lombroso a chiedere l'isolamento di queste  persone  in  luoghi di  cura piuttosto  che in  carcere.
Nasce  in  questo  modo  l'istituzione  del  manicomio  criminale (1891)  e,  nel  1905,  viene  istituita  la  prima  cattedra  di antropologia  criminale, affidata allo stesso Lombroso.
Se da una parte, con le sue teorie, Lombroso  può  essere  considerato  un  precursore  della  funesta idea  di   predestinazione  razziale,   dall'altra   cerca  una giustificazione per così dire naturalistica al crimine. La sua fortuna comincia ad incrinarsi pochi giorni dopo la sua morte allorquando, all'autopsia  effettuata da  un    avversario scientifico, il suo cranio rivela la tipica natura dell'alienato e del criminale.
Oggi rimane  un  Museo  Lombroso  a  Torino  e,  soprattutto,  un  modo popolare di parlare a prima vista di faccia da delinquente che, a ben vedere, si riverbera anche nell'uso delle fotografie segnaletiche e degli identikit.

Nel   Novecento,   lo   studio   del   volto   umano   abbandona definitivamente il territorio della fisiognomica  e prende fondamentalmente  tre  vie:  la  via  antropologica,  la  via criminologica e la via psichiatrica, con la creazione di discipline intermedie come la medicina criminologica e la psichiatria forense.
A queste andrebbe affiancata la via costituzionalistica, basata sulla dottrina delle costituzioni umane. Essa, oramai abbandonata da ogni ambito medico, sopravvive in quella speciale metodica clinico-terapeutica che è la medicina omeopatica.


BIBLIOGRAFIA

Barbara, M.: I fondamenti della biotipologia umana, Istituto Editoriale
                     Scientifico, Milano 1929.
Barbara, M.: I fondamenti della craniologia costituzionalistica, Pozzi, Roma 1933.
Barbara, M.: La dottrina delle costituzioni umane, Minerva Medica, Torino 1957.
Busacchi, V.: Storia della Medicina, Pàtron, Bologna, 1973.
Caroli, F.: Leonardo. Studi di Fisiognomica, Leonardo, Milano, 1991.
Caroli, F.: Storia della fisiognomica. Arte e Psicologia da Leonardo                                     
                a Freud, Leonardo, Milano, 1995.
Castellino, P.: La costituzione individuale, Idelson, Napoli, 1927.
Centini, M.: Fisiognomica, Red, Como 1999.
Corman, L.: Le diagnostic du tempérament par la morphologie, Legrand,
                    Paris 1947.
D’Alessandro, B.: Compendio di medicina costituzionale, Idelson, Napoli, 1979.
De Giovanni, A.: Commentarii di clinica medica desunti dalla morfologia del 
                            corpo umano, Hoepli, Milano 1904-1908.
Della Porta, G. B. (1586): Della fisionomia dell’uomo, Guanda, Parma 1988.
Gurisatti, G.: Dizionario fisiognomico, Quodlibet, Macerata 2006.
Lavater, J. C.: Della Fisiognomica, Editori Associati, Milano, 1993.
Magli, P.: Il volto e l’anima. Fisiognomica e passioni, Bompiani, Milano 1995.
Martiny, M., Brian, L., Guerci, A.: Biotypologie humaine, Masson, Paris 1982.
Pende, N.: Trattato di biotipologia umana individuale e sociale, Vallardi,
                 Milano 1939.
Pende, N., Martiny, M.: Traité de médecine biotypologique, Doin, Paris 1955.
Platone: “Timeo”, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991.
Pseudo Aristotele: Fisiognomica, BUR, Milano 1993.
Rodler, L.: Il corpo specchio dell’anima. Teoria e storia della fisiognomica, Bruno Mondadori, 
                  Milano 2000.
Sagne, C. (1983): I volti, Sugarco, Milano, 1984.
Turinese, L.: Biotipologia. L’analisi del tipo nella pratica medica (seconda edizione), 
                     Tecniche Nuove, Milano 2006.


Intervento pubblicato ne “Il cenacolo alchemico. Incontri ed eventi ispirati al pensiero di Giovan Battista Della Porta”, a cura di Alfonso Paolella e Gennaro Rispoli. Atti del Convegno, Napoli, 24-26 maggio 2018 (pp. 197-205).

venerdì 12 ottobre 2018

Biotypology 2018 "Menopausa e ipertrofia prostatica', Roma 13 Ottobre




BIOTYPOLOGY
Sabato 13 Ottobre 2018
Roma,
Hotel NH Villa Carpegna
Via Pio IV, 6



Info e prenotazioni
Carlotta Onofri - Via Paolo Emilio 10, 00192 Roma
Tel.: +39.06.6930.6831 - Fax: +39.06.3019.4035


mercoledì 25 ottobre 2017

Intervista a Luigi Turinese sull'omeopatia- a cura di Giuseppe Spinelli 14 ottobre 2017


Intervista al dr. Luigi Turinese, medico omeopata e psicoterapeuta, realizzata durante il Convegno Biotypology organizzato da ISMO (Istituto di Studi di Medicina Omeopatica) del 14 ottobre a Roma.






