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"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia

lunedì 16 ottobre 2017

"Le nuove relazioni: una sfida per la psicoanalisi" di Luigi Turinese

Le nuove relazioni: una sfida per la psicoanalisi
di Luigi Turinese

Il progressivo affermarsi della società liquida, per riprendere un’espressione oramai abusata ma efficace di Baumann, vede il proliferare di modelli relazionali un tempo assenti o quanto meno fortemente minoritari: famiglie monogenitoriali e multigenitoriali, unioni omosessuali, diffusione dell’arcipelago LGBT, nuclei familiari allargati, fino alle relazioni poliamorose, ultima frontiera delle molteplici possibilità di convivenza umana.
Faccio osservare per inciso che la maggior parte di tali condizioni recavano fino a non molto tempo fa il marchio della patologia o quanto meno della riprovazione sociale.
Se quella del post-moderno è una categoria che definisce il tramonto delle ideologie del secolo breve, la società liquida, che vede la crisi dello Stato e via via delle identità forti – da quella politico-ideologica a quella di genere – crea un radicale soggettivismo, rispetto al quale anche le relazioni divengono instabili o meglio, volendo usare categorie più neutre, mobili e flessibili.
Mutuando il linguaggio creato da Internet e dal Web, assistiamo a un aumento delle connessioni “a rete” e al declino delle relazioni granitiche, incarnate dai modelli tradizionali di coppia e matrimonio.

"The Remains of your Wiskeis" - Foto di Gianna Tarantino

Fenomeno di nicchia al suo apparire, sul finire del ‘900, questo rimodellamento sociale si sta affermando come un paradigma non più eludibile o smarcabile con anatemi moralistici. Non si tratta – come alcuni sostengono – di un vezzo di élites borghesi annoiate ma di una rivoluzione cui stanno contribuendo in misura sostanziosa anche i potenti flussi migratori che sfumano i confini, geografici e culturali, e a cui contrapporre muri, concreti o metaforici, appare come una difesa parodistica e anche un poco paranoica.
In un siffatto scenario, se gettiamo uno sguardo ai paradigmi affettivo-relazionali dominanti e confrontiamo ad esempio il modo di vivere le relazioni coniugali dei nostri nonni o anche dei nostri genitori con quelle incarnate nell’Occidente post-moderno, emergono alcune riflessioni.

Usando un po’ superficialmente categorie archetipiche, si potrebbe dire che il modello tradizionale di relazione fosse costruito sotto il segno di Era; dopodiché Afrodite ha preteso un risarcimento con gli interessi. E si sa quanto questi mitologemi siano poco compatibili.
È nota la posizione della Chiesa sul matrimonio come espressione naturale dell’unione di un uomo e di una donna. In ambito laico le posizioni critiche nei confronti di tale pretesa sembrano limitarsi alla possibilità di contemplare le unioni omosessuali; è già molto, se si pensa che il DSM ha definitivamente cancellato l’omosessualità dalla lista dei disordini mentali soltanto nel 1990.

Si può osservare d’altra parte che anche i diritti civili invocati dalle coppie omosessuali tendono a riprodurre il modello dominante, che a sua volta è tutt’altro che valido ab aeterno. La cornice giuridica del matrimonio così come noi lo conosciamo, difatti, fu fissata dal Concilio di Trento nel 1563, ovvero poco più di quattrocentocinquanta anni fa. Solo un secolo prima del concilio tridentino si trovano ancora tracce di matrimoni lesbici, come attestano gli studi della storica Fernanda Alfieri.
In Europa sono ravvisabili episodi di poliginia fino al XVIII secolo, dopodiché nasce la famiglia nucleare.
Il cosiddetto “matrimonio d’amore” è però molto più recente, dal momento che per secoli ci si sposava soprattutto per motivi economici o dinastici.

Con la progressiva autonomia delle donne e soprattutto con l’introduzione dei metodi contraccettivi, la liberazione sessuale prende la scena e la solidità dei legami matrimoniali viene meno. La formula “finché morte non vi separi” è divenuta oggi poco più di uno slogan, per alcuni auspicioso, per altri persino un po’ minaccioso. La monogamia sequenziale è la traballante soluzione praticata dai più per mantenere in vita l’ideale romantico della coppia felice, minacciato dall’incontrovertibile dato sociologico del vertiginoso aumento di separazioni e divorzi; per non parlare delle numerose coppie “di fatto” che comprensibilmente non hanno il coraggio – o l’incoscienza – di legittimare socialmente il loro legame: rinunciando così al poco che rimane della forza simbolica del rito.

