Esiste una questione maschile? Parrebbe proprio di
sì, se ci si attiene ai dati di inchieste sociologiche che dipingono gli uomini
come soggetti smarriti, sospesi tra due modelli culturali e spinti a percorrere
senza posa un continuum teso tra due poli: da un lato la prona adesione a un
progetto di femminilizzazione della società; dall’altro la difesa di principio di una supremazia
tanto fittizia da dover essere mantenuta con la forza del pregiudizio e
talvolta, purtroppo troppe volte, con il ricorso alla violenza, anche estrema.
Se è vero che gli uomini appaiono spaventati al cospetto della maggiore energia sociale che mostrano le donne, è altrettanto vero che queste ultime sono spesso disorientate e deluse per l’evanescenza dei loro interlocutori. Non è possibile, nel breve spazio di un articolo, individuare la causa di questo malessere e di conseguenza immaginare un abbozzo di soluzione.
Certo è che nell’ultimo mezzo secolo si è via via affievolita la dimensione nomotetica: ovvero l’universo delle regole, tradizionale appannaggio della funzione paterna. Ecco: è al declino del Padre che dobbiamo guardare, per iniziare a comprendere parte della fragilità maschile e parte della delusione femminile. Viene da pensare che gli uomini soffrano il crescente potere delle donne.
A proposito della popolarità del Presidente degli USA, viene chiamato in causa da più parti un “effetto Michelle”, facendo riferimento alla non trascurabile rilevanza della First Lady nel potere complessivo di Barack Obama… Tuttavia credo che non si possa comprendere nessuna questione se non nella sua complessità. E allora il disagio, più che in uno dei due sessi – o meglio generi – va ricercato nel disturbo della relazione. Non è facile ricostruire i tempi e le tappe secondo cui si è complicato il codice di comunicazione tra uomini e donne. Mi piace immaginare che a un certo punto – più o meno negli anni ’60 – la mappa dell’universo femminile che i maschi avevano ricevuto in dotazione dalle madri per orientarsi nell’approccio all’altro sesso si sia rivelata fasulla. Che cosa stava accadendo nel mondo? Essenzialmente due cose: il progressivo ingresso delle donne nel mondo del lavoro, con la conseguente maggiore indipendenza economica; l’introduzione della contraccezione di massa, con la conseguente maggiore indipendenza erotica. Si noti che i due elementi tendono a rinforzarsi a vicenda, così come, in precedenza, dipendenza economica e dipendenza erotica erano andate di pari passo.
Il femminismo ha rappresentato la copertura teorica e al tempo stesso una rassicurazione di gruppo per questa rivoluzione. La coscienza maschile non ha retto all’irruzione di questi cambiamenti e ha spesso reagito in modi contraddittori. Mi rendo conto che generalizzare comporta il rischio di perdere di vista i fertili spostamenti verso una maggiore parità, che pure ci sono stati; e la possibilità, colta dai maschi più consapevoli, di una preziosa opportunità evolutiva.
Negli Stati Uniti Hanna Rosin ha appena pubblicato un libro intitolato The end of men. A parte la radicalità del titolo, bisogna ammettere che un certo modo di essere maschi è definitivamente tramontato. Poiché tuttavia, come dicevo prima, è impossibile un’analisi isolata dei percorsi di un genere, potremmo dire che è anche vero che, specularmente, si assiste al tramonto delle donne, intese come passivi angeli del focolare. Sul versante clinico, mi è capitato negli ultimi anni di trovarmi sempre più spesso di fronte a difficoltà sessuali dei giovani maschi nei confronti delle loro coetanee. La cosa che più mi ha colpito è che in linea di principio i ragazzi, affranti, si confidavano con la madre: il che da un lato ci conduce a considerare la maggiore rassicurazione da parte del modello materno; dall’altra – simmetricamente – la summenzionata latitanza del Padre.
Certo è che, nei rapporti sentimentali, i maschi si rivelano più deboli. Le donne, per esempio, sembrano in maggiore difficoltà ogni volta che si profila il rischio di una separazione. Quando tuttavia accade l’irreparabile, sono di gran lunga più adattabili alla nuova situazione; e ciò accade anche – forse in maggior misura – nel caso di una vedovanza: le donne, anzi, dopo una fisiologica fase di lutto, sembrano a volte addirittura rinascere. Ciò è da attribuire anche alla maggiore attitudine femminile a esprimere la sofferenza morale; laddove i maschi sembrano ancorati a un modello che impone loro di stringere i denti e negare il dolore e le lacrime.
Qualcosa però, anche in questi frangenti, sta cambiando. Un’ultima non trascurabile conquista dettata dagli studi sulle differenze di genere si è riverberata sulla medicina. Anche qui, difatti, la tradizionale omologazione della clinica al modello maschile sta cambiando, lasciando spazio alla cosiddetta medicina di genere, disciplina nata una ventina d’anni fa in ambiente accademico con l’obiettivo di superare, nell’approccio alla salute della donna, la tradizionale “bikini view”: ovvero l’abitudine a relegare all’ambito ginecologico la specificità di approccio alle pazienti. Non si tratta, come si potrebbe pensare, della medicina che studia le malattie che colpiscono prevalentemente le donne rispetto agli uomini ma della disciplina multidisciplinare che studia l'influenza del sesso e del genere sulla fisiopatologia e sulla clinica di tutte le malattie, dell'uomo come della donna.
Per fare due esempi: anche gli uomini possono soffrire di osteoporosi ma è rarissimo che ci si pensi; così come, in ambito cardiologico, ci si ricorda di rado che i sintomi dell’infarto del miocardio, nelle donne, decorrono con caratteristiche diverse da quelle dell’uomo: col risultato che si possono perdere ore preziose prima di formulare una corretta diagnosi. Come si vede, il lavoro da fare è ancora molto; ma la strada è tracciata.