Omeopatia in piazza

 è un progetto che nasce con lo scopo di dare 


una informazione corretta e diretta al 


pubblico sui vantaggi dell'utilizzo dell'Omeopatia.





sabato 14 ottobre 2017

Biotypology 2017 - Roma 14 Ottobre 2017 - Giornata di Studio: "Dislipidemie e Patologie allergiche


GIORNATA DI STUDIO
Biotypology 2017

Dislipidemie
& Patologie allergiche

Sabato 14 ottobre
Hotel NH Villa Carpegna - Via Pio IV 6, Roma


Programma e relatori


INGRESSO GRATUITO
con registrazione obbligatoria




martedì 21 aprile 2015

"Medicina omeopatica e malattie acute". Ne parla l'esperto il dottor Luigi Turinese - Su Sicilia&Donna


Medicina omeopatica e malattie acute

All’alba del XXI secolo, la medicina ha bisogno di cornici teoriche e prassi che tengano conto di una pluralità di punti di vista. La medicina accademica ha accumulato una gran mole di conoscenze e di possibilità di intervento.
Tuttavia presenta due vistosi punti deboli: una farmacologia spesso troppo aggressiva, gravata da effetti collaterali talora superiori ai benefici; e importanti carenze nella relazione con il paziente.

La disciplina che meglio sa ovviare a tali punti deboli è senza dubbio la medicina omeopatica, che vanta oltre due secoli di ininterrotta pratica clinico-terapeutica. Essa opera con diluizioni dinamizzate di sostanze in grado di ripristinare l’equilibrio dell’organismo e perviene alla scelta dei farmaci da prescrivere tramite una ricca semeiotica (la disciplina che studia sintomi e segni) e al termine di un dialogo col paziente che si spinge sino all’analisi delle più minute differenze individuali.

Questa tecnica contribuisce a creare un clima di alleanza terapeutica fondamentale per raggiungere una ottimale compliance (con questo termine si intende l’adesione del paziente al programma di cura).

   ("Controluce rosa"- foto di Gianna Tarantino)


Conoscere la medicina omeopatica e quella accademica consente l’applicazione di quella che si definisce Medicina Integrata, ovvero un sistema teorico-pratico che, guidato da un intelligente opportunismo clinico, sappia operare scegliendo per ogni singolo caso l’approccio più conveniente.
Il primo passo per introdurre l’omeopatia nella prassi del medico e del farmacista consiste nel fornire a queste figure professionali innanzitutto le armi per affrontare i disturbi acuti, che si definiscono per la durata breve e per una potenziale reversibilità del quadro clinico.

Per questo, dopo avere esplorato i territori della tipologia e della metodologia clinica in precedenti lavori (tra gli altri: Biotipologia, 1997/2006; Modelli psicosomatici, 2009), ho pensato fosse utile scrivere un manuale completo che riunisse premesse dottrinali, applicazioni cliniche e lineamenti di farmacologia omeopatica utili ad affrontare il paziente acuto, nel rispetto della sua individualità e del suo diritto a ricevere cure efficaci e sicure.

Il testo in questione (L’omeopatia nelle malattie acute, Edra, Milano 2015) consta di tre parti. Nella prima vengono illustrate la storia e la metodologia di intervento dell’omeopatia, con particolare riferimento al malato acuto.
La seconda parte è costituita da quattordici capitoli, dedicati ad altrettanti settori della patologia acuta. L’ultima sezione è un’utile rassegna di schede che descrivono sinteticamente i 162 medicinali chiamati in causa nella sezione clinica.

Con questo lavoro mi auguro di incoraggiare i professionisti e i pazienti verso la Medicina Integrata, vera medicina del futuro.

Luigi Turinese

Articolo apparso sulla rivista online Sicilia&Donna. La Sicilia che piace. Cultura, notizie e cronaca siciliana, 20 aprile 2015

sabato 30 agosto 2014

Medicina Narrativa vs Medicina Basata sull’Evidenza Due ali per un unico volo - di Luigi Turinese

Non chiedere quale malattia abbia una persona ma quale persona abbia una malattia
(William Osler)

A partire dall’inizio degli anni ’90, abbiamo assistito alla diffusione nella comunità medico-scientifica della cosiddetta Evidence Based Medicine (EBM). L’EBM (medicina basata sulle prove) venne presentata ufficialmente nel 1992 su JAMA [1] , al termine di un percorso di revisione dell’uso pratico della letteratura internazionale che avrebbe portato, l’anno seguente, alla fondazione della “Cochrane Collaboration”, un network internazionale avente lo scopo di diffondere studi clinici controllati [2] .
L’EBM viene definita come  “il processo della ricerca, della valutazione e dell’uso sistematici dei risultati della ricerca contemporanea come base per le decisioni cliniche” (Sackett D.L. et al., 1996). Essa si fonda sul principio della valutazione dei migliori risultati della ricerca disponibili in quel preciso momento di ricerca scientifica. La sua codificazione, oramai assurta a feticcio scientista, ha ragioni di esistenza non solo scientifiche ma anche e forse soprattutto economiche: razionalizzare le cure in base a  protocolli standardizzati sicuramente evita sprechi; ma al tempo stesso appiattisce le possibilità di intervento creando una medicina procedurale e perciò stesso non individualizzata.

