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"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia

venerdì 26 marzo 2010

Prospero Andreani: Il Viaggio come esperienza interiore

Intervista di Luigi Turinese
“L’innamoramento è un evento raro e fortuito,
che colpisce a una profondità incredibile. […]
Un analogo senso del destino […] e un’analoga
devozione possono caratterizzare l’innamoramento
per un luogo e addirittura per un lavoro […]”.
James Hillman




Prospero Andreani, vita e opere. Sono da sempre affascinato dal genere letterario della biografia e non sfuggo alla tentazione di cominciare questa intervista dai più elementari elementi biografici. Dove sei nato? E quando?

Sono nato il 10 giugno del 1946 a Bibbiano, in provincia di Reggio Emilia, in una famiglia operaia abbastanza numerosa: cinque figli, anzi sei se consideriamo una sorellina morta a otto mesi, come purtroppo capitava spesso a quell’epoca. Quando avevo quattro anni la mia famiglia si trasferì a Gussola, in provincia di Cremona, e successivamente ci avvicinammo ulteriormente alla città. Dei primi anni ho una memoria molto intensa, incardinata in immagini della Bassa Padana e del suo signore, il Po. Ho cominciato presto a lavorare e a diciotto anni ho prestato servizio militare, chiudendo così la fase della prima giovinezza.

A me pare che il tuo itinerario umano e artistico si dipani tra i due poli del nomadismo e della stanzialità. Sei d’accordo?

Penso di sì. In effetti, a parte le peregrinazioni familiari in terra padana, ho speso la terza decade di vita viaggiando, sebbene il centro da cui partivano i miei spostamenti non fosse più l’Italia ma Londra, dove mi trasferii attorno al 1970. Sono stato in Germania, sul Mar del Nord, in Spagna, persino in Florida sulle navi da crociera; era infatti un periodo in cui mi mantenevo lavorando in campo alberghiero, anche se l’attività cui dedicavo più energia era la pittura.

Quando rientrasti in Italia?

Nel 1974 morì mio padre e credo che quell’evento pose fine di fatto alla mia fase più visibilmente nomade, se vogliamo seguire la tua idea. Sempre seguendo l’idea di una dialettica nomadismo/stanzialità, appena dopo i trent’ anni mi stabilii a Roma, dove presi un lavoro stabile, che ho tuttora, presso il Ministero dei Beni Culturali.

Bene. Che ne è, a questo punto, della tua anima errante? L’hai sublimata nelle opere o l’hai coltivata anche letteralmente?

Ho ripreso a viaggiare sistematicamente a metà degli anni ’80. Nel 1989 andai in Turchia e rimasi letteralmente folgorato da quei paesaggi e dalla cultura islamica, tanto che ci tornai ancora numerose volte. Fu proprio nell’estremo est dell’Anatolia, a Kars e ad Ani, che avvertii il cambiamento; quando poi, a sud-est di Diyarkabir, trascorsi una notte nel monastero siro-ortodosso di Deirlu Zaferan, sentii un forte risveglio religioso. Di ritorno da quei lunghi viaggi iniziai a dipingere ad acquerello. Della metà degli anni ’90 sono i viaggi in Egitto e soprattutto in Giordania, che considero preparatori ma in un certo senso una difesa nei confronti di incontri che forse ancora temevo.

Preparatori a che cosa?

Ai miei viaggi in Siria. Nella primavera del 1997 andai in Siria e provai qualche cosa di molto simile a un violento innamoramento. Da allora ci tornai altre sei volte in tre anni.


Dunque i viaggi in Turchia, in Giordania e in Egitto erano delle inconsce approssimazioni alla Siria, che come una musa ti ha ispirato oltre un centinaio di acquerelli. Viene spontaneo chiederti che cosa cercassi in Medio Oriente.

E’ semplice: a me, padano, in quelle terre sembrò da subito di vivere qualcosa di importante. Era una sensazione di appartenenza, come se fossi approdato nei luoghi originari della nostra cultura religiosa e del mio immaginario. Potrà sembrarti strano ma trovavo in quei paesaggi echi dei paesaggi infantili; impressione che trovai confermata nella Siria del nord.

Spiegati meglio.

