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"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia
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giovedì 3 settembre 2020

"Walking on the wild side. Trame di Dioniso" di Luigi Turinese, Edizioni Magi (Roma, 2020)




Titolo: "Walking on the wild side. Trame di Dioniso"

Autore: Luigi Turinese, 
Editore: Magi Edizioni
Collana: i quadrifogli
Data e Luogo di Pubblicazione: settembre 2020, Roma
EAN: 9788874874354
ISBN: 8874874359
Pagine: 32
Prezzo: 5 €

Quarta di copertina:  Che cosa accomuna la possessione erotica, le dipendenze, gli eccessi di ogni tipo, il pansessualismo che spinge a giocare più ruoli e minaccia le ortodossie morali… il teatro, il carnevale, i travestimenti, l’estasi mistica come quella prodotta dalla musica rock… il profetismo dei leader carismatici, la violenza degli hooligans… l’isteria e la sindrome bipolare? Sono tutte trame di Dioniso, il dio incarnato nel perpetuo fluire della vita con le sue innumerevoli contraddizioni.

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martedì 1 marzo 2011

Le Recensioni di L.T. - "Le grandi figure del Buddhismo", di M. Fuss, J. Lopez-Gay, G.S. Fazion

Michael Fuss, Jesus Lopez-Gay, Gianpietro Sono Fazion, "Le grandi figure del Buddhismo", Cittadella Editrice, Assisi 1995

Si può ricostruire la storia del buddhismo allineando gli avvenimenti che seguirono la morte del Sublime, con particolare attenzione alla formazione delle diverse scuole; oppure, ed è la scelta del volume che presentiamo, delineando la biografia di alcuni personaggi particolarmente rappresentativi.

Attraverso la biografia, genere letterario indubbiamente più accattivante del saggio, entriamo inoltre in contatto con esseri umani che, avendo realizzato la "natura di Buddha", rappresentano un esempio ma soprattutto la speranza che "ce la si può fare".
I quindici maestri di cui il libro si occupa vengono presentati in ordine cronologico, nella sequenza è possibile rintracciare cinque sottogruppi.
Nel primo possiamo collocare i discepoli diretti: Ananda, Sariputta, Maggallana e Pajapati, la zia di Siddharta, da alcuni considerata la prima donna ad entrare nel movimento, e indicata comunque come il modello delle monache buddhiste.
Segue un capitolo dedicato al re Ashoka, vissuto nel III secolo a. C., esempio di politico, dunque di laico, le cui azioni nel mondo sono illuminate dalla luce del Dharma.
Il terzo gruppo comprende gli scolastici, Nagarjuna e Buddhaghosa.
Seguono i rappresentanti delle scuole Huineng, sesto patriarca dello zen; Milarepa, il più grande esponente della scuola Kagyupa del Vajrayana; Homen e Shinran, che hanno legato il loro nome alla scuola giapponese della Terra Pura; Dogen, fondatore del Soto Zen; Nichiren, al cui pensiero, centrato sul Sutra del Loto e sul ritorno all'ortodossia, si richiamano due sette molto attive nel Giappone contemporaneo: il movimento religioso Rissho Koseikai e il movimento politico della Soka Gakkai.

L'ottimo Fazion, di cui ribadiamo la rimarchevole disposizione alla scrittura, oltre ai profili di Huineng, di Milarepoa e di Dogen, cura i contemporanei: il cinese Xuyun, il cui diario autobiografico, "Nuvola Vuota" (Roma 1990) è stato recensito su Paramita n.38
e il giapponese Kodo Sawaki, maestro di Deshimru e di Kosho Uchiyama.
Fazion ha compilato anche il glossario che chiude il volume. Molto utile, e segno di una cura che vorremmo riscontrare più spesso nelle pubblicazioni sul buddhismo, è la biografia posta al termine di ogni capitolo.


Luigi Turinese


In foto: "Incantesimo"


Recensione apparsa nella rubrica "Libri" di "PARAMITA , Quaderni di Buddhismo per la pratica e per il dialogo ", Anno XV, n. 58, Aprile-Giugno 1996

lunedì 20 dicembre 2010

Le Recensioni di L.T. - "Ka", di R. Calasso

Roberto Calasso, Ka, Adelphi Edizioni, Milano 1996

"D'improvviso il cielo fu oscurato da un'aquila. Le sue piume nere, quasi viola, lucenti formavano un mobile sipario fra le nubi e la terra. Appesi ai suoi artigli, un elefante e una tartaruga anch'essi immensi e irrigiditi nel terrore, sfioravano le cime. Sembrava che l'uccello si apprestasse a usarle come punte di coltelli per sventrare le sue prede" (pag. 5).
Il folgorante incipit di questo magnifico saggio in forma di narrazione descrive il volo di Garuda, il mitico personaggio con becco e artigli di rapace e corpo di uomo. E tra due voli di Garuda si svolge tutta l'imponente narrazione fino alla suggestiva immagine che chiude il libro. "Sollevò il rostro, aspirò l'aria che filtrava dal fogliame. Ancora una volta, era tempo di spiccare il volo" (pag.462).

Erudito e filologo, filosofo ma soprattutto scrittore, Roberto Calasso non racconta semplicemente il mito ma ne scandaglia i nessi, come già aveva fatto con i due libri precedenti che con Ka compongono un'ideale trilogia: La rovina di Kash (Adelphi 1983) e Le nozze di Cadmo e Armonia (Adelphi 1988).
Al sacrificio di Prajapati si faceva cenno già in "Kasch", in un capitolo ("Elementi del sacrificio") in cui si tratteggiava il passaggio dal mondo vedico all'universo buddhhista. E Prajapati, letteralmente "Signore della creazione", è il protagonista di Ka. Ka, in lingua sanscrita è il pronome interrogativo "chi". "Chi (Ka) è il dio a cui dobbiamo offrire il sacrificio?" si legge ripetutamente nell'inno 121 del Rig-Veda.

"Prajapati era l'unico autoesistente" (pag.37). Da lui promana tutta la creazione. E' emozionante il susseguirsi di emanazioni da Prajapati, che fa scaturire il molteplice dall'unione del suo "doppio" femminile: Vac, la Parola. Man mano che crea Prajapati si sposta: diversamente dal Dio delle religioni del Libro che crea e rimane potente al cospetto della creazione, la forza di Prajapati si trasferisce nelle sue creature, in una sorta di passaggio dalla trascendenza all'immanenza: viene da paragonare questo tipo di creazione al Big Bang, in seguito al quale l'energia creatrice, da compatta e puntiforme, diviene polverizzata e diffusa, in continua espansione.

E' l'arciere Rudra, dio vedico della tempesta, a incaricarsi di uccidere il Padre, impegnato in un coito con la figlia Usas, l'Aurora; Rudra, sintesi di elementi prevedici, non ariani, che verrà tardivamente assimilato a Shiva.
Sono molti i capitoli del libro che meriterebbero una disamina approfondita. Qui possiamo solo citarli. Il bellissimo capitolo VII, per esempio, dedicato al sacrificio del cavallo (ashvamedha) e ancora il XII e il XIII, dei quali Krishna è il protagonista indiscusso. Infine il XIV, particolarmente interessante per i lettori di PARAMITA, dedicato al Buddha, che muove dal concepimento del Sublime sino alle sue ultime parole: "Operare senza disattenzione" (pag. 456).

Chiudono il volume una citazione delle fonti e un approfondito glossario, che ricopre anche la funzione di indice analitico.


Luigi Turinese


In foto: "La perfezione è nei contrasti"


Recensione apparsa nella rubrica "Libri" di "PARAMITA , Quaderni di Buddhismo per la pratica e per il dialogo", Anno XVI, n. 61, Gennaio-Marzo 1997

venerdì 26 novembre 2010

Le Recensioni di L.T. - "Le religioni orientali", di R. Girault

René Girault, Le religioni orientali, Neri Pozza Editore, Vicenza, 1997

Oggi che le ore scolastiche dedicate alla religione comprendono talora uno sguardo sulle altre tradizioni religiose, questo libro di Girault potrebbe figurare tra i libri di testo più efficaci e obiettivi.

L'autore, con un atteggiamento che appartiene alla migliore eredità del Concilio Vaticano II, prende le mosse da una prospettiva cattolica che non nega le differenze e finanche le incomprensibilità.
Riprendendo la distinzione di Zaehner tra religioni profetiche e religioni mistiche, Girault descrive queste ultime (induismo, buddhismo e taoismo), dedicando l'ultimo paragrafo di ogni capitolo all'incontro e alle possibilità di dialogo con il cristianesimo. Il quinto capitolo è dedicato al ruolo del cristianesimo nel dialogo interreligioso. "Il dialogo interreligioso" - scrive Girault (pag. 1236) -"ci costringe ad osservare il cristianesimo più da vicino".
Opportune citazioni dai testi fondamentali e note antropologico-culturtali su templi, feste e culti rendono più accessibili le diverse tradizioni.



Luigi Turinese


In foto: "Ortogonia"

Recensione apparsa in "PARAMITA, Quaderni di Buddhismo per la pratica e per il dialogo", Anno XVI, n.65, Gennaio-Marzo 1998

lunedì 4 ottobre 2010

Le Recensioni di L.T.- "Il divino amante" di G. Milanetti

Giorgio Milanetti: "Il divino amante", Ubaldini Editore, Roma 1988


La preoccupazione soteriologica - vero e proprio "leit motiv" di tutta la speculazione indiana - conobbe forme ed espressioni talora assai diverse ma convergenti su un punto fondamentale: la salvezza è possibile solo attraverso un completo abbandono del sé. Il trascendimento dell'ego che nella sua accezione dell'anatta buddhista trova una radicalizzazione senza appello, si può dunque considerare come il minimo comun denominatore delle filosofie soteriologiche dell'India. Poiché ogni scuola, e finanche ogni singolo spirito, ha bisogno di una propria via di liberazione,si sono andati tracciando tre sentieri principali, percorsi talvolta singolarmente, talvolta combinati tra loro. Si tratta della via della gnosi (liberazione attraverso la conoscenza), della via della devozione (liberazione attraverso l'amore incondizionato per Dio) e della via dell'ascesi (liberazione attraverso le varie tecniche dello yoga).