In una lezione tenuta nel 2002 nell’ambito di un Corso di Formazione in Bioetica dell’Istituto Italiano di Bioetica Campania seminario di Bioetica, Ivan Cavicchi affrontava l’argomento con la franchezza e la chiarezza consuete: “La cosa davvero curiosa è che nel mentre l’EBM dà al dato quasi un carattere metafisico e nel mentre avversa in nome dei dati le speculazioni, i soggettivismi, le astrazioni dei medici, non si accorge di costruire la perentorietà del dato proprio sull'astrazione […] L’EBM non è pratica contro teoria, ma più semplicemente una teoria statistica della pratica. Non ho nessuna difficoltà a riconoscere all’EBM un’indubbia utilità, ma non possiamo nascondere che essa, suo malgrado, è un modo di garantire un vecchio modo di intendere la scientificità. Essa, a mio parere, rappresenta il tentativo tecnico di difendere una scientificità attraverso la conoscenza statistica. Niente di male, per carità. Se c’è tuttavia una cosa da rimarcare nel pensiero moderno è la grande problematicità di ridurre la realtà a rispecchiamento statistico. Il che non vuol dire che non si debba usare la statistica. Con l’idea di “rispecchiamento” si rischia di far regredire la riflessione al più vecchio positivismo per il quale valevano le coppie di opposizione oggettivo/soggettivo; teoria/pratica; vero/falso; razionale/irrazionale. Coppie che da Quine [3]  in poi sono state messe seriamente in discussione. La clinica può usare la statistica, ma in nessun caso ne può essere vicariata. Oggi, nella discussione epistemologica moderna si preferisce parlare di spiegazioni convenienti anziché di spiegazioni vere. Il presupposto di questa nuova scientificità è uno solo: l’ineliminabilità di un criterio soggettivo dell’operatore, criterio che per l’EBM, nelle sue rappresentazioni più estremistiche, rappresenta invece il problema per antonomasia. Spesso non si tratta solo di trovare l’accordo tra un’ipotesi terapeutica e un fatto patologico, ma anche di scegliere tra più ipotesi e più fatti. In tutto questo, l’EBM resta una tecnica epidemiologica utile, come qualsiasi altro tipo di dato di conoscenza. Essa aiuta a decidere, a combattere gli sprechi, le inutilità e tutto quello che si vuole, ma in nessun caso può pretendere di sostituirsi ad un criterio soggettivo dell’operatore. L’EBM è uno strumento dentro una cassetta di attrezzi fatta da tanti altri strumenti. Tutti utili a seconda delle circostanze. Ma tutti in qualche modo funzionali ad un’abilità che resta clinica”.[4]

I sostenitori dell’EBM deducono da una rappresentazione statistica del malato una medicina procedurale, da cui deriva una clinica assiomatica. Ma la malattia è sempre un dis-ordine (Cavicchi, 2000: 103), per cui le asserzioni di singolarità prevalgono sempre, ricordandoci che il medico deve guardare ad ogni singolo individuo come se fosse unico. Il caso clinico corrisponde, in un certo senso, più al caso che alla necessità. Come scrive Ivan Cavicchi riprendendo un concetto di Giovanni Federspil (Federspil, 1980): “La clinica […] sta diventando sempre più scienza del singolo caso” (Cavicchi, 2000: 128).

L’applicazione di una medicina basata solo sulle prove scientifiche si basa sull’erroneo principio secondo cui l’osservazione clinica è oggettiva e, come tutte le procedure scientifiche, dovrebbe essere sempre riproducibile nello stesso modo.
Le cose tuttavia non sono così semplici.
Ogni malattia ha sì una fisiopatologia e un decorso; ma anche una valenza metaforica: si pensi ai significati che può suggerire la parola immunità. Allo stesso modo, ogni sistema medico veicola, accanto a un bagaglio tecnico-scientifico, anche profondi significati simbolici; e ogni malato presenta, accanto a una dimensione oggettiva – non sempre rilevabile da subito – una dimensione soggettiva, che non solo accompagna ogni malattia ma  può a lungo rappresentarne l’unico disagio avvertito.
Casi come questi sono relegati, da parte di sanitari privi di sensibilità clinica, tra i “malati immaginari”, oggi definiti più elegantemente nevrotici o “psicosomatici”.

Nell’affrontare questa delicata questione ci soccorre la distinzione – propria della fenomenologia – tra corpo fisico (körper) e corpo vissuto (leib): il primo è una sorta di astrazione anatomo-fisiologica priva di storia e di coscienza, mentre il corpo vissuto porta in sé la verità dell’unità psicofisica, intimamente attraversata dalla dimensione soggettiva del sentire.

Il clinico si rivolge sempre, dunque, al corpo vissuto. Occupandosi della totalità dell’uomo sofferente, gli si accosta con un bagaglio costituito da conoscenza e da empatia, ponendosi di fronte alla persona che ogni malato è, e che gli chiede di essere interpretata nella sua realtà umana: dunque che si conferisca un orizzonte di senso ai suoi disturbi. In questo percorso si adombra il passaggio dal segno al significato. È su questo punto che la medicina clinica si interfaccia con l’ermeneutica, scienza dell’interpretazione. Essa, inoltre, manifesta una dimensione morale che costituisce un valore aggiunto alla competenza scientifica. “Il medico […] è […] un essere umano transeunte insieme a un altro essere umano transeunte” (Jaspers, 1986: 108).

Va da sé che tale atteggiamento non si limita a vedere il paziente come portatore di una patologia ma lo considera come essere umano con una sua biografia. La malattia non si esaurisce nella dimensione biologica ma si sostanzia di vissuto soggettivo. Già alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, al fine di correggere l’unilateralità della medicina tecnologica, si sviluppa il movimento delle Medical Humanities, raccolto intorno alla figura del bioeticista Edmund Pellegrino (1920-2013) e di altri professionisti convinti che le discipline umanistiche possano influenzare la formazione e la pratica in Medicina. Alla Harvard Medical School, più o meno negli stessi anni, la Medical Anthropology studia la salute e la malattia in rapporto all’adattamento culturale e in una prospettiva sistemica.

