Piazza N. Longobardi 3, 00145 Roma tel 06 51607592
"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia

domenica 28 marzo 2010

La psiche "plurale" nel teatro del Novecento

“Il valore del teatro non è più, oggi, nella sua funzione sociologica che è diffusa e indefinibile, ma nel caso psicologico preciso e distinto che assume per ogni attore e per ogni spettatore”
Eugenio Barba

“Attraverso il teatro, il fatto è colto nel quadro di una spettacolarità che significa per qualcuno: certamente per l’analista e possibilmente anche per il paziente”
Fausto Petrella


Per quel che sappiamo, all’origine delle civiltà storiche l’istinto imitativo e il gusto per la metamorfosi, veicolati da una forma di pensiero ancora intrisa di elementi magici, orientarono l’essere umano verso l’arte drammatica[1]. Quei primi rituali, dai cui rudimenti si svilupperà il teatro propriamente detto, nascevano dal bisogno di celebrare i terribili misteri della natura e di entrare in contatto con la divinità, esorcizzandone il potere distruttivo. Allo stesso tempo, la condivisione di tale esperienza costituiva il collante sociale di quelle primigenie civiltà.
La disposizione umana alla mimesi viene rilevata da Aristotele (384-322 a. C.) nella sua Poetica: “L’imitare è un istinto comune a tutti gli uomini fin dalla nascita” [2]. Aristotele pone l’origine del teatro nel momento in cui, dal popolo raccolto per celebrare gli dèi, un uomo, forse più dotato di istinto imitativo, si stacca dal coro e dal ditirambo e “incarna il dio”, che da quel momento agisce e parla con la sua voce.
La tragedia greca nasce dunque come rito insieme civile e religioso, inizialmente legato al culto di Dioniso. Essa rappresenta passioni ed azioni altrimenti innominabili, come il parricidio e l’incesto, e “per mezzo di pietà e paura porta a compimento la depurazione di siffatte emozioni”[3] (catarsi).

Il grande teatro tragico si identifica con Eschilo (525 a. C. – 456 a. C.) e con Sofocle (496 a. C. – 406 a. C.). Euripide (480 a. C. – 406 a. C.), che possiamo considerare l’antesignano della drammaturgia moderna, “tradisce” in senso realistico il dettato sacrale del teatro tragico, rappresentando gli dèi attraversati da passioni di qualità umana. Nietszche (1844-1900), come è noto, ne farà per questo il responsabile della morte della tragedia. “[…] lo spettatore fu portato da Euripide sulla scena. […] Per opera sua l’uomo della vita quotidiana si spinse, dalla parte riservata agli spettatori, sulla scena; lo specchio, in cui prima venivano riflessi solo i tratti grandi e arditi, mostrò ora quella meticolosa fedeltà che riproduce coscienziosamente anche le linee non riuscite della natura”[4].

Il realismo scenico è accentuato al massimo grado nel teatro romano, che deriva dal teatro etrusco ma raccoglie l’eredità del mondo ellenico, soprattutto le tematiche della nuova commedia Attica, il cui principale esponente è Aristofane (445 a. C. – 385 a. C.); a Roma l’attore non è più un adepto sacrale e deve aderire all’imperativo di Orazio (65 a. C – 8 a. C.) “si vis me flere… pianger tu devi se vuoi che io pianga…”.
Il graduale imporsi del cristianesimo porta a un temporaneo ma lungo sonno del teatro. Tuttavia l’umano bisogno di rappresentazione non viene meno e prende la forma del Dramma Sacro.

A metà del ‘500, con la nascita della Commedia dell’Arte, fanno la loro comparsa le maschere, vere e proprie caratterizzazioni tipologiche, dotate pertanto di forte valenza psicologica. Per la prima volta – corre l’anno 1560 – le donne vengono ammesse su di un palcoscenico. La Commedia dell’Arte, nata in Italia, si diffonde presto in Francia e quindi nel resto d’Europa. Nello stesso periodo, in Inghilterra, Cristopher Marlowe (1564-1593) spiana la strada a Shakespeare (1564-1616), che fa rivivere molti temi del teatro classico per poi librarsi verso più originali creazioni; si pensi a Prospero, immortalato ne La Tempesta: “Noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno”[5].

Il ‘600 francese vede all’opera il genio di Jean-Baptiste Poquelin, più noto come Molière (1622-1673), autore che conferisce al genere comico una inedita profondità.

In questo succinto excursus storico, dobbiamo menzionare l’attività drammaturgica di Goethe (1749-1832), la figura più rappresentativa di tutta la cultura tedesca.