Al secondo di tali sentieri è particolarmente dedicato questo accurato studio di Milanetti, il quale non manca di sottolineare come le espressioni più mature e più piene della bhakti (devozione) siano sorrette da una incrollabile disciplina(ascesi) e rese limpide e rese limpide dalla chiara luce del discernimento(gnosi).


La prima organica formulazione della dottrina della bhakti si ritrova nella Svetasvatara Upanishad e pervaso di spirito devozionale è uno dei libri-chiave dell'induismo, la Bhagavad Gita. Tuttavia lo studio di Milanetti che insegna lingue arie medioevali dell'India, è focalizzato appunto sul misticismo medioevale, scarsamente interessato a problematiche filosofiche e, semmai, imparentato con la poesia e il teatro, usate come arti di supporto ai culti devozionali.
Si veda a questo proposito il Gitagovinda di Jayadeva (disponibile anche in traduzione italiana) vero e proprio modello della letteratura erotico-poetico-mistica. Agli elementi della psicologia erotica si rifà anche la teologia che sottende questi movimenti spirituali: l'ebbrezza di Dio, Passsione oltre le passioni, si esprime col linguaggio pieno e caldo degli amanti.
Milanetti descrive alcune scuole medioevali, per lo più poco conosciute dai non addetti ai lavori: ad esempio i Baul del Bengala (XIII secolo) o i Sant Nirgun, i "bhakta" più "sofisticati", che per evitare sclerotizzazioni su un'immagine usavano attribuire all'Assoluto nomi diversi e contrastanti.

Il misticismo dei Sant presenta non pochi punti di contatto col Sufismo, cui è dedicato un intero capitolo del libro. Il Sufismo, elevata espressione mistica nata in area islamica, trovò in India terreno particolarmente fertile per certe organiche affinità che in taluni casi si approfondirono sino a produrre assimilazioni e sintesi poderose. Basterà qui ricordare la grande simiglianza tra la pratica del dhikr ("ricordo" del nome di Dio) e la ripetizione del nome propria del mantra-yoga e del nam-jap, forma più elevata ed emotivamente più trascinante della devozione germogliata in ambiente induista. Milanetti non manca di suggerire puntuali comparazioni con la mistica cristiana.

Questo breve libro, cui un eccellente apparato di note conferisce un indiscutibile valore scientifico, si raccomanda a chi vuole oltrepassare la fruizione della filosofuia indiana come colorato caleidoscopio evocatore di atmosfere per attingere la profondità, e, perché no, anche la complessità.


Luigi Turinese



In foto: "Un mazzolin di fiori…"


Recensione apparsa su "PARAMITA , Quaderni di Buddhismo", Anno VII, n. 28 , Ottobre-Dicembre 1988

domenica 3 ottobre 2010

Le Recensioni di L.T. - "Gandhi commenta la Bhagavad Gita"

"Gandhi commenta la Bhagavad Gita", Edizioni Mediterranee, Roma 1988

Nella Bhagavad Gita (V-III secolo a. C.) sono condensate diverse dottrine filosofico-religiose dell'induismo di liberazione; in essa sono presenti passi che avvalorano una concezione impersonale dell'Assoluto accanto alla glorificazione dell'Assoluto personale. Infine, alcuni autori vi hanno ravvisato influenze buddhiste (si trova citato - tra l'altro - il termine nirvana).
E' logico che un'opera così ricca di spunti abbia ispirato tanti cercatori di verità; ed è logico che ciascuno di essi abbia trovato nella Gita spunti e conferme di temi peculiari alla propria ricerca.

Così i diversi commentatori della Bhagavad Gita ne offrono un'interpretazione da diverse prospettive, che spesso si completano a vicenda. Al Mahatma Gandhi sembra interessare particolarmente - com'è ovvio - il karma-yoga (lo yoga dell'azione, la cosiddetta "via delle opere"). "Il nostro unico scopo è conoscere Dio e realizzare l'irrealtà di tutto il resto. La via per conoscerlo non è quella di stare per terra con le gambe incrociate, ma è lavorare con spirito disinteressato". "Noi possiamo solo lavorare e lottare".
Il commento, dunque, ribadisce a più riprese un'esaltazione del lavoro compiuto per dovere, disinterassatamente, come mezzo per non soffrire gli effetti del karma. Per Gandhi, l'essenza della Gita sta nel tentativo di conciliare doveri sociali e doveri morali; e questo ne fa un'opera universale. "Questa è un'opera che può essere letta da persone di tutte le fedi religiose. La Gita non si pone dalla parte di nessun punto di vista settario. Il suo non è che un insegnamento di etica pura". Non sempre possiamo essere d'accordo col radicalismo di certe posizioni gandhiane (e sulla Gita, d'altra parte esistono commenti ben più profondi e filosoficamente acuti di questo - certamente riduttivo - di Gandhi); ma sempre, anche a proposito delle affermazioni che ci sembrano più datate o più opinabili, colpisce la disarmante umiltà di chi le pronuncia. Ispira tenerezza l'immagine del Mahatma che, giorno dopo giorno, per oltre nove mesi forza la propria natura anti-intellettualistica per condividere con gli ospiti del suo Ashram l'immortale sapienza della Gita.

Ci piace ricordare, infine, la curiosa antologia riportata nell'appendice di questo volume, in cui diversi autori esprimono i ll loro pensiero su Gandhi.In occasione del suo settantesimo compleanno (2.10.1939). Profondità e completezza di dati emergono dagli interventi di Radakrishnan e Comaraswany, ma vere e proprie "chicche" sono le comunicazioni di Einstein e soprattutto di Maria Montessori ("Gandhi e i bambini").

Luigi Turinese



In foto: "Il riposo del guerriero"


Recensione apparsa su "PARAMITA , Quaderni di Buddhismo", Anno VII, n. 28 , Ottobre-Dicembre 1988

mercoledì 29 settembre 2010

Le recensioni di L.T. - "La meditazione theravada - la trasformazione buddhista dello yoga" di W. L. King

Wiston L. King: "La meditazione theravada - la trasformazione buddhista dello yoga" , Ubaldini Editore, 1987


La cultura non procede per salti: anche i rivolgimenti culturali più radicali portano con sé espliciti segni del modello cui si contrappongono o di cui rappresentano l'evoluzione. Si pensi al cristianesimo, che nasce come ramo eterodosso dell'ebraismo, ma eredita un pesante bagaglio di tradizione. Si pensi a quanto, nell'avvicendarsi dei periodi storici, le radici di una fase di espansione si possano ravvisare nel precedente periodo "buio". All'origine, il buddhismo si presenta negatore delle caste, dell'anima individuale, della speculazione metafisica, del ritualismo brahmanico. D'altra parte su almeno due punti c'è convergenza tra il messaggio del Buddha e il pensiero upanishadico a lui contemporaneo: la considerazione dell'universo dell'esperienza spazio-temporale come privo di realtà assoluta e in ultima analisi, quindi, insoddisfacente; l'idea che la meditazione rappresenti il metodo elettivo per trascendere l'insoddisfazione.
Il buddhismo, dal conto suo, radicalizzerà il primato accordato all'esperienza e accentuerà il carattere doloroso del samsara. In considerazione di quest'ultimo fatto si verifica un cambiamento nel sistema di valori tradizionale: in pratica, il buddhismo mette tra parentesi i valori riconosciuti dal brahmanesimo (l'aspirazione al benessere materiale e alla gratificazione sensoriale e il dovere sociale: ariba, karma e dharma) per accettare pienamente solo il noksha (liberazione finale), la cui piena realizzazione nel contesto buddhista sarà il nirvana.

Come si vede i rapporti tra induismo e buddhismo, sin dalle origini, sono ambivalenti e tali resteranno nel corso della loro lunghissima storia. Tale ambivalenza si palesa, oltre che sul piano storico, anche su quello metodologico. Nel sistema meditativo del buddhismo theravada, sottolinea il King, è presente un elemento non buddhista: la tecnica brahmanico-yogica dell'induzione di stati di trance (jhana). I jhana sono modalità di concentrazione meditativa che presentano con lo yoga similarità di metodo ma una cruciale differenza di finalità: sono infatti strumentali al raggiungimento del nibbana. I jhana, sia pure in forma sottile, contengono un residuo di individualità (atta) e quindi sono subordinati al fine ultimo del buddhismo, l'Illuminazione (esperienza di anatta).

Nel theravada, accanto ai jhana, fa la sua comparsa una tecnica squisitamente buddhista, la vipassana, che colora di consapevolezza ogni aspetto della contemplazione buddhista. I jhana purificati dalla visone profonda della vipassana non sono la stessa cosa di una trance yoga. La vipassana è più adattabile della disciplina dei jhana, e perciò più utilizzabile da parte dei laici.

La vipassana, inoltre, diversamente dall'esperienza dei jhana che sono stati di assorbimento di per sé privi di comprensione, costituisce anche il contesto della concezione buddhista del mondo. Come a dire che con la vipassana il meditante ha accesso all'anicca-anatta-dukka, mentre l'esperienza dei jhana separati dal contesto potrebbe essere ingannevolmente interpretata come esperienza del nibbana. Tramite la vipassana, in altri temini, il meditante percepisce l'impermanenza anche dei jhana.
Il bel libro di King si snoda attraverso sette capitoli completati da una bibliografia critica e da un interessante articolo che descrive l'esperienza del Risveglio di una laica contemporanea.