Si deve all’Antropologia Medica una triplice definizione di malattia: disease, che ne sottolinea gli aspetti biologici; illness, che ne mette in evidenza gli aspetti soggettivi; sickness, che studia le limitazioni sociali dell’essere malati. In questo snodo fondamentale si inserisce il movimento di Medicina Narrativa¸ fondato da Rita Charon presso la Facoltà di Medicina della Columbia University e basato sull’introduzione nella pratica clinica di elementi desunti dalla cultura umanistica. Si tratta di una modalità di relazione terapeutica che pone un’enfasi particolare sulla storia della malattia così come viene vissuta dal paziente e sul suo contesto. Charon giunge sino a proporre una Parallel chart, sorta di diario che raccoglie l’esperienza dell’essere malato in un progetto di ampliamento dei dati della tradizionale cartella clinica. Il paziente racconta la propria storia, inserendo la sua soggettività in un contesto relazionale e culturale e recuperando in tal modo il significato di ciò che gli accade; l’enfasi sulla dimensione intersoggettiva gli consente di attenuare il vissuto altrimenti alienante della malattia. Nel cercare nuove vie per migliorare la capacità dei medici di comprendere ciò che il paziente dice loro e di comunicare a loro volta, la Medicina Narrativa conduce ad una vera e propria rivoluzione epistemologica: essa costituisce un “progetto di medicina centrata sul paziente” (Masini) e uno strumento di verifica del vissuto del medico. I vantaggi sono facilmente intuibili: se da un lato facilita e rende più precisa la diagnosi e consente di porre  attenzione ai movimenti di transfert  e di  controtransfert, dall’altro costituisce un elemento terapeutico, migliorando lo stato d’animo del paziente e incrementandone la compliance. Più precisamente, nell’ambito della diagnosi descrive la forma fenomenica in cui i pazienti sperimentano la malattia, incoraggia la comprensione reciproca e fornisce informazioni non conoscibili sulla base dell’anamnesi tradizionale; sul piano terapeutico ha una valenza curativa in sé, favorisce un  approccio olistico e incoraggia verso terapie complementari, col risultato di poter essere una preziosa alleata nella costruzione di una Medicina Integrata. Se immaginiamo il paziente come un testo da interpretare, si comprende come le competenze narrative possano rendere medici migliori.

Gli obiettivi di un “training narrativo” – che si snoda attraverso tappe che comprendono tra le altre la cosiddetta autobiografia medica ed esercizi di scrittura creativa – sono i seguenti:
Imparare a seguire una trama narrativa
Saper adottare punti di vista multipli e talora anche contraddittori
Immaginare soluzioni
Decodificare immagini e metafore forniti dal paziente
Seguire il flusso temporale della storia clinica
Saper tollerare l’incertezza, pane quotidiano dell’attività clinica, e insegnare al paziente a fare altrettanto

La Medicina Narrativa consente di spostare l’attenzione dal corpo fisico al  corpo vissuto (Merlau-Ponty, v. sopra), attraverso l’esercizio complementare di empatia e exotopia: ovvero sapersi mettere nei panni dell’latro ma anche accettare l’altro proprio in quanto altro. Il percorso che sto cercando di disegnare consente il recupero di una dimensione autenticamente clinica, oltre l’attuale primato della Patologia [5] . Ne consegue una migliore comprensione dei nessi tra costituzione genetica, ambiente e stile di vita e, di più, una solida base teorico-clinica per fondare scientificamente la psicosomatica. Nasce da queste premesse un modo nuovo di fare medicina. La Narrative Based Medicine (NBN) si propone di integrare l’EBM affiancando all’impostazione statistico-protocollare di questa una raccolta di dati di tipo qualitativo, relativi al vissuto del paziente: tristezza, sentimento di solitudine, scoraggiamento. Laddove l’EBM aumenta la conoscenza e aiuta a comprendere la malattia, la NBM facilita la relazione e aiuta a comprendere il malato. “La medicina narrativa è emersa come nuova struttura per la medicina clinica e comprende le abilità testuali e interpretative nella pratica della medicina” (Charon, 2001: 1899). La raccolta dei dati e la relazione col paziente ne vengono enormemente accresciute; anche se bisogna osservare che soltanto una farmacologia che includa i dati soggettivi nella scelta terapeutica – tipica della medicina omeopatica – può completare le premesse della NBM. Compito del clinico, pertanto, è ordinare gerarchicamente segni e sintomi, avvalendosi di una logica operativa che si affranchi da una volontà meramente oggettivante per raggiungere una piena comprensione dell’essere umano sofferente. Per far ciò occorre mettere in atto una capacità di osservazione e di ascolto che sappia valutare appieno la dimensione soggettiva oltre che quella strettamente scientifica. Tale operazione pone al centro della scena la relazione terapeutica, che è una prassi sostenuta da una teoria adeguata.

Note
[1] Evidence-Based Medicine. A New Approach to Teaching the Practice of Medicine, JAMA, November 4, 1992, vol. 268, N° 17.

[2] Il nome deriva dall’epidemiologo inglese A. Cochrane (1909-1988), autore del fondamentale testo Effectiveness and efficiency in Medicine. Random reflections on health service (1972).
[3] Willard Van Orman Quine  (1908-2000) è un filosofo e logicoamericano, fautore di una visione della filosofia della scienza caratterizzata da pragmatismo e relatività ontologica.
[4] Cavicchi, I.: Medicina della scelta e razionalità scientifico-matematica, lezione tenuta nell’ambito del VII Corso di Formazione in Bioetica dell’Istituto Italiano di Bioetica Campania dal titolo “Le forme del sapere medico. Riflessioni epistemologiche sulla Medicina” (2002).
[5]   Sui rapporti tra patologia e clinica si veda il mio Modelli Psicosomatici. Un approccio categoriale alla clinica (Milano, 2009); in particolare il Primo Capitolo, intitolato appunto “Dalla Patologia  alla Clinica”.