Con la nascita del teatro moderno si verifica un profondo cambiamento nella drammaturgia. “L’industria dello spettacolo è prospera e porta al bilancio dello stato un importante contributo. Ma contemporaneamente si manifesta uno spirito di insoddisfazione e di ricerca. Teorici, esteti, scenografi e registi tentano di suscitare una drammaturgia più conforme alle aspirazioni di un’epoca in cerca di sé” [6]. Il norvegese Henrik Ibsen (1828-1906) è universalmente considerato il fondatore del teatro moderno. La sua opera si apre al simbolismo e ad argomenti legati alle relazioni personali piuttosto che ai problemi sociali. I primi drammi di Ibsen sono ispirati al mito di Sigfrido e Brunilde, a una forza misteriosa che lega il destino degli uomini e, se viene tradita, si ritorce contro di loro, condannandoli all’infelicità. I personaggi delle opere successive diventano via via più terreni, tuttavia murati dentro idee troppo alte per la limitata capacità umana. Rosmer, il protagonista di Rosmersholm, afferma di voler fare di ogni uomo una creatura nobile, liberandone lo spirito e purificandone la volontà. L’eroina del dramma, Rebekka West, è considerata da Freud un esempio di Edipo al femminile . Ella, senza saperlo, è stata l’amante di quello che credeva il suo padre adottivo e invece era il suo padre naturale: questa agnizione fa irrompere il senso colpa. Georg Groddeck, nella bellissima introduzione , legge invece l’opera come una grande metafora dell’eterna dialettica tra Eros e Tanathos, trascurando la tematica dell’incesto.
Senza entrare nel merito della diversa interpretazione di Freud e Groddeck, colpisce in ogni caso la valenza psicoanalitica dell’opera di Ibsen. Si pensi al tema di fondo di tanti suoi drammi: la ricerca dell’integrità e il conflitto tra il dovere verso se stessi e la responsabilità verso gli altri.

Gran parte del grande teatro del ‘900 è attraversato da tematiche esplorabili con lo strumento della psicoanalisi, fatta forse eccezione per la scuola tedesca che negli anni ’20, soprattutto ad opera di Erwin Piscator (1893-1966) e di Bertolt Brecht (1898-1956), tentò di attuare un teatro proletario che adeguasse la messa in scena a finalità politiche.

Psicologico è certamente gran parte del teatro di Luigi Pirandello (1867-1936). Sviluppando temi cari al contemporaneo “teatro grottesco”, di cui si possono portare ad esempio La maschera e il volto di Luigi Chiarelli e Marionette che passione di Rosso di San Secondo, Pirandello esprime il conflitto tra ruolo sociale, che garantisce ordine e sicurezza, e profondità individuale, perseguendo la quale si incontrano gli abissi vertiginosi della soggettività. Si tratta, usando un codice junghiano, dell’insopprimibile dialettica tra Persona e Anima: l’identificazione con la maschera ostacola l’individuazione. “La ricerca di un punto fermo in un mondo preso in un flusso costante è presente in tutte le opere di Pirandello, che rappresentano l’evanescenza della verità dissolta nell’infinità delle opinioni soggettive, che si trasformano in ogni momento”[9]. L’interesse per una realtà complessa (cfr. la definizione di Psicologia Complessa alla nota 19) trova la sua più completa espressione nelle tre commedie del “teatro nel teatro” (Sei personaggi in cerca d’autore del 1920, Ciascuno a suo modo del 1923; Questa sera si recita a soggetto del 1929); in esse Pirandello rompe la convenzione della quarta parete per poter esplorare i diversi livelli di illusione scenica e, coinvolgendo anche l’ambiente della sala, riesce a descrivere tre impacciati tentativi di creare un’illusione di realtà.
Tra il 1918 e il 1921, Pirandello raccoglie i suoi lavori in un primo corpus intitolandolo Maschere nude, un ossimoro che esprime bene il conflitto dei suoi personaggi.
In Sei personaggi in cerca d’autore, a un certo punto il Padre esclama: “Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi – veda – si sente uno, ma non è vero: è ‘tanti’, signore, è ‘tanti’ secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi: ‘uno’ con questo, ‘uno’ con quello – diversissimi!”[10]. Ben si comprende come Cesare Musatti abbia affermato che assistendo alle opere pirandelliane gli “pareva di respirare aria di psicoanalisi”[11]. La critica, d’altra parte, ha scorto nei Sei personaggi non solo il coagulo dell’universo immaginativo di Pirandello ma anche una testimonianza dei procedimenti scenici e delle motivazioni profonde dell’avanguardia novecentesca.