Credo che il denominatore comune sia rappresentato dal mondo rurale. Le residenze e le ville delle zone montagnose dei massicci calcarei sono edifici a due piani con un doppio ordine di colonne a proteggere l’entrata, grandi finestre e cortili recintati; un grande portone centrale si affaccia sulle strette vie del villaggio. Ecco, queste caratteristiche architettoniche mi riportavano alla memoria i casali contadini dei borghi padani.


Mi sembra che affiori il tema della nostalgia. Che posto ha la nostalgia in questa storia? Quando eri lì avevi la nostalgia dell’Italia? Se è così, che cosa ti ha spinto a tornare in Siria tante volte? E’ una variante del mal d’Africa?…

Sono diffidente nei confronti della retorica della nostalgia. Penso che sia un inganno per giustificare il ritorno. Insomma, ho sempre avuto il dubbio che Ulisse a volte volesse perdersi, non tornare a Itaca. Gilgamesh mi sembra molto più onesto: è un eroe senza scampo.

Tu però sei tornato, e sei tornato a dipingere quello che hai visto. Forse è come accade nell’amore, in cui la dimensione del desiderio si nutre dell’assenza e in questa sofferenza si rigenera. Quali sono gli elementi che ti hanno maggiormente impressionato nei tuoi viaggi in Siria?

Innanzitutto i piccoli villaggi nei dintorni di Aleppo, le cosiddette “città-morte”, che preferisco chiamare villaggi dimenticati. Non c’è vita umana ma restano intatte le sue vestigia. In quei luoghi ho provato un’intensa commozione. Ricordo bene le scalate sotto la pioggia, in mezzo al fango, per raggiungere torri o chiese smembrate, porte aperte nel vuoto. Ho avuto un approccio fisico a quelle pietre, che si reggono per miracolo e che una scossa di terremoto può distogliere per sempre da quel secolare equilibrio. Mi immaginavo lì quindici secoli fa.

Mi fai sentire la bellezza del Mistero. L’assenza di completezza di quelle architetture favorisce l’immaginazione ed evoca una fantasia di totalità; come se le lacune permettessero di ricostruire l’Assoluto. Un’esperienza religiosa…

Proprio così. Seppure i luoghi da lui descritti siano altri, in quei momenti ho sentito spesso come nume tutelare Gurdjieff, che nei suoi viaggi si trovò più volte al cospetto dei primi rudimenti, dimenticati, della cristianità. Confermavo così una sensazione avuta nei viaggi in Turchia, che filologicamente erano più gurdjieffiani.

Vorrei chiederti se nella tua esperienza di viaggiatore hai conosciuto la paura.

Quando si viaggia come ho viaggiato io, fuori dalle rotte turistiche, c’è un oggettivo pericolo di perdersi, che a volte si mescola alla vertigine del desiderio di perdersi.

Strapparsi dalla consuetudine, ingannare l’ovvietà: tutto questo ha un sapore autenticamente gurdjieffiano. Mi sembra che tu ti muova costantemente sul filo di rasoio, in bilico tra identità e disidentità, per trovarti. In questo senso il viaggio costituisce per te un’esperienza interiore, seppure sostanziata di elementi oggettivi, esteriori.


Prospero, sai che ti considero da sempre un pittore audacemente inattuale, così impermeabile all’obbligo di essere à la page da risultare d’avanguardia per una sorta di paradosso. Parlami della tua formazione artistica.


A dire il vero ho avuto una sensibilità artistica precoce. Prima di scoprire il disegno e la pittura mi affascinavano il teatro e la musica; cantavo arie d’opera e mi travestivo per incarnare meglio il personaggio. Voglio sottolineare che ero molto piccolo, potrò aver avuto cinque o sei anni. Poi, alle scuole elementari, ebbi il primo incontro importante: il maestro – lo voglio ricordare, si chiamava Bergamonti – dedicava al disegno il sabato mattina. Ebbi la prima tavolozza di acquerelli, e il maestro Bergamonti, che aveva intuito in me una qualche attitudine, mi separò dal gruppo perché potessi lavorare meglio. Ogni pezzo faceva il giro della scuola e venivo portato ad esempio. Rivedendo oggi quelle prime prove, mi impressiona notare la frequenza con cui dipingevo architetture all’interno delle quali situavo i personaggi; sai quanto le architetture abbiano un posto di rilievo nella mia pittura, fino agli acquerelli siriani. Frattanto, in quarta elementare iniziai a dipingere ad olio; l’anno seguente affrontai i primi studi tecnici e cominciai a studiare storia dell’arte e in particolare a leggere dei libri sugli impressionisti. Successivamente, non potendo permettermi una adeguata formazione scolastica, presi a dipingere copie di classici, seguito dalla maestra d’arte e pittrice Cristina Peri.