Bibliografia
Cavicchi, I.: “Pluralismo o Babele medica? Chi, come e che cosa scegliere per curarsi”, in AA. VV.: Medicina e multiculturalismo. Dilemmi epistemologici ed etici nelle politiche sanitarie, Apèiron, Bologna 2000.
Cavicchi, I.: La medicina della scelta, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
Cavicchi, I.: Filosofia della pratica medica, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
Cavicchi, I.: La clinica e la relazione, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
Cavicchi, I.: Ripensare la medicina, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
Charon, R.: Narrative Medicine: a model for empathy, reflecton, profession, and trust, in JAMA 286, 2001.
Charon, R.: Narrative medicine: honoring the stories of illness, Oxford University Press 2006.
Cochrane, A. L. (1972):  L’inflazione medica. Efficacia ed efficienza nella medicina, Feltrinelli, Milano 1978.
Evidence-based Medicine Working Group: Evidence-based medicine: a new approach to teaching the practice of medicine, in JAMA, 268:2420-5,1992.
Eysenck, H. J.: Handbook of abnormal psychology, Basic Books, New York 1971.
Federspil, G.: I fondamenti del metodo in medicina clinica e sperimentale,
Piccin Editore, Padova 1980.
Federspil, G.: Logica clinica. I principi del metodo in medicina,
McGraw-Hill, Milano 2004.
Jaspers, K.: Psicopatologia generale, (1913/1959), Il Pensiero Scientifico, Roma 1964.
Jaspers, K. (1986), Il medico nell'età della tecnica, Raffaello Cortina, Milano 1991.
Lain Entralgo, P.: Il medico e il paziente (1969), Il Saggiatore, Milano 1969.
Masini, V.: Medicina narrativa, comunicazione empatica e interazione dinamica nella relazione medico-paziente, Franco Angeli, Milano 2005.
Sackett, D. L. – Richardson, W. L. – Rosenberg, W. M. C. – Gray, J. A. M. – Haynes, R. B.:  Evidence-based medicine: what it is and what it isn't, in BMJ 1996, 312: 71-2.
Sackett, D. L. – Richardson, W. L. – Rosenberg, W. M. C.  – Haynes, R. B.: Evidence Based Medicine, Churchill Livingstone, Edinburgh 1997.
Turinese, L.: Il concetto di modello reattivo come strumento ermeneutico: oltre l’Omeopatia, in “Filosofia della medicina”, manifestolibri, Roma 2001.
Turinese, L.: Biotipologia. L’analisi del tipo nella pratica medica, Tecniche Nuove, Milano 2006.    
Turinese, L.: Modelli psicosomatici. Un approccio categoriale alla clinica, Elsevier-Masson, Milano 2009.      
                                  
Luigi Turinese


                                     "Comprendere con lo sguardo"- Foto di G. Tarantino

Articolo apparso su HIMED – Homeopathy and Integrated Medicine, giugno 2014, Volume 5, numero 1, pp. 26-28.

martedì 5 marzo 2013

Vie integrate nella medicina. Per l'unicità del corpo&mente - a cura di Luigi Turinese


Sette incontri a cura di Luigi Turinese:


VIE INTEGRATE NELLA MEDICINA

Per l’unicità del corpo mente
A cura di Luigi Turinese

Gli incontri  mirano a divulgare modalità di approcci medici sistemici al paziente considerato nella sua unicità di corpo e mente.
Ogni terzo lunedì del mese si avvicenderanno medici che da anni sono attivi in questo ambito e utilizzano
visioni diverse e complementari per una medicina che curi corpo e mente nella loro  unicità.

alle ore 20.00 nella sede di via Clementina 7  Roma  
Atelier PAEMA - Spazio Urbano Protetto

Programma

   Introduzione alla PNEI              
MARINA  RISI (17/12/2012)

Nozioni essenziali di Medicina Omeopatica 
LUIGI TURINESE (21/01/2013)

                                             La Medicina Tradizionale Cinese 
                                                     ROSSELLA  BROTZU (18/02/2013)

    Che cos’è la dermatologia integrata         
LUCIANO D’AURIA (18/03/2013)

Nuove prospettive in Oncologia
   ELISABETTA  ANGELINI (15/04/2013)

 Introduzione alla PMR (Medicina Fisiologica di Regolazione)
 LUCILLA  RICOTTINI (20/05/2013)

    Il ruolo dell’Osteopatia in un progetto di salute globale
 ALESSANDRO LAURENTI  (17/06/2013)



giovedì 7 febbraio 2013

L’evoluzione dell’idea di tipo in Omeopatia - di Luigi Turinese


L’evoluzione dell’idea di tipo in Omeopatia
di
Luigi Turinese



Benché qualcuno creda ancora il contrario, in tutta la sua attività teorica e clinica Hahnemann non parve mai interessato a percorrere una via costituzionalistica o tipologica. Certo, la necessità di studiare la totalità dei sintomi dei pazienti per meglio stabilire i criteri di similitudine lo spingeva verso la nozione di globalità, ma egli non andò mai oltre la segnalazione che presso certe fisiologie e certi temperamenti fosse più probabile ritrovare i segni di richiamo di un certo rimedio piuttosto che di un altro. 