Se è vero che gli uomini appaiono spaventati al cospetto della maggiore energia sociale che mostrano le donne, è altrettanto vero che queste ultime sono spesso disorientate e deluse per l’evanescenza dei loro interlocutori. Non è possibile, nel breve spazio di un articolo, individuare la causa di questo malessere e di conseguenza immaginare un abbozzo di soluzione.
Certo è che nell’ultimo mezzo secolo si è via via affievolita la dimensione nomotetica: ovvero l’universo delle regole, tradizionale appannaggio della funzione paterna. Ecco: è al declino del Padre che dobbiamo guardare, per iniziare a comprendere parte della fragilità maschile e parte della delusione femminile. Viene da pensare che gli uomini soffrano il crescente potere delle donne.
A proposito della popolarità del Presidente degli USA, viene chiamato in causa da più parti un “effetto Michelle”, facendo riferimento alla non trascurabile rilevanza della First Lady nel potere complessivo di Barack Obama… Tuttavia credo che non si possa comprendere nessuna questione se non nella sua complessità. E allora il disagio, più che in uno dei due sessi – o meglio generi – va ricercato nel disturbo della relazione. Non è facile ricostruire i tempi e le tappe secondo cui si è complicato il codice di comunicazione tra uomini e donne. Mi piace immaginare che a un certo punto – più o meno negli anni ’60 – la mappa dell’universo femminile che i maschi avevano ricevuto in dotazione dalle madri per orientarsi nell’approccio all’altro sesso si sia rivelata fasulla. Che cosa stava accadendo nel mondo? Essenzialmente due cose: il progressivo ingresso delle donne nel mondo del lavoro, con la conseguente maggiore indipendenza economica; l’introduzione della contraccezione di massa, con la conseguente maggiore indipendenza erotica. Si noti che i due elementi tendono a rinforzarsi a vicenda, così come, in precedenza, dipendenza economica e dipendenza erotica erano andate di pari passo.
Il femminismo ha rappresentato la copertura teorica e al tempo stesso una rassicurazione di gruppo per questa rivoluzione. La coscienza maschile non ha retto all’irruzione di questi cambiamenti e ha spesso reagito in modi contraddittori. Mi rendo conto che generalizzare comporta il rischio di perdere di vista i fertili spostamenti verso una maggiore parità, che pure ci sono stati; e la possibilità, colta dai maschi più consapevoli, di una preziosa opportunità evolutiva.
Negli Stati Uniti Hanna Rosin ha appena pubblicato un libro intitolato The end of men. A parte la radicalità del titolo, bisogna ammettere che un certo modo di essere maschi è definitivamente tramontato. Poiché tuttavia, come dicevo prima, è impossibile un’analisi isolata dei percorsi di un genere, potremmo dire che è anche vero che, specularmente, si assiste al tramonto delle donne, intese come passivi angeli del focolare. Sul versante clinico, mi è capitato negli ultimi anni di trovarmi sempre più spesso di fronte a difficoltà sessuali dei giovani maschi nei confronti delle loro coetanee. La cosa che più mi ha colpito è che in linea di principio i ragazzi, affranti, si confidavano con la madre: il che da un lato ci conduce a considerare la maggiore rassicurazione da parte del modello materno; dall’altra – simmetricamente – la summenzionata latitanza del Padre.
Certo è che, nei rapporti sentimentali, i maschi si rivelano più deboli. Le donne, per esempio, sembrano in maggiore difficoltà ogni volta che si profila il rischio di una separazione. Quando tuttavia accade l’irreparabile, sono di gran lunga più adattabili alla nuova situazione; e ciò accade anche – forse in maggior misura – nel caso di una vedovanza: le donne, anzi, dopo una fisiologica fase di lutto, sembrano a volte addirittura rinascere. Ciò è da attribuire anche alla maggiore attitudine femminile a esprimere la sofferenza morale; laddove i maschi sembrano ancorati a un modello che impone loro di stringere i denti e negare il dolore e le lacrime.
Qualcosa però, anche in questi frangenti, sta cambiando. Un’ultima non trascurabile conquista dettata dagli studi sulle differenze di genere si è riverberata sulla medicina. Anche qui, difatti, la tradizionale omologazione della clinica al modello maschile sta cambiando, lasciando spazio alla cosiddetta medicina di genere, disciplina nata una ventina d’anni fa in ambiente accademico con l’obiettivo di superare, nell’approccio alla salute della donna, la tradizionale “bikini view”: ovvero l’abitudine a relegare all’ambito ginecologico la specificità di approccio alle pazienti. Non si tratta, come si potrebbe pensare, della medicina che studia le malattie che colpiscono prevalentemente le donne rispetto agli uomini ma della disciplina multidisciplinare che studia l'influenza del sesso e del genere sulla fisiopatologia e sulla clinica di tutte le malattie, dell'uomo come della donna.
Per fare due esempi: anche gli uomini possono soffrire di osteoporosi ma è rarissimo che ci si pensi; così come, in ambito cardiologico, ci si ricorda di rado che i sintomi dell’infarto del miocardio, nelle donne, decorrono con caratteristiche diverse da quelle dell’uomo: col risultato che si possono perdere ore preziose prima di formulare una corretta diagnosi. Come si vede, il lavoro da fare è ancora molto; ma la strada è tracciata.
Luigi Turinese
In foto: "Timore e tremore"
Articolo apparso sulla rivista "Hod. Benessere" , n.70, Novembre 2012, Anno XV, pp 8-9
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