Luigi Turinese



In foto: "Firmamento terrestre"


Recensione apparsa su "PARAMITA , Quaderni di Buddhismo", Anno VII, n. 25 , Gennaio-marzo 1988

lunedì 27 settembre 2010

Le Recensioni di L.T. - "Cristianesimo e religioni universali" di H.Küng, J.Van Ess, et Al.

"Cristianesimo e religioni universali" di Hans Küng, J. Van Ess, H. Von Stietencron, H. Bechert , Arnoldo Mondadori Editore

Questo ponderoso lavoro è il resoconto di dodici lezioni dialogiche tenute nel 1982 all'Università di Tubinga, dove Hans Küng insegna teologia ecumenica. Ad ognuna delle grandi religioni studiate e confrontate con il cristianesimo (islamismo, induismo, buddhismo), sono dedicate quattro lezioni, composte ciascuna da una trattazione esplicativa da parte di un orientalista specialista della materia e della risposta di Küng in chiave di comparazione con il cristianesimo. L'importanza capitale di questo lavoro consiste nell'aspirazione ad allargare i confini dell'ecumenismo da una prospettiva interconfessionale ad una prospettiva interreligiosa. L'obiettivo dichiarato è il risveglio di una coscienza ecumenica globale, che conduca non già alla creazione di una religione mondiale unitaria, ma ad una pacificazione autentica.

Le premesse e gli intenti possono costituire di per sé una giustificazione del lavoro, peraltro di livello notevolissimo nel suo insieme. L'informazione è ricca anche nella sezione concernente il buddhismo, sulla quale è possibile tuttavia fare qualche riflessione critica. A questo proposito si può leggere l'articolo "Il dialogo interreligioso come guida spirituale " di Corrado Pensa (PARAMITA n 19), la cui parte iniziale è dedicata ad evidenziare i punti deboli dell'argomentazione di Küng: un'implicita considerazione della supremazia del cristianesimo e una confusione tra l'ingiunzione buddhista a superare l'attaccamento e una generica richiesta a superare la volontà di vivere. D'altra parte lo sforzo dialogico è qui operato da un cristiano, non da un cercatore libero, e non si può uscire più di tanto dalla propria formazione culturale.

Per comprendere meglio questo punto, basta rileggere il "Misticismo cristiano e buddhista" di Suzuki, criticabile quanto si vuole, ma assolutamente pioneristico (1957). Accanto a pagine di luminosa interreligiosità si trovano passi che testimoniano della penosa difficoltà di Suzuki (che era sì un "puro di cuore", ma un "puro di cuore" giapponese) a comprendere certi elementi cristiani. "Il cristianesimo presenta alcune cose di difficile comprensione tra le quali soprattutto il simbolo della crocifissione. Il Cristo crocifisso è una visone che io non posso fare a meno di associare al sadico impulso di una mente malata... Quale contrasto tra l'immagine crocifissa del Cristo e quella del Buddha giacente su di un letto e circondato dai suoi discepoli e da altri esseri umani e non umani!" (op.cit. pag. 106)

Comunque, se è lecito aspettarsi frutti sempre più maturi dall'incontro tra le grandi religioni universali, anche l'obiettivo minimo che Küng si pone, cioè di tracciare un bilancio provvisorio del dialogo, sembra tutt'altro che trascurabile. Affinché l'idea - e la pratica - di un ecumenismo allargato diventi così familiare da rendere sempre più desiderabile l'esercizio del dialogo come avventura dello spirito.

Luigi Turinese




In foto: " Floral Sputnik"


Recensione apparsa su "PARAMITA , Quaderni di Buddhismo", Anno VII, n. 25 , Gennaio-marzo 1988

giovedì 23 settembre 2010

Fascino e rischi del buddismo in Occidente

Conferenza di Luigi Turinese, tenuta presso il Centro culturale L’Areopago della parrocchia di S.Melania in Roma il 30 maggio 2005

Il testo che mettiamo a disposizione on-line è la trascrizione della conferenza tenuta da Luigi Turinese, presso il Centro culturale L’Areopago della parrocchia di S.Melania in Roma il 30 maggio 2005. Il testo non è stato rivisto dall’autore. Conserva pertanto anche i tratti e lo stile di una conversazione trascritta dalla viva voce.

L’Areopago

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Diamo il benvenuto a Lugi Turinese, psicoterapeuta analista junghiano che ha curato l'anno scorso un libro pubblicato da Bollati Boringhieri, dal titolo “Caro Hillman”. Sono 25 lettere indirizzate ad Hillman da varie persone del mondo della cultura, tra le quali Carotenuto, scomparso da poco, Franco Battiato ed altri. Io ho avuto la gioia di conoscere Luigi un po'’ di tempo fa, in occasione della decisione di suo figlio di ricevere il battesimo. Poi è andato ad abitare in un altro quartiere e ci siamo visti in qualche occasione e abbiamo parlato di buddismo. Aveva curato sulla rivista dell'’Unione Buddista Italiana una serie di recensioni, in particolare di libri sui rapporti tra il cristianesimo ed il buddismo, testi cristiani contemporanei che parlavano del buddismo e testi buddisti che parlavano del cristianesimo. Ho pensato di invitarlo perché ci introduca su questo tema: “il buddismo in Occidente”.
Siamo in un contesto di dialogo religioso sempre più necessario in cui deve essere chiaro qual è l’identità di ognuno. Io sono convinto che il dialogo tra le religioni non possa avvenire tra persone che fingono di non essere quello che sono. Ognuno deve anzi essere profondamente consapevole ed anche fiero di ciò che è, ma, insieme, coltivare un grande desiderio di conoscenza, di comprensione dell'altro diverso da sé. La famosa “intercultura” della quale tanto si parla nelle nostre scuole, non significa il silenzio o l'’indifferenza sulle particolarità delle culture, ma, anzi, l'approfondimento di ognuna di esse e, chiaramente, anche del cristianesimo.
In particolare per il buddismo credo si ponga in maniera ancora più peculiare il problema di quale sia la sua identità, di quale sia la sua storia. Sapete che il cristianesimo crollerebbe se venissero a mancare alcuni pilastri storici, poiché esso è profondamente legato alla storia del personaggio Gesù. Abbiamo fatto degli incontri quest’anno sul Gesù storico, che abbiamo già messo a disposizione on-line sul nostro sito http://www.santamelania.it/. Ascolteremo da Luigi Turinese quali siano i pilastri sui quali si fonda il buddismo, se sia costitutivo il suo radicarsi nella reale vicenda del Buddha storico, quale sia il suo statuto di religione, quale la concezione buddista della divinità.

Luigi Turinese
Grazie, sono contentissimo di essere stato invitato da don Andrea perché è un grosso personaggio e credo che nella sua magnanimità, come tutte le persone grandi, proietti la sua grandezza all’esterno e mi abbia sopravvalutato.
Intanto il titolo che ha dato don Andrea è più bello di quanto lui abbia detto ora. Il titolo esatto è “Fascino e rischi del buddismo in Occidente”.
Ogni volta che si parla di un tema è importante esaminare bene proprio il titolo, perciò io partirei da qui. Che vi sia un fascino del tema è indubbio: c'è tanta gente che quasi se ne fa un vanto di spostarsi verso Oriente. La cosa è cominciata probabilmente già dall’800 in Europa, “ex Oriente lux”, e poi Schopenhauer e poi tutti gli altri. Nel nostro quarto di secolo, soprattutto alla fine del secolo scorso, certamente la versione che è arrivata delle pratiche orientali è stata filtrata dal consumismo occidentale. Questo lo dico immediatamente. Il buddismo è infatti una disciplina molto complessa che arriva qui edulcorata e semplificata. Tutto quello che va sotto il nome di new age ingloba anche delle pratiche orientali mescolate, delle quali il buddismo diventa la versione un po' più “in”. Sapete che esiste una setta buddista giapponese, che misteriosamente si è espansa in tutto l'’Occidente, la Soka Gakkai, che è una setta nata nel 1200, diventata famosa in occidente per l'’aggressività delle sue proposizioni, abbracciata facilmente da persone dello spettacolo e dello sport, il più famoso dei quali è Roberto Baggio. Vedremo che la versione del buddismo che così ci arriva è molto, troppo semplificata. Oltretutto diciamo pure che il buddismo ha, per sua stessa natura, una grande duttilità. Cambia abbastanza i suoi connotati ben più di quanto abbia fatto, per esempio, il cristianesimo, a seconda delle zone in cui si è trapiantato.