L’evoluzione successiva dell’Omeopatia, tuttavia, sembra andare spontaneamente verso l’elaborazione di una medicina di terreno. Questa tendenza trapela persino nel linguaggio, se ancora oggi si parla di  soggetto psorico, di paziente sicotico, e così via, quando si dovrebbe più correttamente affermare che nel tal paziente si manifestano segni del modello reattivo psorico, del modello reattivo sicotico, e così via: un modello reattivo, infatti, non è un tipo, ma uno dei modi – tipologicamente orientati, certo – di cui ciascun individuo dispone per reagire nelle fasi di rottura del suo equilibrio fisiologico. Proviamo a ricostruire le tappe salienti dell’assimilazione del linguaggio tipologico all’interno del costrutto omeopatico.
Una ventina d’anni dopo la morte di Hahnemann, Grauvogl descrive tre costituzioni, che sarebbe meglio definire stati biochimici, in rapporto ai quali classifica i rimedi omeopatici:
•          Costituzione idrogenoide, corrispondente ad uno stato di iperidratazione tissutale.
•          Costituzione ossigenoide, presso la quale le ossigenazioni sono in eccesso, per un’esagerazione del catabolismo.
•          Costituzione carbonitrogena, caratterizzata all’opposto da insufficiente di ossidazione e da ritenzione azotata.
Influenzato da Grauvogl, all’inizio del ‘900 il medico svizzero Antoine Nebel (1870-1954) descrive tre costituzioni minerali di base correlate ai sali di calcio dello scheletro:
•          Costituzione carbocalcica, normocrinica, capace di buona resistenza alla tubercolosi. Comprende soggetti brevilinei, con arcate dentarie regolari, denti quadrati, articolazioni piuttosto rigide e forti. Il carattere è calmo ed equilibrato.
•          Costituzione fosfocalcica, ipercrinica, poco resistente alla tubercolosi. Raggruppa soggetti longilinei, dal palato ogivale, con denti rettangolari presto cariati, dal torace stretto, predisposti alla cifosi, astenici e nervosi.
•          Costituzione fluorocalcica, ipocrinica, molto resistente alla tubercolosi. La morfologia è variabile ma è sempre segnata da iperlassità legamentosa: ne conseguono scoliosi, articolazioni lasse e, a carico degli organi interni, ptosi viscerali; sono frequenti le varici. I denti sono piccoli e malocclusi. Il carattere è improntato a una certa instabilità.
Le caratteristiche delle tre costituzioni minerali di base sono correlate con le patogenesi dei tre sali di calcio dello scheletro: Calcarea carbonica, Calcarea phosphorica e Calcarea fluorica.

Léon Vannier (1880-1963) riprende la classificazione di Nebel, semplificandone la terminologia (le tre costituzioni diventano la carbonica, la fosforica e la fluorica) e precisando che “il fosforico è sempre un eredo-tubercolare, il fluorico un eredo-sifilitico” (Vannier, 1928: 55-56). La classificazione di Nebel e Vannier, ancora in auge in Francia e ripresa anche in opere recenti, ha il difetto non marginale di trascurare l’antropometria. Difatti ogni classificazione costituzionale che si rispetti deve postulare un tipo che rappresenta la norma statistica, rispetto al quale gli altri soggetti rappresentano appunto deviazioni dalla norma. Non ha senso parlare di brevilineo e di longilineo se non in rapporto ad un normolineo. 
A questo difetto, tanto grave da porre, secondo me, la classificazione di Nebel e Vannier al di fuori dell’evoluzione delle classificazioni costituzionali compiute, pone rimedio Henry Bernard in lavori scritti a cavallo tra gli anni ‘40 e gli anni ‘50 (Bernard, 1951/1985). 
In questi lavori Bernard mette al centro della sua classificazione una costituzione sulfurica, facendone la costituzione più equilibrata o quanto meno quella in grado di difendersi meglio, dato che il rimedio di base che la rappresenta, Sulphur, descrive uno stato di eccellente reattività biologica. Mostrando un grande acume clinico, Bernard distingue tre sottotipi sulfurici: un tipo tanto equilibrato da poter essere considerato un tipo canonico di riferimento (sulfurico neutro), pressoché impossibile a riscontrarsi in pratica; e due tipi sulfurici per così dire “laterali”: l’uno le cui caratteristiche lo accostano alla costituzione carbonica e che Bernard denomina sulfurico grasso; l’altro che viceversa trae rapporti con la costituzione fosforica e che per questo viene denominato sulfurico magro
Si può comprendere come in questo schema non ci sia posto per una casella fluorica autonoma; difatti Bernard, pur conservando con molto buon senso un legame con la tradizione, “declassò” la costituzione fluorica, che divenne una costituzione mista, apportante una nota distrofica più o meno accentuata ai tipi costituzionali di base. 
La linearità della classificazione di Bernard ha il duplice pregio di rispettare la realtà clinica e di essere confrontabile con le classificazioni costituzionali di scuola non omeopatica.  Inoltre, cosa di non poco conto, Bernard stabilisce un rapporto stretto e logico tra la costituzione e la Materia Medica, parlando per primo di rimedi costituzionali: “Quando un individuo la cui costituzione morfologica è ben determinata vede rompersi il suo equilibrio biologico, egli aggiunge ai suoi caratteri costituzionali normali dei sintomi morbosi che formano degli insiemi patogenetici particolari e, di conseguenza, evocano dei rimedi corrispondenti a queste patogenesi [...] Non è raro vederlo passare, nel corso della sua esistenza, per una successione di stati [...] Questo malato avrà dunque bisogno successivamente di tutta una serie di rimedi che avranno dei sintomi comuni in rapporto alla costituzione. Essi si imparenteranno così gli uni agli altri per questo fondo costituzionale che non cambia mai. Allorché avremo analizzato i sintomi presentati in ciascun stato e avremo stabilito la corrispondenza farmacologica, saremo colpiti dal fatto che i rimedi così determinati sono sali differenti di uno stesso acido. Saremo dunque portati a concludere che è l’elemento acido a fornire i sintomi costituzionali comuni e che i differenti stati sono caratterizzati dagli elementi basici. Prendiamo l’esempio di un individuo che presenta la patogenesi del carbonato di calcio (Calcarea carbonica). Quando questo individuo vedrà accentuarsi i suoi disturbi, diverrà successivamente comparabile al carbonato di magnesio (Magnesia carbonica), poi al carbonato di potassio (Kali carbonicum), quindi al carbonato di sodio (Natrum carbonicum), ecc... L’elemento costante rimane l’acido carbonico (elemento costituzionale) mentre l’elemento variabile ad ogni stato è la base. E’ per questo che designeremo questa costituzione con il termine di Carbonica. Sarà lo stesso per le altre costituzioni, e potremo distinguere le costituzioni Sulfurica (grassa e magra) e Fosforica. [...] In ogni costituzione esistono degli stadi (calcico, magnesiaco, potassico, sodico, ecc...), che presentano, oltre ai tratti essenziali della costituzione, dei caratteri peculiari a ciascuna delle basi combinate con l’acido costituzionale. Lo stadio calcico è quello che più si avvicina all’equilibrio biologico [...] Di conseguenza, i rimedi calcici sono indicati più spesso nel bambino, che sta edificando la sua struttura” (Bernard, 1985: 139-141; tr. nostra). Non ci potrebbe essere critica più radicale alle posizioni di Nebel. Secondo l’ipotesi di Bernard degli stadi costituzionali, difatti, esiste – ed è basilare – uno stadio calcico in ogni costituzione; ma non si può parlare di costituzioni calciche, come invece proponeva Nebel. “Non è la base che fa la costituzione, ma l’acido” (Bernard, 1985: 136; tr. nostra).

