Wiston L. King: "La meditazione theravada - la trasformazione buddhista dello yoga" , Ubaldini Editore, 1987
La cultura non procede per salti: anche i rivolgimenti culturali più radicali portano con sé espliciti segni del modello cui si contrappongono o di cui rappresentano l'evoluzione. Si pensi al cristianesimo, che nasce come ramo eterodosso dell'ebraismo, ma eredita un pesante bagaglio di tradizione. Si pensi a quanto, nell'avvicendarsi dei periodi storici, le radici di una fase di espansione si possano ravvisare nel precedente periodo "buio". All'origine, il buddhismo si presenta negatore delle caste, dell'anima individuale, della speculazione metafisica, del ritualismo brahmanico. D'altra parte su almeno due punti c'è convergenza tra il messaggio del Buddha e il pensiero upanishadico a lui contemporaneo: la considerazione dell'universo dell'esperienza spazio-temporale come privo di realtà assoluta e in ultima analisi, quindi, insoddisfacente; l'idea che la meditazione rappresenti il metodo elettivo per trascendere l'insoddisfazione.
Il buddhismo, dal conto suo, radicalizzerà il primato accordato all'esperienza e accentuerà il carattere doloroso del samsara. In considerazione di quest'ultimo fatto si verifica un cambiamento nel sistema di valori tradizionale: in pratica, il buddhismo mette tra parentesi i valori riconosciuti dal brahmanesimo (l'aspirazione al benessere materiale e alla gratificazione sensoriale e il dovere sociale: ariba, karma e dharma) per accettare pienamente solo il noksha (liberazione finale), la cui piena realizzazione nel contesto buddhista sarà il nirvana.
Come si vede i rapporti tra induismo e buddhismo, sin dalle origini, sono ambivalenti e tali resteranno nel corso della loro lunghissima storia. Tale ambivalenza si palesa, oltre che sul piano storico, anche su quello metodologico. Nel sistema meditativo del buddhismo theravada, sottolinea il King, è presente un elemento non buddhista: la tecnica brahmanico-yogica dell'induzione di stati di trance (jhana). I jhana sono modalità di concentrazione meditativa che presentano con lo yoga similarità di metodo ma una cruciale differenza di finalità: sono infatti strumentali al raggiungimento del nibbana. I jhana, sia pure in forma sottile, contengono un residuo di individualità (atta) e quindi sono subordinati al fine ultimo del buddhismo, l'Illuminazione (esperienza di anatta).
Nel theravada, accanto ai jhana, fa la sua comparsa una tecnica squisitamente buddhista, la vipassana, che colora di consapevolezza ogni aspetto della contemplazione buddhista. I jhana purificati dalla visone profonda della vipassana non sono la stessa cosa di una trance yoga. La vipassana è più adattabile della disciplina dei jhana, e perciò più utilizzabile da parte dei laici.
La vipassana, inoltre, diversamente dall'esperienza dei jhana che sono stati di assorbimento di per sé privi di comprensione, costituisce anche il contesto della concezione buddhista del mondo. Come a dire che con la vipassana il meditante ha accesso all'anicca-anatta-dukka, mentre l'esperienza dei jhana separati dal contesto potrebbe essere ingannevolmente interpretata come esperienza del nibbana. Tramite la vipassana, in altri temini, il meditante percepisce l'impermanenza anche dei jhana.
Il bel libro di King si snoda attraverso sette capitoli completati da una bibliografia critica e da un interessante articolo che descrive l'esperienza del Risveglio di una laica contemporanea.
Luigi Turinese
In foto: "Firmamento terrestre"
Recensione apparsa su "PARAMITA , Quaderni di Buddhismo", Anno VII, n. 25 , Gennaio-marzo 1988
Medico, Esperto in Omeopatia, Psicologo Analista, Cantautore dottluigiturinese@gmail.com - facebook.com/luigi.turinese
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