Siamo ormai agli anni dell’adolescenza, abitualmente stagione di utopie e di estremismi. Come fu la tua adolescenza?

Per certi versi fu molto dura. Infatti dovetti andare presto a lavorare e si stabilì, anche grazie alla mia natura introversa, una netta divisione tra vita diurna profana – e vita notturna – sacra o meglio consacrata all’arte: leggevo libri d’arte ma anche letteratura, soprattutto russa – “L’idiota” di Dostoevskij mi rapì al punto che oggi sospetto una sorta di identificazione…
Anche il cinema costituì fonte di ispirazione. In quel periodo mi fu di grande aiuto l’incoraggiamento del medico del paese, buon pittore della paesaggistica dolomitica.

Insomma, hai avuto anche tu un dottor Gachet… Finora abbiamo parlato degli anni della formazione. A quando risale il tuo ingresso esplicito nel mondo dell’arte e degli artisti?

Sicuramente al mio periodo londinese. Vedi, erano gli anni della controcultura. A Londra vissi in un primo tempo a Islington, poi ad Earl’s Court in una comune artistica in cui, tra sperimentazione musicale e liberazione sessuale, si scopriva l’aspetto concettuale dell’arte. Verificai la possibilità di superare la pittura di ispirazione naturalistica a favore di una visione surrealista, in parte influenzato dalla pittura di David Hockney: la figurazione, tutto sommato ancora legata a schemi tradizionali, si frantumò. L’elemento principale divenne una sorta di scrittura archetipica, fatta di ideogrammi memorizzati e tradotti come in una originale calligrafia, vera e propria poesia concreta. Il lavoro di questo periodo ha costituito il materiale di due mostre personali allestite nei primi anni del mio arrivo a Roma.

Come ho già scritto altrove, io considero la tua pittura, di qualunque periodo, sempre e comunque rappresentazione di archetipi. Penso ai dodici acrilici dedicati alle Città, in cui colpiscono a tutta prima la geometrizzazione, spinta fino alla stilizzazione, e l’effetto cromatico di luce fredda. Inoltre appare il tema del doppio: strutture raddoppiate, ripetizione di due moduli identici; o giustapposizione di due alterità – per esempio la cupola e il campanile – a tentare una possibile “coniunctio oppositorum”.

In effetti c’è un parallelo tra le Città – città sognate – e i villaggi dimenticati della Siria. Forse nei miei viaggi nel Mediterraneo ho trovato le immagini archetipiche che avevo da tempo iniziato a sognare e a dipingere. Questo processo, iniziato già ad Ani e ad Avanos in Cappadocia, ha trovato una sistematica realizzazione dopo l’escursione alla basilica di San Simeone: si sono uniti il fascino delle pietre, il fascino del sacro – penso alle chiese, alle ville ma anche alle torri dei reclusi e alle colonne degli stiliti – e il misticismo naturale dei paesaggi. Con un anacronistico spirito da Grand Tour, ho iniziato a realizzare bozzetti in loco che poi rielaboravo in studio ad Aleppo e a Roma, consentendo interferenze da parte della memoria psicologica.

Prospero Andreani, pittore con competenze di archeologo dilettante, mistico sotto le sembianze del viaggiatore, si è commosso per essersi ritrovato in quei luoghi e ci ha commosso nel restituirceli – veri e propri paesaggi dell’anima – con un sottile e pervasivo soggettivismo che spezza l’oggettività quasi fotografica delle immagini

In: Prospero Andreani - "I Villaggi dimenticati" Acquerelli Siria 1997-1999 (Edizioni della Bezuga, 2000)

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