Il buddismo nasce in India tra il VI ed il V secolo a.C. e oggi in India praticamente non c'’è più.
Il buddismo nasce per opera di un personaggio che indubbiamente sfuma nella leggenda anche se probabilmente è un personaggio storico, però non vi sono evangelisti come per il cristianesimo. In quel lasso di tempo nel quale lavoravano alacremente i filosofi ad Atene, un principe che si chiamava Siddharta Gautama nacque e visse negli agi per una trentina di anni. Ci sono leggende sulla nascita che naturalmente era miracolosa, come in molti fondatori di religioni, e anche sull'’aneddoto che vuole che alla sua nascita l'’astrologo di corte predicesse un futuro da condottiero, oppure da condottiero di anime, da fondatore di religione. Il padre, che era un nobile, non voleva che si avverasse questa seconda ipotesi e quindi lo tenne nella bambagia, gli fece conoscere solo gli aspetti felici della vita. Un giorno però questo principe esce dal palazzo, si fa un giro per il regno e incontra, nell'ordine, un malato, un vecchio ed infine un funerale, tre cose che non aveva mai visto. Rimane molto turbato e sulla via del ritorno incontra un asceta. Questi quattro incontri lo turbano e lo trasformano, lo mettono di colpo in contatto con il dolore e con la morte. Va in casa, nel palazzo, dà un'occhiata alla moglie ed al figlio che dormono, prende un cavallo e scappa. Siddharta aveva una moglie, faceva una vita da nobile, ora esce dal palazzo e va a rifugiarsi per anni presso alcuni asceti, ma questa via non lo soddisfa. Ritiene che quella condizione di mortificazione di sé non porti a molto. Comincia a meditare, fa voto di non muoversi dalla stessa posizione fino a che non avrà capito. Quando capisce si “risveglia” - perciò si chiama Buddha che significa “il risvegliato”. Buddha è quindi un epiteto, un'’attribuzione successiva. E' un aggettivo. E questo vuol dire che chiunque può essere risvegliato: la natura di Buddha è potenzialmente di chiunque. Passeranno altri 45 anni di predicazione. Fonderà una comunità che si chiama Sangha ed una dottrina che si chiama Dharma. Vi do pure ora i termini tecnici - ve la voglio fare difficile - in modo che ricordiate che tutte le versioni che arrivano facilitate non sono buone.
Alla morte del Buddha c’è una sistematizzazione del pensiero e la stesura di quello che si chiama tripitaka (o tipitaka in pali). Il canone buddista è formato da una quantità enorme di libri. Tripitaka in sanscrito significa “tre canestri” perché erano originariamente rotoli nei canestri. Il Suttapitaka (il canestro, “pitaka”, dei discorsi), il Vinayapitaka (il canestro della disciplina monastica), l'’Abhidammapitaka (il canestro della dottrina). In realtà quest'’ultimo termine non è sanscrito, ma è pali, una lingua parlata. Diciamo che il pali sta al sanscrito come l'italiano volgare sta al latino. In sanscrito si dice dharma, in pali damma. In sanscrito si dice sutra, in pali sutta, in sanscrito si dice nirvana, in pali nibbana. Insomma il pali è “burino”!

Altre parole chiave sono Hinayana e Mahayana: yana vuol dire veicolo, hina piccolo, maha grande.
La prima fase del buddismo è ristretta a pochi - il piccolo veicolo - e comprende una via soprattutto per monaci. Ideale del buddismo Hinayana è “il santo” - diremmo noi - che però denota un essere avulso dal contesto sociale.
A partire dal II secolo d.C. si sviluppa un buddismo molto più popolare, anche se ricco di speculazioni filosofiche di altissima qualità, che propone un veicolo più grande, il Mahayana. Maha significa grande - pensate a Gandhi chiamato Mahatma che vuol dire grande anima o anche alla parola maharaja che vuol dire grande re. Il Mahayana è un grande veicolo che è intanto più aperto, meno puramente monastico, e propone un ideale terminale di uomo che non è il semplice santo che si illumina di per sé e diventa Buddha e se ne va, ma si chiama Bodhisatva che è una particolare qualità di essere umano che pur avendo compreso tutto decide di non entrare nel Nirvana, ma di tornare in un’incarnazione successiva per aiutare tutti gli altri esseri umani. Don Andrea potrebbe essere un bodhisatva in questa accezione!

Cosa capisce Siddharta tanto da meritare la qualifica di risvegliato?
Ve lo racconto così come lo racconta lui. Quattro enunciati secchi, chiamati quattro nobili verità.

Tutto è dolore: il buddismo è tosto, ve lo dico in modo che possiate riconoscere i falsi buddhismi. Non c'è altro che dolore, tutta la vita non è altro che sofferenza, malattia e morte. Anche quando sono felice e contento mi prende dopo un po’ l'’insoddisfazione e il timore di perdere ciò che ho. Diventa dunque dolore anche l’apparente brandello di felicità.

Vi è una causa di questo dolore
. La sete, il desiderio di avere ancora dell'’altro, dovuto ad una ignoranza metafisica. Non vedo le cose come stanno, ma voglio solo per me, c’è il senso di separatezza dell’io dagli altri.

Vi è una cessazione del dolore. Quindi il dolore è onnipresente, ha come causa il desiderio egoistico. Può cessare, ma come? C’è un sentiero che conduce alla cessazione del dolore che è il sentiero del Buddha.

La via che ci porta fuori dal dolore è il retto ottuplice sentiero. Gli indiani sono dal punto di vista filosofico estremamente analitici. Anche il cosiddetto Kamasutra, che tutti pensano sia un manuale erotico, in realtà è un noiosissimo elenco non tanto di posizioni quanto di qualità. Il sanscrito è complicatissimo, ha 48 suoni diversi, ho provato anche a studiarlo, ma è difficilissimo. Una lingua complicata vuol dire anche un pensiero complesso.

Vediamo il retto ottuplice sentiero:
saggezza
1- Retta visione
2- Retto pensiero
etica
3- Retta parola
4- Retta azione
5- Retta vita
disciplina mentale
6- Retto sforzo
7- Retta attenzione
8- Retta concentrazione


Nel cristianesimo direi che la parte centrale storicamente, ma qui deve correggermi don Andrea, è soprattutto l’etica. Naturalmente non ci nascondiamo il fatto che esiste una pratica meditativa cristiana molto forte, ma direi che nell’evoluzione storica più popolare del cristianesimo si porta ad esempio soprattutto il blocco centrale, quello etico.

La meditazione buddista è invece molto importante, quindi la terza parte è al centro, in una dimensione meditativa che significa una grande attenzione che si persegue attraverso delle tecniche. Si riesce, secondo l'insegnamento buddista, ad avere, attraverso la meditazione, quello stato di calma mentale che permette le visioni rette di come stanno le cose. E cosa scopre il meditante che ha lavorato bene e che contempla anche, nel suo lavoro meditativo, un'’etica piuttosto rigorosa? Ho elencato alcuni concetti chiave del buddismo in modo che la cosiddetta dottrina ci appaia come l'esito di un percorso di comprensione. La prima è una verità abbastanza sconvolgente per noi occidentali:

Anatta (l’inesistenza di un io separato). Per i buddisti l’io non c'’è. Questo non vuol dire che io non esisto, ma la percezione di questo come un “io” separato da tutti gli altri è una falsa percezione, dovuta all’ignoranza. Allora quello che io aggrego a me e penso come Luigi Turinese è un aggregato di sensazioni, sentimenti e ricordi che nel tempo si incrosta in una dimensione egoica che abbiamo l’abitudine di chiamare Luigi Turinese o Andrea Lonardo. Non esiste un Io separato. Questo comporterà dei grossi problemi nella reincarnazione, perché la prima cosa che si chiede ad un buddista è: ma allora chi è che si reincarna?

Anicca (non esiste nulla di permanente). Questo concetto è più vicino a noi se non altro perché conosciamo la filosofia greca: Eraclito, panta rei. Tutto scorre, non c'è nulla di permanente. Anche ciò che sembra più antico e strutturato è soggetto a passare.

Samsara (La vita ordinaria fatta di continue nascite e morti). Il buddismo sta all'’induismo come il cristianesimo sta all'ebraismo. Cioè il buddismo si configura come un ramo eterodosso dell’induismo. Allora alcuni concetti li prende da lì, come quello di karma. Il karma è fondamentalmente una legge di azione-reazione. Faccio una cosa e produco un effetto. Questo è vero, lo possiamo vedere nelle vite di chiunque. Solo che per gli indiani, che hanno un tempo ciclico, questo effetto non si ferma con la morte fisica, ma continua anche dopo. Quindi produrre un effetto dopo l'altro può portare ad incarnazioni successive che sono effetto a loro volta della vita precedente. Su un piano banale, se mi comporto bene mi reincarno meglio, però non è tanto un concetto di retribuzione, di pena. Non c'è nessuno che dice: “Vai all'inferno”, ma ci vado da solo, nel senso che se ottundo la mia comprensione al punto che muoio totalmente ignorante in senso metafisico, la successiva incarnazione mi vedrà in una forma vitale più ottusa. Addirittura una forma animale. Nel buddismo c’è una eredità di questo concetto di karma e più o meno esiste anche lì il concetto di reincarnazione, comunque una ruota di nascite e di morti. A proposito di reincarnazione ho letto un articolo di Pietro Cantoni, di orientamento cristiano. Per noi occidentali, o almeno per gli occidentali più superficiali, la reincarnazione appare abitualmente come una cosa positiva: si torna a vivere. Per un indiano non va bene questa cosa: il massimo della sciagura che si possa augurare a qualcuno è: “Ti reincarnerai e tornerai”. Non vogliono tornare! Perché, se tutto è dolore, ricomincio daccapo. L'obiettivo finale di liberazione per un buddista è non incarnarsi mai più, non tornare. Noi che stiamo benino, consumisti come siamo, pensiamo alla reincarnazione e ci piace molto l'’idea delle religioni orientali, così si torna! L'obiettivo finale è invece l'’estinzione, il Nirvana.

Nirvana. Per certi versi il Nirvana è l'antitesi del Samsara. Non vi racconto le evoluzioni filosofiche successive che vedono uno come lo sfondo dell'altro, ma per semplificare vi basti sapere che il Samsara va fuggito come la morte. E la nascita peggio ancora perché è l’esito di un atto di ignoranza che precedentemente non mi ha portato a vedere come stanno le cose e quindi non mi ha svegliato. Il risveglio coincide con la fine del Samsara e l'’entrata nel Nirvana (espirazione, estinzione). Il Nirvana è molto desiderato.



Pratitysaasamuptada (dodici punti uno concatenato all'’altro, l'’ultimo si chiama avidya che significa ignoranza). E’ un nesso causale implacabile che fa vedere come dalla nascita fino all'’ignoranza e quindi poi ad una rinascita si entra in un vortice infernale di rinascite continue. Noi possiamo dire, psicologicamente, che ogni nostra vita è un' infernale ruota di nascite e morte, illusioni e disillusioni, piccole nascite e piccole morti. Per loro vale nel tempo ciclico dell'’eternità, è una visione spaventosa. Quando capiamo quali sono tutti questi nessi, non c'’è più ignoranza, ma saggezza e si arriva alla visione della realtà come vuoto.