Leggo dal sito dell’Istat: “Nel 2014 sono stati celebrati in Italia 189.765 matrimoni, circa 4.300 in meno rispetto all’anno precedente […] A diminuire sono soprattutto le prime nozze tra sposi di cittadinanza italiana […] Diminuisce anche la propensione a sposarsi […]     Nel 2014 le separazioni sono state 89.303 […] In media ci si separa dopo 16 anni di matrimonio, ma i matrimoni più recenti durano sempre meno”.
Alla creazione di  questo scenario disastroso ha contribuito non poco l’ossessione principale dell’amore moderno, ovvero l’ideale romantico che prospetta la passione “per sempre”, nonostante l’ampia evidenza empirica del contrario.
Un ruolo decisivo l’ha anche svolto la psicologia, nel ritenere la fedeltà sessuale un comportamento maturo, impegnato e realistico e ogni deroga da tale imperativo l’attestazione di qualità opposte. Eppure l’ideale della monogamia – come ben sappiamo quanto meno dalle storie dei nostri pazienti – viene raramente, per non dire mai, rispettato.
Studi autorevoli spiegano questo iato tra ideale e realtà su base biologica, dal momento che la monogamia non si riscontra in nessuno dei primati sociali che vivono in gruppo; l’unico primate monogamo è il gibbone, laddove scimpanzé e bonobo, il cui DNA differisce dal nostro soltanto per l’1,6%, sono specie a comportamento sessuale promiscuo. La monogamia degli esseri umani è dunque vistosamente un’imposizione culturale, ottenuta prevalentemente attraverso la repressione della sessualità femminile: dovremmo riflettere sul fatto elementare che nessuna creatura ha bisogno di essere minacciata per agire in accordo con la propria natura.

Non stupisce che si cerchino altre vie. Le molte forme delle non monogamie etiche, comprese nell’ambito del cosiddetto poliamore, costituiscono lo sviluppo codificato e maturo dei fermenti che hanno iniziato a scuotere l’universo delle relazioni a partire dagli anni ’60, dunque da mezzo secolo.
Negli USA si calcola che le famiglie poliamorose siano attualmente 500.000. Il termine polyamory, coniato nel 1990 da Morning Glory Zell-Ravenheart, è entrato di recente a far parte dei lemmi dell’Oxford English Dictionary. Esso indica la possibilità di avere più di una relazione intima con il consenso di tutte le parti interessate.
Tali relazioni non sono necessariamente sessualizzate: esistono infatti poliamorosi asessuali o puramente potenziali. Le categorie di relazione poliamorosa costituiscono un vero e proprio arcipelago, come ha messo in rilievo Franklin Veaux, autore di alcuni libri imprescindibili sull’argomento e di una mappa particolareggiata della non-monogamia.
 Tra le molteplici declinazioni del fenomeno spicca la cosiddetta anarchia relazionale, che supera la tradizionale distinzione tra amicizia e amore, guardando ad ogni relazione individualmente: non è il sesso o il romanticismo a conferire maggior valore a un legame, che si realizza attraverso un impegno, un’affettività e una flessibilità alieni da ogni gerarchizzazione, caratterizzandosi per il livello di intimità che gli è peculiare.
 La visione poliamorosa è in linea con l’idea di fluidità e di impermanenza tipica del mondo contemporaneo, sebbene le sue origini remote siano ravvisabili nell’utopia socialista di Charles Fourier (1772-1837) e, più vicina a noi, nella rivoluzione sessuale degli anni ’60.
Cambia l’idea di fedeltà, che da un diritto  sull’altro si trasforma in un impegno reciproco di rispetto e cura privo di esclusività.
Tra i primi a rendersi conto che le relazioni stanno cambiando segno, il filosofo, sociologo ed economista Jacques Attali scrive: “Così come molte società accettano ora la possibilità di relazioni d’amore successive, presto riterremo accettabili e legali relazioni simultanee”.
In Italia spicca la singolare figura di Carlo Consiglio, zoologo di fama, autore, nel 2006, del libro “L’amore con più partner”, i cui argomenti antropologici anticipano di quattro anni quelli presenti nel bestseller americano “Sex at dawn: the prehistoric origins of modern sexuality”, firmato dallo psicologo Christopher Ryan e dalla psichiatra Cacilda Jethá. Ma la “bibbia del poliamore” rimane, sebbene un po’ datato – la prima edizione è del 1997 – “The ethical slut. A guide to infinite sexual possibilities”, di  Dossie Easton e Janet Hardy, la cui conclusione situa l’opera nel solco delle grandi visioni utopistiche del XX secolo: “Sogniamo un mondo in cui un giorno tutti saremo liberi di dichiarare il nostro amore alle persone della nostra vita, quali che esse siano, e quale che sia il nostro modo di amarle”.