All’avanguardia appartiene sicuramente il rivoluzionario lavoro di Antonin Artaud (1896-1948), la cui cifra psicoanalitica è difficilmente trascurabile. “Una vera opera teatrale scuote il riposo dei sensi, libera l’inconscio compresso, spinge a una sorta di rivolta virtuale, impone alla collettività radunata un atteggiamento eroico e difficile”[12]. O ancora: “Considerare il teatro una funzione psicologica di seconda mano, e credere che i sogni stessi non siano altro che una funzione sostitutiva, significa diminuire la portata poetica profonda sia dei sogni che del teatro”[13]

Quella del teatro, d’altra parte, è una delle metafore fondanti del pensiero psicoanalitico. Non è privo di interesse il fatto che la psicoanalisi prenda le mosse dal modello psicopatologico dell’isteria, il cui nucleo clinico è rappresentato da un’accentuata teatralizzazione dei sintomi; si pensi anche al valore di certi termini, come scena primaria; o anche alla ritualità in qualche modo teatrale del setting analitico. Freud, in tutta la sua opera, fa riferimento ai grandi autori tragici, alla loro chiaroveggente coscienza e alla loro conoscenza psicologica dell’uomo. Li considera dei precursori che sembravano aver saputo da sempre quanto egli andava scoprendo con il suo metodo; e anche in un contemporaneo come Arthur Schnitzler (1862-1931) riconosce la capacità naturale di calarsi nell’inconscio, se è vero, come scrive, di averlo a lungo evitato “per una specie di ‘timore del sosia’”[14].

Nel saggio Personaggi psicopatici sulla scena Freud espone il suo pensiero circa la funzione del teatro. Alcuni dei concetti ivi espressi saranno da lui ripresi e ampliati in scritti successivi; tuttavia questo rimane l’unico lavoro in cui affronta il problema della rappresentazione scenica in maniera così puntuale.
“L’assistere come spettatore partecipe al ludo scenico dà all’adulto ciò che il ‘giuoco’ dà al bambino, la cui evidente attesa di poter emulare l’adulto trova in tal modo soddisfazione. Lo spettatore vive troppo poco intensamente, si sente ‘misero, al quale nulla di grande può accadere’, da tempo ha dovuto soffocare, o meglio rivolgere altrove (principio di realtà) la sua ambizione di porre sé stesso al centro della macchina mondiale, vuole sentire, agire, plasmare tutto a sua volontà: in breve, essere un eroe; e gli autori e gli attori teatrali glielo consentono, permettendogli di identificarsi con un eroe. Gli risparmiano al tempo stesso qualcosa, giacché lo spettatore sa che il condursi in tal modo da eroe arrecherebbe dolori […] che quasi annullerebbero il godimento, sa anche che potrebbe soccombere in un’unica lotta del genere contro le avversità. Perciò il suo godimento ha come presupposto l’illusione, ossia l’attenuazione della sofferenza dovuta alla certezza che in primo luogo chi si agita e soffre là sulla scena è un’altra persona e che in secondo luogo e in definitiva, si tratta solo di un giuoco da cui non può derivare alcun danno per la sua sicurezza personale. In queste circostanze […] nulla vieta di cedere senza timore a moti repressi come il bisogno di libertà religiosa, politica, sociale e sessuale”[15].
Secondo Freud, dunque, il rapporto tra spettatore e ciò che accade sulla scena è regolato dall’identificazione: egli può essere, dire e fare cose che nella realtà gli sono precluse e al contempo gli è garantita l’immunità rispetto a qualunque forma di trasgressione reale. Nello spettatore, infatti, c’è sempre qualche grado di consapevolezza circa il fatto che nello spettacolo si produce illusione: nel gioco come nel teatro il principio di realtà risulta momentaneamente sospeso.
Sulla stessa linea di pensiero, Otto Rank sostiene che nel teatro gli affetti vengono abreagiti attraverso l’identificazione dello spettatore con il personaggio e che questo processo rende terapeutico il teatro. Per Rank l’attore “[…] è paragonabile al medico che offre al nevrotico il pretesto per la cura; ma nell’attore ciò avviene attraverso un’illusione: l’attore è il medico tradotto nell’artistico”[16].
E’ evidente che, nell’ottica freudiana, lo spettatore è identificato con la coscienza dell’Io, giustapposta ad un alter-ego che rappresenta sulla scena ciò che il principio di realtà gli vieta; al termine del ludus egli potrà reindossare i suoi panni abituali (identificazione revocabile)[17] .
Il modello freudiano, tuttavia, si rivela insufficiente a rendere ragione della complessità psicologica di molte pièces, in particolar modo del teatro che abbiamo definito moderno, dei suoi personaggi minori, non eroici, deuteragonisti o antagonisti. Detto in altri termini, la topica freudiana è una chiave ermeneutica un po’ angusta.