Sunya (Vuoto), caratteristica fondante della realtà. Dobbiamo fare attenzione al significato esatto dei termini, noi siamo occidentali e quando diciamo vuoto pensiamo alla noia e agli sbadigli. Vuoto è invece un concetto che allude alla non sostanzialità delle singole cose. Nessuna cosa è sostanzialmente esistente, se non in relazione a tutte le altre. Quindi il fondamento ultimo della realtà è il vuoto.

Abbiamo visto in questa prima parte il principe Siddharta che si illumina - VI-V secolo a.C. Muore ad ottant’anni, probabilmente per l'’ingestione di carne avariata. Non muore sulla croce, ma di morte più o meno naturale. Morendo va nel Nirvana. In un testo buddista si legge: “Dopo la mia morte siate per voi stessi la vostra isola, il vostro rifugio” (Digha-nikaya, II). Lascia ai monaci piangenti questa ingiunzione. Buddha è un fondatore di religione, una religione molto filosofica e psicologica, ma non è Dio, non si proclama Dio. Non solo, ma il buddismo in qualsiasi manuale è definito una religione atea. Questo è discutibile: il Buddha riconosceva più come metafore che come sostanziali realtà, proprio perché la realtà gli sembra insostanziale, alcune divinità dell’induismo, così tanto per tenerle buone. Ma del problema di Dio non ha mai voluto parlare perché le questioni metafisiche, a lui che era il medico, sembravano una perdita di tempo. Nel canone buddista ci sono varie storie del genere, la principale delle quali è questa. All'’ennesima domanda: “Cosa c’è dopo la morte? Ma c'è un Dio?”, lui replicava in modo secco raccontando di quell'’uomo che viene colpito da una freccia. Quell'’uomo quando viene colpito da una freccia e qualcuno va a soccorrerlo, non chiede solo di essere soccorso? Pensate che cominci a chiedere: “Ma com'’era quello che ha scoccato la freccia? Era alto o basso? Raccontatemi com'’era”.
No, non chiede questo, vuole solo essere liberato dal dolore. Quindi fondamentalmente taglia con le questioni metafisiche portando su una sfera pratica la sua predicazione.

Nel vangelo di Giovanni invece, una delle cose che dice Gesù è questa: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv. 13,34). Vedete la differenza enorme con la frase lasciata da Buddha prima di morire: “Dopo la mia morte siate per voi stessi la vostra isola, il vostro rifugio”. Nel cristianesimo c'è una prospettiva intersoggettiva, interrelazionale, che nel buddismo originale non c’è.
Vi dico questo perché credo che sia essenziale il problema sollevato da don Andrea sull'’identità. Lo stesso Dalai Lama dice: “Fate attenzione alle facili conversioni perché sarebbe come mettere su un corpo di capra la testa dello yak”. Viene fuori un mostro. Questo dell'’identità è un grande problema. Il cristianesimo, per come l'’ho capito, è molto relazionale. Intanto c'’è il concetto di Trinità, che è un concetto di tipo relazionale, perché ci sono le tre Persone che sono interfacciate. Spero di non dire bestialità teologiche. Questo penso che porti proprio il tema fondante di tipo relazionale.
Nella Genesi c'’è poi la somiglianza tra Dio e uomo che è ontologica e questo pure è un elemento relazionale e poi la comunione da un certo punto di vista è un elemento fortemente relazionale. Questi sono alcuni elementi del cristianesimo, non sono chiaramente tutti:
Trinità
Somiglianza Dio-uomo
Centralità della comunione


Ne ho scelti tre per il buddismo:
Nirvana
Non-dualità
Vacuità

Sono tre elementi irrelati. Siamo in un’ottica completamente diversa, per questo i trapianti non sono facili. Il senso del vuoto, della vacuità, che è peraltro concetto filosoficamente molto interessante e che il cristianesimo ha sfiorato soprattutto con quella che si chiama mistica apofatica (Meister Eckhart ma forse anche Dionigi l'’Areopagita), ma che per il cristianesimo sono concetti un po'’ secondari.
Naturalmente non è che i buddisti non si aiutino gli uni con gli altri, però sono centrati da un'’altra parte.
Voglio comparare anche un'’altra triade. Nel buddismo abbiamo visto che il peggior peccato è l'’ignoranza in fondo di come stanno le cose, la replica è la saggezza di come stanno le cose. Quando vedo che tutto è vuoto, che non esistono realtà separate, che reincarnarsi è la suprema abiezione, tutto questo è elemento di saggezza, si raggiunge con pratiche meditative. La reincarnazione è una iattura, non c'’è da augurarsi.
Nel cristianesimo viceversa c’è la nozione di peccato che naturalmente mi ripropone un'’idea di un'’anima individuale che è completamente diversa dal concetto di Anatta che abbiamo visto prima. Il peccato si riscatta con il perdono e alla fine viene promessa la resurrezione. Se promettete la resurrezione ad un buddista quello fa gli scongiuri, perché è da un'’altra parte che stiamo andando. Non ho alcuna pretesa di dire quale delle due è meglio, ma voglio solo farvi vedere che sono due concezioni pressoché incompatibili proprio sul piano logico.

C’è un aforisma che recita:
Nel buddismo tutto si spiega senza Dio,
nel cristianesimo nulla si spiega senza Dio.
Tutto si spiega senza Dio non vuol dire che il buddismo sia ateo, questa è una semplificazione. E'’ importante tutta la successione dei dati che abbiamo sin qui esaminato. Il buddismo è quasi agnostico, non è importante se esiste o no un Dio.
Nel cristianesimo nulla si spiega senza Dio tanto che io ritengo pericolosi i viraggi puramente etici del cristianesimo, le frange di puro riscatto morale. Qualunque laicismo può proporre un'’etica più che dignitosa, ma la chiave religiosa implica un altro tipo di esperienza.

Io sono stato presentato come psicoterapeuta junghiano e voglio leggervi una frase proprio di C.G.Jung:
”Io vorrei mettere in guardia contro la così spesso tentata imitazione e assimilazione delle pratiche orientali. Di regola, non ne viene che un istupidimento particolarmente artificioso del nostro intelletto occidentale”.
Questo istupidimento può essere l'esito di un tipo di coscienza che si è declinata nei secoli in occidente che ha bisogno probabilmente di un nutrimento diverso. Non vorrei che tutto questo sembrasse una captatio benevolentiae nei confronti del parroco, però raccoglievo la sfida da lui lanciata con il titolo di questo incontro: fascino, perché di fascino ce n'’è molto, e rischi. Il rischio è quello della capra con la testa dello yak. L'’istupidimento artificioso del nostro intelletto si vede nei visi di tanti praticanti di religioni orientali occidentali che, a mio parere, eludono la prima nobile verità, che tutto è dolore, cioè la tragicità dell'’esistenza, che poi è un'’idea anche greca, che viene meno a favore di pratiche pacificanti. Si va a meditare per stare meglio, non per capire meglio.

Io suggerirei qui una citazione da san Paolo:
Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono (I Tessalonicesi V,21)
Le pratiche buddiste serie, quelle più asciutte che non raccontano tante cose ma insegnano delle tecniche di osservazione di sé, possono essere un buon ponte verso la comprensione di ciò che effettivamente siamo e sono in questo modo esportabili anche in ambiti cristiani o addirittura non confessionali. Sono pratiche fondamentalmente psicologiche. Non solo, ma se vogliamo hanno condotto diversi cristiani a riscoprire la propria tradizione, perché poi si sono imbattuti in pratiche come quella dell'’esicasmo, tipica del cristianesimo d'’Oriente che coniuga la preghiera con la respirazione e quindi è come se fosse un'’espressione orientaleggiante ma nata in ambito cristiano. Ci sono altri elementi poco noti del cristianesimo che hanno punti di contatto.

Bisogna poi considerare che esistono in realtà delle versioni diversissime del buddismo a seconda del Paese nel quale il buddismo si è trapiantato. Per esempio il buddismo zen che è tipico del Giappone, implica poche cerimonie e molta pratica meditativa fondata sull'’attenzione. Il meditante si siede e osserva il suo respiro. Detto così sembra una sciocchezza, in realtà non solo è calmante, ma può portare ad osservare se stessi e tutta una serie di cose e soprattutto è una pratica che pare faccia bene anche a chi ha altre convinzioni teologiche. Ci sono stati sacerdoti che hanno lavorato in Giappone e, senza arrivare a sincretismi sciocchi, hanno scoperto ancora di più la propria religione, come H. M. Enomiya Lassalle, gesuita tedesco, che ha lavorato molto in Giappone e ha anche scritto dei libri molto belli sull'’incontro tra alcune pratiche zen e il cristianesimo. Zen vuol dire meditazione, in realtà in sanscrito meditazione si dice dhyana, in cinese dhyana diventa ch'an e dalla Cina ch'an diventa zen in Giappone. Nel Tibet invece dove c'’era una tradizione sciamanica fortemente magica, il buddismo si è trapiantato con una quantità di deviazioni quasi magiche. Se vedete una immagine buddista tibetana vi rendete conto del chiasso di divinità. Ho appena detto che il buddismo è agnostico, ma in Tibet trova tutto questo retroterra magico e cultuale e viene fuori un buddismo tibetano che tra l'’altro è molto diffuso perché c'’è stata la diaspora con il Dalai Lama nel 1959, cacciato con tutti i tibetani. Il Dalai Lama è un'’icona mediatica ormai e quindi si pensa che il buddismo sia quello, ma in realtà quello del Dalai Lama nasce come buddismo di minoranza. Se fosse rimasto in Tibet non lo avrebbe conosciuto nessuno.
Abbiamo poi il buddismo di Nichiren, nel quale ci si siede due volte al giorno recitando il Sutra del loto in giapponese. A me sembra una pratica istupidente perché tra l'altro è in una lingua che non ci appartiene. Tra l'altro la setta di Nichiren nasce nel 1200 con un'’ottica nazionalista e militarista. Da noi ci sono milioni di praticanti che non sanno queste cose.