Nella sua monumentale Matière Médicale Homéopathique Constitutionelle, Roland Zissu assume la classificazione e la concezione evolutiva di Henry Bernard, aggiungendo la distinzione, all’interno di ogni biotipo costituzionale, di uno stadio stenico, di difesa, e di uno stadio astenico, di invasione e cedimento. Per Zissu la costituzione fluorica non è una costituzione di base bensì una costituzione secondaria. Inoltre egli dedica la terza parte (circa centocinquanta pagine)  del quarto volume della sua opera alla sicosi, unico modello reattivo a cui è destinata una sezione autonoma. “La sicosi non è una costituzione. [...] Se le conferiamo un’importanza tale da darle un intero spazio del presente volume, è da una parte in ragione di un’autonomia nosologica originale di cui tenteremo di dimostrare l’esistenza, dall’altra a causa dell’allargamento considerevole che l’attuale nozione di sicosi ha subito dai tempi della concezione miasmatica di Hahnemann (Zissu, 1960: IV, 313; tr. nostra).

La sistematica di Bernard e quella, ancora più articolata, di Zissu costituiscono uno dei tentativi concettualmente più originali e clinicamente più fecondi di dare un assetto razionale alla Materia Medica, che viene così sottratta all’arido ordine alfabetico per divenire la trama di un’intelaiatura clinico-terapeutica. Nelle opere di questi autori, la costituzionalistica omeopatica consente di gettare un ponte tra semeiotica e terapia. Come ogni sistematica, essa è utile se non diventa scopo a se stessa. In altri termini, non si può contestare il fatto che certi rimedi trovano indicazione con un massimo di frequenza presso certi tipi costituzionali; ma negare la prescrizione di un rimedio della serie costituzionale carbonica soltanto perché il paziente è longilineo, nonostante egli sia portatore dei sintomi caratteristici della patogenesi del rimedio, significa avere abdicato al principio di similitudine, che costituisce un fatto empirico e sperimentale, a favore di un dogma, che costituisce invece una camicia di forza ideologica. 
La definizione del tipo costituzionale ha un’importanza difficilmente trascurabile: innanzitutto nell’atto di comprensione generale del paziente; poi nell’affinare la diagnosi, nel precisare la prognosi e nell’orientare la terapia. Dunque il primato, nella scelta del rimedio omeopatico, deve restare alla similitudine, che sarà stabilita tramite l’esercizio di un’attenta semeiotica.

La posizione eccentrica e allo stesso tempo virtualmente ubiquitaria della costituzione fluorica ne evidenzia la potenzialità di combinarsi con una qualsiasi delle costituzioni di base ma anche la mancanza di autonomia. D’altra parte, il modello reattivo sifilitico contrae così stretti rapporti con la costituzione fluorica, arrivando i due quadri a sovrapporsi, che mantenerli separati ingenera soltanto confusione. Infatti, presso ogni costituzione il giuoco combinatorio dei diversi modelli reattivi rende ragione della fisiopatologia del tipo; ma presso la costituzione fluorica l’unico modello reattivo ravvisabile è quello luesinico. Nel mio lavoro Biotipologia (1997/2006) ho fuso il  quadro del modello reattivo e quello della costituzione, abolendo nel contempo il termine sifilitico, quanto mai equivoco. 