Da questo punto di vista, Jung ci fornisce maggiori suggestioni. Infatti, come scrive Samuels, “[…] tutta la sua psicologia prende la forma di un’animazione di personaggi interiori”[18].
Per spiegare come Jung sia pervenuto alla formulazione della sua Psicologia Complessa[19] , occorre recuperare alcuni elementi storici.
Tutto ha inizio con l’impiego da parte di Jung del test di associazione. Inventato da Galton e modificato da Wundt nell’ambito della psicologia sperimentale, il test era stato introdotto in psichiatria da Kraepelin e Aschaffenburg nel 1896. Bleuler comincia ad applicarlo al Burgholzli per studiare i meccanismi di scissione primaria, utilizzando il fatto – dimostrato da Ziehan – che i tempi di reazione alla parola-stimolo si allungavano se lo stimolo era connesso con qualcosa che il paziente percepiva come sgradevole. Jung sposta l’applicazione di tali esperimenti dai disturbi dell’attenzione a quelli dell’emotività; in questo modo scopre che nella psiche inconscia abitano complessi a tonalità emozionale e affettiva. Caratteristiche di un complesso sono: “[…] tempo di reazione lungo, reazione singolare […], perseverazione, ripetizione stereotipa di una parola-reazione (“rappresentante di complesso”), […] lapsus linguae”[20]. L’emersione di un complesso si accompagna alla relativizzazione della coscienza egoica: “[…] la coscienza dell’Io non è che la marionetta che balla sul palcoscenico, ma è mossa da un ingranaggio nascosto e automatico”[21]. Il complesso, pertanto, è una vera e propria personalità parziale, con psicologia, intenzioni e comportamento autonomi, un contenuto psichico che si è staccato dalla coscienza.
Il complesso “si comporta […], nell’ambito della coscienza, come un corpus alienum animato”[22].
Non c’è bisogno di sottolineare più che tanto l’analogia tra i complessi e i personaggi di una pièce. Che la nostra non sia una forzatura del pensiero junghiano è testimoniato dallo stesso Jung quando definisce “[…] il teatro come un’istituzione per l’elaborazione pubblica dei complessi“[23]. In un certo senso, il drammaturgo è posseduto dai complessi; egli si deve – sia pure limitatamente al momento della creazione – offrire all’olocausto dell’inflazione da parte di nuclei complessuali inconsci. I complessi possiedono una potente inclinazione alla personificazione e l’artista, per così dire, ne approfitta. “Quando crea un personaggio per la scena […] crede forse che si tratti esclusivamente di un prodotto della sua fantasia; questo personaggio si è invece in un certo senso fatto da sé”[24]. Il drammaturgo sa dunque attraversare il ponte che mette in comunicazione l’Io e l’Inconscio.

Naturalmente dobbiamo qui chiamare in causa l’inconscio collettivo come “luogo di raccolta” delle immagini archetipiche, che sono le espressioni figurate degli archetipi. I grandi personaggi teatrali si potrebbero considerare come immagini archetipiche, il che spiegherebbe la loro universalità. In effetti, se ci teniamo al livello filologico dello sviluppo concettuale dei temi junghiani, assistiamo alla linea evolutiva complesso inconscio[25] ->immagine primordiale [26]->motivo archetipico [27]->archetipo [28].

Sul rapporto tra archetipi dell’inconscio collettivo e creatività, Jung è esplicito: “[…] esistono certe ‘condizioni inconsce presenti collettivamente’, le quali operano come regolatori e stimolatori dell’attività creatrice della fantasia. […] Essi procedono esattamente come le forze motrici dei sogni, ragion per cui l’immaginazione attiva […] rimpiazza fino a un certo punto anche i sogni”[29].

Ma che cos’è la creatività drammaturgica se non una particolare forma di immaginazione attiva? Essa, come il sogno, è un lampo creativo proveniente dal nucleo archetipico dei complessi.
“La via regia per l’inconscio non sono i sogni […] bensì i complessi”[30] , scrive Jung in contrapposizione con la nota affermazione di Freud; d’altra parte, egli postula l’affinità tra sogno e complesso autonomo e, in linea con il tema della presente ricerca, propone un modello del sogno tratto dallo schema del dramma classico:
1) Protagonisti e luogo dell’azione.
2) Esposizione.
3) Culmine.
4) Soluzione.