Direi per chiudere che il buddismo ci può riportare ad una conoscenza di noi, ma pencolarsi verso l'altro è conoscitivo solo se ho un'identità abbastanza stabile. Non è così difficile da capire, vale anche per le relazioni affettive. Non conosco davvero l'altro se non ho una buona identità personale, questo vale anche per le culture.



Concludo con dei cenni bibliografici per chi volesse approfondire:

Pasqualotto, G. Il buddismo. I sentieri di una religione millenaria – Bruno Mondadori
Franci, G.R.: Il buddismo – Il Mulino
Gnoli R. (a cura di): La rivelazione del Buddha I e II - Mondadori
Dalai Lama: La strada che porta al vero. Come praticare la saggezza nella vita quotidiana – Mondadori
D.Gira: La scelta che non esclude – Mondadori
H.C.Puech: Storia del buddismo - Mondadori


In foto: "Sacred ribben IV" e " Croce-mandala"

Conferenza pubblicata online qui

sabato 11 settembre 2010

Le Recensioni di L.T. - Thomas Merton: "Lo Zen e gli Uccelli Rapaci", Ed. Garzanti, Milano 1970

Nota - Si inaugura qui la "rubrica" Recensioni. Si tratta della raccolta delle recensioni di libri che Luigi Turinese ha pubblicato nel corso del tempo e su varie riviste, a partire dal 1984. Ovviamente alcuni di questi libri non sono più in commercio, o non lo sono con le edizioni indicate, nonostante ciò la lettura può risultare interessante per i temi affrontati.

Thomas Merton: "Lo Zen e gli Uccelli Rapaci", Ed Garzanti, Milano 1970
Morto a Bangkok nel 1968, l'americano Thomas Merton è stato tra i più acuti studiosi, in campo cristiano, delle filosofie orientali, in particolare dl Buddhismo.
Tale studio non fu mai per lui, monaco cistercense di stretta osservanza, un arido esercizio di erudizione, ma un modo per rendere più vivo e profondo il suo cristianesimo.
Il libro in questione, dato alle stampe lo stesso anno della sua morte, contiene nella prima parte alcuni saggi su temi specificamente budddhisti ("Lo studio dello zen","Il nirvana", "Lo Zen nell'arte giapponese", ecc ...) e altri in cui vengono lumeggiati i punti d'incontro salienti tra Buddhismo e Cristianesimo, come pure alcuni problemi inerenti al confronto.
Un'attenzione alle religioni orientali può ricondurre le coscienze cristiane ad occuparsi dell'Essere e a non ridurre la parola di Dio a semplice invito all'azione moralmente encomiabile. "Bisogno dell'uomo moderno - scrive Merton - è la liberazione dalla sua eccessiva autocoscienza, dalla sua smania di autoaffermazione", e in questa operazione lo zen può aiutarlo.

Merton
pone l'accento sulla crucialità dell'esperienza nell'universo giudaico-cristiano e propone di cercare le convergenze tra Buddhismo e Cristianesimo proprio sul piano esperenziale.
Essere "inchiodati alla Croce con Cristo"(non teoricamente, ma come esperienza esistenziale: morire al proprio egoismo) fa sì che le nostre più profonde azioni non provengano dalla contingenza fenomenologica dell'io, ma da quel Fondo assoluto che è Dio, o, in termini buddhisti, il Vuoto. "Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me" (Paolo, Galati, 2, 19-20).
L'illusione di un IO separato che ogni cosa autoriferisce come oggetto di desiderio o di avversione e che non entra mai in relazione con la vita, ma tutt'al più con le proprie idee su di essa, è per il Buddhismo ignoranza (avidya), radice di ogni male e di ogni sofferenza. Tale tendenza egocentrica a falsificare il rapporto con il mondo e con gli esseri è adombrata dal concetto cristiano di "peccato originale", che Merton assimila al suddetto concetto buddhista di avidya.

L'estinzione dell'io psicologico, sociale e culturale segna, in ogni grande via religiosa, l'ingresso in un regno di libertà spirituale (nirvana buddhista). "Amor meus, pondus meum" dice Agostino. Per il Cristo l'unica salvezza, l'unica possibilità di aprirsi agli altri e alla vita, sta appunto nel perdersi, nell'abbandonare cioè il proprio io.


La seconda parte del libro comprende un dialogo tra Merton e D.T. Suzuki. L'eminente professore giapponese di filosofia buddhista, prendendo a spunto alcune traduzioni delle parole dei Padri del Deserto fatte da Merton, mette a confronto la spiritualità degli eremiti cristiani e la paradossale innocenza dei maestri zen. Merton risponde con un articolato saggio dove viene indicata la via di riacquisto di quella purezza di cuore, di quell'innocenza così presente nel tipico spirito dello zen che è il passaggio obbligato per il "ritorno in Paradiso" cioè per la scoperta del "regno di Dio in noi".

Non rimane che consigliare vivamente la lettura di questo libro e degli altri dell'Autore, a quanti - buddhisti, cristiani o cercatori liberi - abbiano compreso, per dirla con le parole dello stesso Merton, che "comunicare in profondità, al di là dei confini che hanno diviso le tradizioni religiose o monastiche, è ora non solo possibile e augurabile, ma quanto mai importante per i destini dell'uomo del secolo XX"

Luigi Turinese



In foto: "Visione velata"

Recensione apparsa nella rubrica "Libri" di "PARAMITA - Quaderni di Buddhismo", n. 9, Anno III, Gen-Marzo 1984

martedì 24 agosto 2010

Yoga e Buddhismo

Una rivista di Buddhismo ha buoni motivi per occuparsi di Yoga. Sono numerose le reciproche, feconde interferenze tra Yoga e Buddhismo verificatesi nel complesso corso della filosofia indiana ed estremo-orientale. Ci basta per il momento segnalare la sempre più frequente presenza, nei ritiri buddhisti occidentali, di persone che hanno praticato o praticano la disciplina yogica. E' tuttavia ancora facile trvare cultori delle singole "specialità" ignari delle profonde convergenze tra Yoga e Buddhismo. E' in particolar modo a questi "specialisti" che, a partire da questo quaderno, ci rivolgiamo, convinti da un parte dell'importanza di un solido equilibrio psico-fisico per procedere a quell'approfondimento interiore di cui il Buddhismo è campione; e, dall'altra, di quanto può essere riduttivo occuparsi di rilassamento e di salute prescindendo da un itinerario volto a sviluppare una comprensione profonda.

Non v'è dubbio che, fra le dottrine e le tecniche orientali importate in Occidente, lo Yoga sia la più popolare. E' tuttavia raro che gli stessi praticanti abbiano una conoscenza corretta di tale disciplina nella sua complessità. C'è chi considera lo Yoga un mezzo per ottenere salute e longevità; alcuni sono più sensibili ai suoi effetti stabilizzanti sulla psiche e lo equiparano a una tecnica di rilassamento o persino a una sorta di pscoterapia; pochi altri, infine, sono sono sensibili al carattere religioso che riveste la via dello Yoga. In verità, lo Yoga è tutto questo insieme ed anche di più, motivo per cui è degno di interesse per il medico, lo psicologo, il religioso, e ancora l'orientalista e l'etnologo.



Il termine yoga deriva dalla radice sanscrita yug- che significa "legare", "tenere assieme", "aggiungere", che anche nella nostra lingua, indoeuropea come il sanscrito, compare in termini designanti un legame: coniugare, giogo, coniuge. Per mantenerci sulle generali, definiremo lo Yoga come una tecnica di ascesi peculiare della spiritualità indiana sin dai suoi esordi. Mircea Eliade la collega a quell'insieme di tecniche estatiche diffuse nell'area centro-asiatica e siberiana note con il nome di Sciamanesimo.
A giudicare tale antichità, lo studioso rumeno invoca il ritrovamento a Mohenjo Daro (principale centro della civiltà della valle dell'Indo, III millennio a.C.) di un sigillo raffigurante una divinità assisa a gambe incrociate alla maniera yogica. Altri importanti autori, come Filliozat e Panikkar, invitano alla prudenza, facendo notare che la suddetta posizione era nota anche fuori dall'India, come dimostrano ritrovamenti archeologici in area mesopotamica e addirittura americana. Certamente, comunque, asceti solitari che praticavano tecniche psico-fisiche atte a produrre fenomeni estatici devono aver calcato il suolo indiano sin dai tempi più antichi. Le Upanishad del periodo medio ( circa VI secolo a. C.) contengono numerosi riferimenti allo Yoga, soprttutto alle tecniche respiratorie e al controllo dei sensi come base per la concentrazione.
In quello che è forse il libro induista più famoso in Occidente, la Bhagavad Gita (circa III secolo a.C.), lo yoga ha una parte predominante. Il dio Krishna, che ne è protagonista, viene chiamato "Signore dello Yoga". Nella Gita tuttavia, non ci troviamo di fronte a una tecnica definita. Il contesto più originale in cui il termine appare è il III capitolo, dove si descrive il karma yoga, o yoga dell'azione, che consiste nel compiere l'azione giusta senza curarsi dei suoi risultati, cioè con distacco ed equanimità.