Sorge a questo punto un problema: qual è il posto di questa nuova entità, nata dalla fusione di un modello reattivo e di una costituzione? Per la sua potenzialità di movente fisiopatologico, essa meriterebbe di essere inserita tra i modelli reattivi; nessun modello reattivo, però, comprende modificazioni del tessuto elastico e del tessuto osseo, e addirittura peculiari stigmate scheletriche come quelle descritte a proposito della costituzione fluorica. Tuttavia non si tratta neppure di una costituzione stricto sensu, dal momento che ogni costituzione è, per definizione,  innanzitutto descrizione di una fisiologia, che getta la sua ombra lunga su  eventuali tendenze morbose. La cosiddetta costituzione fluorica, però, è in definitiva un insieme di anomalie. Si può definire costituzione un quadro che non presenta situazioni di equilibrio ma soltanto segni di disarmonia? Propongo pertanto di considerare l’esistenza di una componente diatesico-costituzionale fluorica (fluorismo), che può dare segni di sé nell’ambito delle tre costituzioni di base. Il fluorismo non condiziona la morfologia in modo univoco, sebbene vengano descritti più spesso degli individui di piccola taglia, magri e dinoccolati, con segni di senescenza. Il viso è sempre asimmetrico e può esserci una differenza nel colore delle iridi. Le movenze sono poco eleganti e imprevedibili. Le mani sono flessuose, con unghie piccole; quella del pollice ha spesso la forma di un trapezio con base inferiore stretta e slargato in alto. L’abbassamento della volta plantare, con relativo piattismo del piede, e l’alta frequenza di distorsioni dell’articolazione tibio-tarsica sono legati all’iperlassità legamentosa. I denti sono piccoli e triangolari, con smalto di cattiva qualità e carie frequenti; la malocclusione è costante, riscontrandosi di regola, a mio avviso, una II classe di Angle nei fosfo-fluorici e una III classe nei sulfo-fluorici.  La fisiologia fluorica è in realtà una fisiopatologia, condizionata dalla neurodistonia e da una disarmonia distrofica con alterazioni del tessuto elastico, per cui si avranno malformazioni ossee  (esostosi, dismetrie, scoliosi ed altri paramorfismi) e degli organi interni (ptosi, agenesie, ipoplasie, altre anomalie genetiche), varici e talora aneurismi. E’ molto difficile valutare nel giusto senso la psiche fluorica. Possiamo dire che domina la coscienza della propria diversità, che una buona reattività trasforma in uno strumento di seduzione. Nella personalità del soggetto predomina il tratto divergente, che conduce ad un costante anticonformismo, non senza elementi di autocompiacimento. C’è un netto predominio della funzione intuizione, che si pone al servizio di un’intelligenza sintetica, versatile, rapida, che corre il rischio di essere superficiale e incapace di approfondimento. D’altra parte, uno dei tratti salienti della psicologia fluorica è una sorta di nomadismo, metaforico ma a volte anche letterale (tendenza incoercibile, quasi compulsiva, a cambiare luoghi, lavori, relazioni). Vengono in mente le parole di Bruce Chatwin, quando scrive di sé:  “Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due? [...] Che cos’è questa irrequietezza nevrotica, l’assillo che tormentava i greci? [...] Ho una coazione a vagare e una coazione a tornare - un istinto di rimpatrio, come gli uccelli migratori.” (Chatwin, 1996: 94). 
In un soggetto fosforico, che come vedremo nutre aspirazioni “alte”, la presenza di un elemento fluorico porta a spiritualizzare l’esperienza e costituisce la base della creatività.
In un sulfurico grasso, che di per sé ha i piedi ben piantati nella materia, può sollecitare l’ambizione e la ricerca del potere.
Nel carbonico, lento per natura,  diventa un elemento dinamizzante, che nutre di sprazzi di intuizione la sua intelligenza altrimenti pragmatica e analitica. In un certo senso, in qualunque campo di ricerca non ci sarebbe originalità senza la bruciante necessità di battere strade nuove che ascriviamo alla componente fluorica della personalità. Una personalità interamente posseduta dal fluorismo sarebbe senza dubbio psicopatica; ma una che ne fosse totalmente priva non avrebbe luce.  Si tratta di vedere quanto questo aspetto divergente sia integrato in una personalità completa, che sappia esercitare anche i valori della costanza e del pensiero razionale; e a questo proposito non vanno mai sottovalutate le opportunità familiari e ambientali che un soggetto può avere o delle quali viceversa può essere carente.
Per quanto riguarda le tendenza morbose favorite da questa componente costituzionale, oltre ai rischi di psicopatologie, dobbiamo ricordare le patologie ulcerative, la precoce sclerosi vascolare e i disturbi neurovascolari come il fenomeno di Raynaud, infine le malattie caratterizzate da cute secca e fissurata (ittiosi e soprattutto psoriasi).

Bibliografia
Bernard, H.: Traité de médecine homéopathique, Vanden Broele, Bruges 1951/1985.                  
Chatwin, B. (1996): Anatomia dell’irrequietezza, Adelphi, Milano 1996.
Demarque, D. (1981): L’Omeopatia, medicina dell’esperienza, Edizioni Boiron, Milano 2003.
Santini, A.: Omeopatia costituzionale, Istituto di Studi di Medicina Omeopatica, Roma 1994.
Turinese, L.: Biotipologia. L’analisi del tipo nella pratica medica, Tecniche Nuove, Milano 1997/2006.      
Turinese, L.: Modelli psicosomatici. Un approccio categoriale alla clinica, Elsevier Masson, Milano 2009.      
Vannier, L. : La typologie, Doin, Paris 1928.        
Zissu, R.: Matière médicale homéopathique constitutionelle, Boiron, Lyon   1960/1989         


Luigi Turinese



In foto: "Una pupilla nel cielo"

Articolo pubblicato su HIMED – HOMEOPATHY and Integrated Medicine, novembre 2012, Volume 3, Numero 2, pp. 8-10

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