Da Catherine Marie-Agnès
a Caterina Luisa; e ritorno
di Luigi Turinese
“Quando siamo in un giardino, si manifesta qualcosa dell’anima”
James HIllman
Un ricordo personale. A metà
degli anni ’70, studente di Medicina con una insopprimibile tensione verso le
arti e il sapere umanistico, avevo preso l’abitudine, una volta terminato
l’orario delle lezioni al Policlinico di Roma, di salire sul primo tram che
scendeva verso il Flaminio. Alla fermata di Belle Arti saltavo giù e facevo il
mio ingresso nella Galleria Nazionale di Arte Moderna, allora diretta dalla leggendaria
Palma Bucarelli. Nel buio di una saletta, non di rado da solo, mi godevo la
proiezione di diapositive su un pittore o su un movimento artistico. Le
monografie cambiavano ogni due giorni, consentendo così a chiunque di erudirsi
nella storia dell’arte. Dopo la proiezione gironzolavo per le sale e ogni tanto
“giocavo” con una installazione assai buffa. Si chiamava “Baluba bye bye” e
pigiando un pedale si animava tutta, producendo un suono metallico che
conferiva al titolo un valore onomatopeico e fonosimbolico. Racconto questo
episodio perché, leggendo le dense pagine di Caterina Luisa de Caro, mi sono imbattuto in un
deuteragonista della storia narrata, il cui nome era rimasto sepolto in un
recesso della mia memoria: Jean Tinguely, scultore svizzero alfiere del “Nuovo
Realismo” e dell’arte cinetica, secondo marito di Catherine Marie-Agnès (Niki)
de Saint-Phalle e responsabile delle gigantesche strutture metalliche che
costituiscono l’”impalcatura” dei Tarocchi realizzati da Niki. Nonché, si sarà
capito, autore del mitico “Baluba” della GNAM.
Il libro che sono
chiamato a prefare è così saturo da non tollerare commenti superflui. Il
lettore vi troverà amplificazioni e nessi che sarebbe ridondante sottolineare.
Come altri giardini filosofico-iniziatici, anche il Giardino dei Tarocchi – per
chi lo sappia percorrere con intenzione alchemica – costituisce un opus contra naturam. Niki lo ideò e lo
realizzò innanzitutto per curare sé stessa. Un po’ come accade all’analista
consapevole del fatto che il lavoro svolto nella stanza dell’analisi finirà per
modificare entrambi gli attori di quel dramma. Jung lo racconta molto bene ne La psicologia del transfert (1946)[1], dove il fenomeno della
traslazione viene esposto sulla falsariga del Rosarium philosophorum, un testo alchemico medioevale le cui venti
tavole rappresentano i momenti salienti dell’opus alchemicum, dunque anche del lavoro analitico. Come nell’immaginazione attiva e nella sandplay therapy, metodi di sapore
autenticamente junghiano, o nel singolare caso clinico della pittrice americana Christiana Morgan, le cui elaborazioni figurative
costituiscono il nucleo di un seminario[2] tenuto da Jung tra il 1930
e il 1934, nel Gardino dei Tarocchi troviamo una esplicita rappresentazione di
archetipi. I ventidue Arcani Maggiori trovano corrispondenza nelle ventidue
Sephiroth della Kabbalah; i colori sgargianti richiamano la progressione del Magnum Opus: dalla nigredo alla rubedo,
passando per la citrinitas fino all’albedo. “Se si vuole formare una
raffigurazione del processo simbolico, la serie di immagini trovate
nell’alchimia sono buoni esempi […] Sembra anche come se l’insieme d’immagini
nel tarocco fossero discese a distanza dagli archetipi della trasformazione, un
punto di vista che è stato confermato per me da una lezione molto illuminante
del professor (Rudolf) Bernoulli. Il processo simbolico è un’esperienza in
immagini e di immagini. Il suo sviluppo generalmente si presenta come una
struttura enantiodromica come il testo dell’I
Ching, e così presenta un ritmo di negativo e positivo, perdita e guadagno,
oscurità e luce”[3].
In tutte le mantiche da lui indagate, come anche nell’astrologia, Jung vede
all’opera la dimensione della sincronicità,
quel “principio di nessi acausali” che lega due eventi, uno appartenente alla
sfera fisica, l’altro alla sfera psichica. Esso “afferma che i termini d’una
coincidenza significativa sono legati da un rapporto di contemporaneità e dal senso”
(Jung, 1951: 506)[4].
In conclusione, leggendo
il libro di Caterina Luisa de Caro veniamo condotti in un percorso iniziatico che si dipana tra
le pagine come un gioco e al gioco chiama[5]. Fruibile come un
ipertesto, per la grande mole di richiami e di aperture verso altri mondi
sapienziali, non sfigura come viatico per chi decida di effettuare la
contemplativa passeggiata tra le gigantesche Lame del giardino di Garavicchio,
dono di Niki al viaggiatore mistico[6]. Seguendo James Hillman
quando scrive che nei giardini, come in un tempio greco o in una moschea, “[…]
il rapporto fra corpo e psiche si rovescia completamente – non più l’anima nel
corpo, ma il corpo che passeggia in quel giardino che è l’anima”[7].
[1] Jung, C. G.: In Opere complete, vol. 16 (“Pratica
della psicoterapia”), Bollati Boringhieri, Torino 1981.
[2] Jung, C. G.: Visioni.
Appunti del Seminario tenuto negli anni
1930-1934, a cura di Claire Douglas, Edizioni Magi, 2004.
[3] “Gli archetipi dell’inconscio collettivo” (1934/1954), in Opere complete, vol. 9.1 (“Gli archetipi
e l’inconscio collettivo”), Bollati Boringhieri, Torino 1980.
[4] Jung, C. G.: “La sincronicità come principio di relazioni
acausali”, In Opere complete, vol. 8
(“La dinamica dell’inconscio”), Bollati Boringhieri, Torino 1976.
[5] Qui ci riferiamo al gioco nel suo senso filosofico-sapienziale, seguendo Nietzsche quando scrive: “Nel considerare il mondo un gioco divino e al di là del bene e del male, ho come predecessori la filosofia dei Vedanta ed Eraclito” (Nietzsche, F.: Opere, edizione a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1964, VII, II, p.182).
[6] Voglio evidenziare come l’interesse per il Gardino dei
Tarocchi non sia un vezzo di pochi stravaganti, se nell’anno in corso (2019) la
casa editrice e/o ha pubblicato un godibilissimo romanzo di Lorenza Pieri
intitolato Il giardino dei mostri.
[7] Hillman, J.: “Nei giardini. Un ricordo psicologico”, in Politica della bellezza, Moretti &
Vitali, Bergamo 1999.