Il Buddhismo adopera sin dai suoi inizi concetti e tecniche derivati dallo Yoga; per dare due esempi: i quattro jhana ricordano alcuni momenti specifici dello Yoga (v. più avanti l'importanza del dhyana yogico) e ancora le Quattro Nobili Verità devono esere mediate e sperimentate, si potrebbe dire comprovate, alla maniera yogica. Per il Buddhismo, insomma, la gnosi non è sufficiente occorre la pratica.
E' interessante riflettere sul fatto che Ananda, il discepolo prediletto dal Buddha, fu escluso dal primo concilio buddhista, svoltosi a Rajagriha subito dopo la morte del Sublime, a motivo della sua comprensione puramente intellettuale della dottrina.
Egli, cioè, non aveva sperimentato le Quattro Nobili Verità e non era dunque un arahant. Tutto questo è tipico della mentalità yoga.
Il discepolo deve operare nel suo stesso corpo-mente la trasmutazione che gli consente di accedere ad un altro piano (samadhi).


La Scuola Yogachara
Il Buddhismo utilizza le tecniche yoga, sorreggendole e completandole con un profondissimo lavoro di "comprensione" della verità: l'esperienza, indispensabile per ottenere la liberazione (nirvana) Deve essere illuminata dalla saggezza intuitiva, dala comprensione (prajna).

Penso che sia utile, per esemplificare quanto detto, comparare l'uso che del respiro fanno lo Yoga e il Buddhismo.
Per lo Yoga, il respiro deve essere controllato e modificato secondo particolari tecniche (pranayama) che hanno la funzione di immettere l'adepto in un livello di coscienza non ordinario. Il Buddhismo, invece, raccomanda l'anapana sati (la consapevolezza del respiro, v. PARAMITA n2), che consiste in una osservazione neutra del respiro, priva di ogni sforzo di modificazione. Il risultato è, in definitiva, il ripristino della funzione attentiva in vista dello sviluppo della giusta consapevolezza (samma sati, v. PARAMITA 8 e 9). La tarda scuola buddhista del Vijnanavadin, fondata da Asanga nel IV secolo d.C., è anche detta Yogacara per evidenziare l'importanza attribuita ai metodi yoga sulla strada della conoscenza, e qui, come in genere nel Buddhismo tantrico, viene affiancata alla anapana sati la tecnica yogica del pranajana.



Finora si è parlato dello Yoga come di una dimensione comune alle grandi tradizioni religiose dell'India. Come sistema filosofico a sé stante, lo Yoga è più tardo. L'epoca in cui visse il suo iniziatore, Patanjali, è assai controversa. Più indietro del II secolo a.C., tuttavia, non ci si può spingere. Patanjali sintetizza e depura il materiale a lui pervenuto dai secoli precedenti, dandogli una copertura teoretica attinta dalla filosofia Samkya. Per quest'ultima, l'ignoranza somma è confondere lo spirito (parusha), per sua natura libero, con gli stati psico-mentali (buddhi). Come per il Buddhismo, anche per il Samkya ignoranza equivale a dolore, nascita e morte. La liberazione sopravviene non appena viene riconosciuta l'assoluta diversità tra il purusha e la buddhi, e l'apparteneza di quest'ultima non già al mondo spirituale, ma a quello della natura (prakriti). Secondo lo Yoga, a smascherare la falsa identificazione tra purusha e buddhi non basta la conoscenza metafisica, ma occorre una pratica contemplativa psico-fisiologica, che trasformi letteralmnente l'adepto, immettendolo in uno stato di coscienza unificato e inaccessibile al profano (samadhi).

A questa unificazione mirano le otto tappe dello Yoga classico (yoganga).
Le prime due (yama e niyama)contengono dispoizioni morali e costituiscono i preliminari indispensabili di qualunque ascesi.
Con la terza (asana) iniziano le pratiche più caratteristiche. Si tratta delle celeberrime "posizioni yoga", che hanno lo scopo di regolare i processi fisiologici consentendo l'applicazione dell'attenzione ai movimenti della coscienza. Lo yogin nello stato di asana, immobile, è la negazione fisica della mobilità, dell'agitazione, dell'aritmicità che caratterizzano l'uomo profano.
La quarta tappa (pranayama), armonizzando ispirazione, espirazione e ritenzione, produce una sensazione di assenza di sforzo e un progressivo rallentamento dei movimenti mentali.
Il pratyahara (quinta tappa) consente il ritirarsi della coscienza dal dominio degli oggetti esterni.
L'autonomia ormai acquisita dallo yogin nei confronti sia del mondo esteriore sia del dinamismo subcosciente gli permette di sperimentare una triplice tecnica interiore: dharana (attenzione focalizzata), dhyana (meditazione, flusso di pensiero unificato, stabile e tranquillo), e infine l'ottava tappa, samadhi (estasi, identificazione suprema: il meditante non è più separato dal suo oggetto di concentrazione).
Tutto l'ottuplice percorso mira ad abolire la molteplicità per ritrovare l'unità primigenia. Queste otto tappe dello Yoga classico sono comuni, con modeste varianti e aggiunte, a tutti i tipi principali di Yoga. Nessun sistema yoga, in realtà, esiste in modo del tutto autonomo, in quanto gli elementi di uno sono variamente combinati con quelli di un altro. Tra i sistemi più noti citiamo: mantra-yoga (reintegrazione per mezzo di formule che fungono da supporto per la concentrazione); bhakti-yoga (reintegrazione per mezzo della devozione); jnana-yoga (reintegrazione attraverso la conoscenza); karma-yoga (reintegrazione per mezzo dell'azione, v. sopra); raja-yoga (via regale alla reintegrazione, forma molto alta di yoga mentale).

C'è una caratteristica comune a tutti i sistemi testè descritti: non esiste varietà di Yoga ch non sia innanzitutto una pratica. Lo Yoga, d'altronde, si affermò in India come reazione al formalismo brahmanico, i cui rituali non si trasformavano mai in esperienza.

Una parola a parte merita lo hatha-yoga, se non altro perché è la varietà più nota e praticata in Occidente. Scopo dello hatha-yoga, nato in epoca tarda e protagonista di numerose, reciproche contaminazioni col Tantrismo, è risvegliare i centri di energia detti chakra, corrispondenti ciascuno a un piano di consapevolezza e di approfondimento mistico. Il risveglio successivo dei sei chakra minori posti a diversi livelli lungo la colonna vertebrale, prepara l'ascesa attraverso di essi del mitico serpente kundalini, simboleggiante la Shakti (energia femminile, attiva, controparte dell'energia maschile, passiva, personificata da Shiva). Al culmine della sua ascesa, la kundalini passa attraverso il settimo chakra, il supremo, che si trova nel cervello.
Qui si compie l'unione tra Shakti e Shiva, simboleggiante la liberazione, l'integrazione nell'adepto del principio maschile e di quello femminile.



La fisiologia mistica del Tantrismo induista e buddhista è pressocché identica a quella descritta dallo hatha-yoga: il cosmo è un tessuto di forze magiche, che con determinate tecniche possono essere risvegliate nel corpo umano, divinizzandolo. Nello Hevajra Tantra il Buddha proclama che senza un corpo perfettamente sano non si può conoscere la beatitudine. Uno dei testi tantrici più notevoli, I sei Yoga di Naropa, descrive la tecnica per lo sviluppo del calore interiore (tummo). Sul piano mistico si tratta di una trasmutazione energetica, realizzata mediante complesse tecniche respiratorie, il cui significato è analogo a quello dell'ascesa della kundalini: l'unione nell'adepto dei due principi complementari. Sul piano esteriore il tummo ha permesso di meditare, vestiti di cotone tra le nevi delle montagne himalayane.

L'espanione dello Yoga in Occidente segna l'affermarsi di una ricerca interiore attenta ai processi del corpo unitamente a quelli dell'anima, più rispettosa che in passato nei confronti della sostanziale unità psico-fisica-spirituale dell'uomo. Questo fenomeno ha risvegliato l'interesse per tradizioni occidentali dimenticate, come la preghiera esicasta, caratteristica del cristianesimo ortodosso, che si configura, secondo la felice definizione di P. Giovanni Vannucci, come uno "Yoga cristiano".

Luigi Turinese

Bibliografia essenziale:
A. Danielou: "Yoga, metdo di reintegrazione" - Ubaldini
M. Eliade: "Techiche dello Yoga" - Boringhieri
E. Wood: "Yoga" - Sansoni
Patanjali: "Gli aforismi dello Yoga" - Boringhieri
F. Poli: "Yoga ed esicasmo" - EMI
Anonimo: " Lo Yoga cristiano. La preghiera esicasta" - Libreria editrice fiorentina
Evans-Wentz: "Lo Yoga tibetano" - Ubaldini
S.B. Dasgupta: "Introduzione al Buddhismo tantrico" - Ubaldini

Articolo apparso su "Paramita, Quaderni di Buddhismo" Anno IV, n. 13, Gen - Marzo 1985, pagg. 36-38; e sulla rivista "Yoga", Organo della Federazione Italiana Yoga, n. 36/37, Ottobre 1988-Marzo 1989, pagg 20-22

In foto: "Sacred ribben II", "Sacred ribben III", "Sacred ribben IV", "Settimo Chakra"

lunedì 2 agosto 2010

Bodhidharma

Il Buddhismo giunse in Cina intorno al 60 d.C., quando un gruppo di studiosi inviato in India, ne fece ritorno e fondò a Loyang una scuola di traduzione di testi sanscriti. Per oltre un secolo e mezzo però, la nuova religione delle arti occulte, "fece anticamera", finché, nel 220, anche i cinesi furono autorizzati a farsi monaci. Per i primi tempi, più che di Buddhismo cinese è più corretto parlare di Buddhismo in Cina, giacché dobbiamo attendere l'inizio del V secolo perché il Buddhismo stringa rapporti con il pensiero cinese e con la sua tradizione filosofica. Dal 410 al 413 operò infatti in Cina Kumarajiva, indiano profondamente dotto, che per primo introdusse in quel paese il pensiero e la filosofia di Laotse. Si crede che egli abbia persino scritto un commentario sul Tao-te-king, interpretando la filosofia taoista da un punto di vista buddhista.