In queste parole c’è sicuramente qualcosa dell’ingenuità puer della controcultura americana. Tuttavia consiglio di prenderle sul serio, di non snobbarle, perché nel prossimo futuro – forse già adesso – potremmo dover fare i conti con il poliamore, come nel recente passato abbiamo dovuto riconsiderare la posizione dell’omosessualità nella società e nei nostri studi professionali.
Una posizione non giudicante è indispensabile per comprendere il fenomeno e supportare i problemi più comuni: senso di colpa, paura dell’abbandono, gelosia, negoziazione dei limiti e del consenso, gestione dei figli e delle famiglie allargate, possibile gap tra posizione idealizzante nei confronti del poliamore e vissuto emotivo, gestione del “coming out” e, last but not least, timore del giudizio dello psicoterapeuta.

In effetti gli psicoterapeuti non informati tendono a mettere in relazione i comportamenti poliamorosi con il timore dell’impegno e dell’intimità, con una crisi matrimoniale o con problemi di identità.
Il dato interessante, che mostra quanto il mainstream condizioni anche la psicologia, è che sono viste in maniera meno giudicante le relazioni clandestine che quelle apertamente poliamorose: testimonianza del fatto che vengono considerati “naturali” gli stili di vita adottati dalla maggioranza.
Una ricerca condotta alla fine del secolo scorso ha identificato i tre ostacoli maggiori incontrati da chi intraprende una terapia avendo scelto stili di vita alternativi:  condanna sociale, pressione per tornare a una forma di relazione tradizionale, probabilità di ricevere una diagnosi psicopatologica. Lo scenario sta cambiando, anche grazie alla creazione di elenchi di terapeuti poli-friendly, in grado di accogliere la vita dei pazienti con atteggiamento comprensivo e non giudicante.
In caso di palese inconciliabilità tra il proprio sistema di valori e quello del paziente, il terapeuta dovrebbe avere l’onestà di non assumersi l’onere del caso. Dare per scontato che il fallimento di relazioni poliamorose sia dovuto alla struttura della relazione equivale a credere che la separazione di una coppia tradizionale sia imputabile alla scelta di uno stile di vita monogamo.

Ho affrontato il tema del mio intervento per motivi squisitamente metodologici. È giunto il tempo di chiedersi se l’ermeneutica psicoanalitica tradizionale sia in grado di render conto di così rapidi e radicali rimodellamenti.
È ancora sufficiente chiamare in causa le vicissitudini dell’Edipo, le imago parentali, le varie diadi letterali o proiettive?
La presente relazione vuole far luce su queste nuove realtà e interrogarsi se ci siano risposte più contestuali da condividere nella stanza d’analisi.

Luigi Turinese

Articolo pubblicato in ATTRAVERSO I CONFINI: INCONSCIO, ALTERITÀ, INDIVIDUAZIONE
 - ATTI DEL XVII CONVEGNO NAZIONALE DEL CENTRO ITALIANO DI PSICOLOGIA ANALITICA. A cura di Antonella Adorisio, Gianfranco D’Ingegno, Anna Moncelli, Francesca Picone (Aracne Editrice, Roma 2017) .Turinese, L.: “Le nuove relazioni: una sfida per la psicoanalisi” (pag. 273-277)


2 commenti:

Valter Psicofelicità ha detto...

Complimenti :-)
Una disamina ragionata, informata e mentalmente aperta della questione - cosa che nel nostro Paese sembra difficile persino alla categoria dei terapeuti.
Invece di rifugiarsi dietro i concetti di “Si deve” e “Giusto” (tipiche difese di idee deboli), si guarda a ciò che realmente accade e alle variegate possibilità delle relazioni umane.

Unknown ha detto...

Grazie davvero!


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