I due più importanti discepoli di Kumarajiva furono Seng-chao e Tao-sheng. Il primo tentò di fondare la filosofia di Nagarjuna col taoismo, sottolineando la mutevolezza di tutte le cose e il carattere "negativo" del Nirvana, privo di qualità e quindi non conoscibile nell'accezione comune del termine, come si conosce cioè qualsiasi oggetto del mondo esterno. Seng-chao mostrò come il Buddhismo potesse venir assimilato alla filosofia cinese e fosse ormai destinato a entrare nella tradizione locale, perdendo ogni carattere esotico.
Tao-sheng pose le fondamenta della scuola dhyana del Buddhismo e fu in seguito conosciuta in Cina col nome di Ch'an e in Giappone con quello di Zen entrambe trascrizioni della parola sanscrita dhyna (meditazione).
Come ogni mistico, Tao-sheng dava scarsa importanza alle Scritture. Egli affermò che "la buona azione non comporta ricompensa", essendo assolutamente spontanea e quindi disinteressata, e che ogni realizzazione (satori) è frutto di un'illuminazione improvvisa, non di un graduale sviluppo nella teoria e nella pratica. Lo studio e la pratica assidui possono tutt'al più costituire una specie di lavoro preparatorio. Secondo Tao-sheng, ogni essere senziente ha la natura del Buddha, ma a causa dell'ignoranza (avidya) non si accorge di possederela. Con l'apprendimento e la pratica ognuno potrà "vedere" la propria natura di Buddha, accorgendosi di essere uno con essa sin dall'origine. Poiché la naturta del Buddha non può essere divisa, ma è assoluta, o la si vede per intero con un'illuminazione improvvisa o non la si vede affatto.
Per chi ha conoscenza del Buddhismo zen, questa breve esposizione della filosofia di Tao-sheng suonerà del tutto familiare.
Poco o niente affatto familiari suonarono però le suddette affermazioni alle orecchie dei monaci buddhisti suoi contamporanei, che bandirono pubblicamente Tao-sheng da Nanchino.

Quando il Buddhismo giunse in Cina proveniente dal Dekkan, nel 520, lo sfondo teorico del Ch'an era dunque stato già chreato da Seng-chao e Tao-sheng.

La pia tradizione ha fatto di Bodhidharma il 28° di una linea ideale di Patriarchi indiani (e il Patriarca cinese) che, percorsa a ritroso, condurrebbe allo stesso Buddha Shakyamuni. Questo "albero genealogico" fu elaborato certamente per dare allo spirito dello zen una leggittimazione autorevole.
Le nostre conoscenze sulla vita di Bodhidharma derivano da due fonti: le "Biografie dei Grandi Sacerdoti", composte da Tao-hsuan al principio della dinastia T'ang, verso il 645 e gli "Annali della trasmissione della Lampada", compilati dal monaco zen Tao-yuan nel 1004, all'inizio della dinastia Sung.

Bodhidharma era il terzo figlio di un grande brahmano dell'India meridionale. Studiò il Buddhismo per quarant'anni, dopo i quali il suo maestro Pranjatara gli conferì il grado di 28° Patriarca del dhyana.
Quando Bodhidharma arrivò in Cina, si diresse verso la corte dell'imperatore Wu di Liang, patrono entusiasta del Buddhismo. L'ìimperatore chiese a Bodhidharma: "Durante il mio regno ho fatto edificare numerosi templi ed ho aiutato molti monaci:qual è il mio merito?". "Proprio nessuno, Maestà", rispose Bodhidharma."Allora, chiese l'imperatore stupito, qual è il primo principio della dottrina?". "Semplicemente il vuoto". "Chi sei dunque tu, che mi stai dinanzi?". "Non lo so, Maestà".
Successivamente Bodhidharma si ritirò per nove anni in un monastero, dove meditò "contemplando il muro".
Una leggenda vuole che un giormno si addormentasse durante la meditazione, adirato, si recise le palpebre, che cadendo aterra germogliarono nella prima pianta di tè. Da allora il tè è sevito per tenere desti i monaci durante la meditazione. "Il gusto dello zen (ch'an) e il custo del tè (ch'a) sono i medesimi". dice un proverbio zen.

Un'altra leggenda vuole che Bodhidharma sedette così a lungo in meditazione che gli si staccarono le gambe. Di qui il divertente simbolismo delle bambole giapponesi daruma (Daruma è il nome giapponese di Bodhidharma) che hanno un corpo rotondo e senza gambe, che ritorna sempre dritto quando lo si spinge giù.
Un giorno un monaco di nome Hui-k'o andò a trovare Bodhidharma supplicandolo di essere illuminato sulla verità. Il primo Patriarca lo ignorava, ma il giovane monaco rimase alla sua porta fino a che la neve non gli arrivò alle ginocchia. Poi, per dimostrare la sua determinazione, si tagliò il braccio sinistro e lo offrì a Bodhidharma. Questi allora chiese finalmennte a Hui-k'o che cosa volesse. "Non ho la pace dela mente- disse Hui-ko - ti prego, rasserena la mia mente". "Porta la tua mente qui davanti e io la pacificherò", replicò Bodhidharma. "Ma quando cerco la mia mente - disse Hui-k'o - non riesco a trovarla". "Ecco! - gridò allora Bodhidharma - Ho pacificato la tua mente". In quel momento Hui-k'ò ebbe il suo risveglio (satori) e fu designato come secondo Patriarca cinese.

L'ultima parte della vita di Bodhidharma è avvolta dal mistero. C'è chi lo vuole avvelenato dai suoi avversari, chi sostiene che passò al Giappone, chi affermò di averlo veduto passare il confine per tornare in India scalzo e con una scarpa sulla testa. Tutti concordano però sul fatto che egli morì vecchissimo (secondo Tao-hsuan a 150 anni).
Scrisse argutamente A. Watts: "Non si può dire che sia facile scoprire in una storia tanto assurda l'elemento che ha influito così profondamente su tutta la storia dell'Estremo Oriente".

Studiosi autorevoli, come Fung Yu-lan, formulano l'ipotesi che la storia di Bodhidharma sia una pia invenzione dei tempi posteriori. A parte il fatto che negare l'esistenza di autorevoli capiscuola sembra essere un vezzo periodico degli storici delle religioni, la concreta esistenza di Bodhidharma, come fa rilevare D.T.Suzuki, non ha la minima importanza per la storia dello zen. (Sia detto per inciso che l'insegnamento di Bodhidharma non era esattamente quello che divenne noto come zen. Lo zen propriamente detto si sviluppò circa 150 o 200 anni dopo Bodhidharma, ad opera del sesto Patriarca Hui-neng, che si basò sulla linea tracciata dal primo Patriarca). Ciò che importa è che a partire dal VI secolo si impose in Cina, tra le altre correnti buddhiste, una forma di Buddhismo cinese con caratteristiche assai peculiari, noto col nome di Ch'an e, a partire dalla fine del XII secolo, in Giappone con quello di Zen.

L'insegnamento di Bodhidharma appartiene all'ala pratica del Mahayana. Bodhidharmna (Tamo in cinese) non era un esperto di logica, ma voleva semplicemente vivere la verità e insegnare un metodo pratico per conseguire l'Illuminazione. Obiettivo della vita buddhista, secondo Bodhidharma, è penetrare nella natura del proprio essere.
Tipico della mentalità di Bodhidharma è il sopra riportato colloquio con Hui-k'ò: non dissertò sull'anatta (non- Io) e sul Nirvana, ma chiese a Hui-k'o di portargli dinanzi la mente perché potesse calmarla, e lo liberò dalla schiavitù del concetto di mente, facendogli vivere un'esperienza reale.
Si è detto sopra che Bodhidharma passò nove anni a "fissare il muro". Questa espressione è la traduzione letterale del termine cinese pi-kuan. "Ma "stare fermi rigidamente come una rupe" - avverte D.T.Suzuki - non indica la posizione assunta dal praticante zen quando siede a gambe incrociate con la colonna vertebrale eretta, ma si riferisce a uno stato mentale interiore, in cui sono spezzate tutte le catene di concetti che disturbano e intralciano". Da questa base ineliminabile si parte per la scalata alla vetta - il satori - che è la meta della disciplina zen.

L'insegnamento etico di Bodhidharma è riassunto nella formula Wu-kung-te, "nessun merito", che si riferisce al dialogo sopra riportato tra l'imperatore e il primo Patriarca. Scrive lo stesso Bodhidharma: "Il saggio pratica le sei virtù della perfezione per liberarsi dai pensieri confusi, e tuttavia da parte sua non vi è la consapevolezza di essere impagnato in un'azione meritoria, e ciò significa essere in accordo con il Dharma".

Gli insegnamenti di Bodhidhara trovarono un terreno fertile in Cina perché si armonizzavano in un certo senso col misticismo del Tao-te-king e con le profonde disquisizioni di Chuang-tze, sempre pervase da una vena ironica.

Può essere utile riportare i quattro assiomi elaborati più tardi per compendiare il messaggio portato da Bodhidharma in Cina:
1) Trasmissione del sapere al di fuori delle Scritture;
2) Indipendenza dalle parole e dalla lettera;
3) Riferimento diretto al cuore dell'uomo;
4) Visione della propria natura e copnseguimento dello stato di Buddha.


Luigi Turinese

In foto: "Stupa bonsai"

Riferimenti bibliografici essenziali:
A. Watts: "Lo Zen" Bompiani e "La via dello Zen", Feltrinelli.
D.T. Suzuki: "Il risveglio dello Zen", Ubaldini.
C. Hunphreys: "Lo Zen", Ubaldini.

Scritto apparso su "Paramita - Quaderni di Buddhismo" Anno III, Gen-Marzo 1984, pagg. 9-11

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Luigi Turinese Cantautore

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