In un certo senso, il sogno e la creazione artistica provengono da uno stesso “luogo” psichico; un “luogo” che ospita – per citare ancora Jung – “il piccolo popolo dei complessi”, immagine pirandelliana di molteplicità psichica che ci ha suggerito l’espressione “psiche plurale”. Complesso evoca un’idea di patologia; ma la patologia contiene in sé il germe della cura, purché vi sia la capacità di evocare un livello simbolico: per questo il teatro può avere l’inestimabile funzione di costituire una sorta di terapia omeopatica dei complessi.

Vengono in mente le parole di Hillman: “[…] dentro l’afflizione c’è un complesso, dentro il complesso un archetipo, il quale a sua volta rimanda a un Dio”[31]. Si tratta del concetto hillmaniano di infirmitas dell’archetipo, strettamente legato al patologizzare come caratteristica fondante della psiche. In un mondo svuotato di riferimenti politeistici, “le divinità sono diventate malattie”[32]. All’estremo, allucinazioni e deliri costituiscono la testimonianza di invasioni da parte dei complessi. Si potrebbe dire che il fenomeno delle “voci” non sia dissimile dalle voci dei personaggi che si impongono al drammaturgo: un vero e proprio fenomeno di possessione artistica. Parafrasando allora l’affermazione di Jung sopra riportata, le divinità sono diventati personaggi.

Siamo giunti ad affermare che la fantasia del drammaturgo anima sulla scena incarnazioni di immagini archetipiche. Allargando i riferimenti e le amplificazioni, vogliamo chiamare in causa quello che Henry Corbin definisce il luogo delle immagini archetipiche: il mundus imaginalis, rielaborazione di quell’ 'alam al-mithal nel quale i filosofi iraniani ponevano le visioni dei profeti e dei mistici. Esso si riferisce a un livello di realtà situato tra le impressioni sensoriali e il mondo spirituale. Nel mundus imaginalis si assiste alla rappresentazione di immagini archetipiche cui può attingere – medium privilegiato – il drammaturgo. E’ una dimensione intermedia, confrontabile con l’esse in anima di cui parla Jung: “All’esse in intellectu fa difetto la realtà tangibile, all’ esse in re fa difetto lo spirito”[34]. Potremmo affermare che la produzione del pensiero puro rappresenti l’esse in intellectu, laddove lo scorrere della vita concreta significa esse in re.

All’esse in anima si accede attraverso la fantasia.
Un’ulteriore amplificazione ci pone di fronte a quell’area dell’illusione di cui parla Winnicott: “E’ un’area che […] esisterà come posto-di-riposo per l’individuo impegnato nel perpetuo compito umano di mantenere separate, e tuttavia correlate, la realtà interna e la realtà esterna”[35].

E, aggiungiamo noi, come luogo della creatività.

Renata Biserni e Luigi Turinese

1. L. Chancerel (1955), Storia del teatro, Bulzoni, Roma 1967.
2. Aristotele, Poetica (a cura di Manara Valgimigli), Laterza, Bari 1992, p. 203.
3. Aristotele, op. cit., p. 207.
4. Nietzsche F. (1871), La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1990, p. 76.
5. Shakespeare W., Tutte le opere, Sansoni, Firenze 1964, p. 1207.
6. Chancerel L., op. cit., p. 219
Freud S. (1916), “Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro psicoanalitico”, in Opere, vol. 8, Bollati Boringhieri Boringhieri, Torino 1989.
7. Freud S. (1916), “Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro psicoanalitico”, in Opere, vol. 8, Bollati Boringhieri Boringhieri, Torino 1989.
8. Groddeck G. (1910), Introduzione a Rosmersholm di Henrik Ibsen, Einaudi, Torino 1990, p. XXV.
9. Brockett O.G. (1987), Storia del teatro, Marsilio, Venezia 1996, p.558.
10.Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, in Tutto il teatro, Newton Compton, Roma 1994, p. 46.
11. Atti dello psicodramma, anni VI-VII, Ubaldini Editore, Roma 1982, p. 5.
12. Artaud A. (1964), Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968, p. 196.
13. Artaud A., op. cit., p. 207.
14. Freud S., Lettere 1873-1939, Bollati Boringhieri, Torino 1960, p. 312.
15. Freud S. (1905), Personaggi psicopatici sulla scena, in Opere, vol. 5, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 231-232.
16. Rank O. (1907), L’artista, SugarCo, Carnago (Va) 1994, p. 90.
17. Lavagetto M., Freud, la letteratura e altro, Einaudi, Torino 1985, p. 359.
18. Samuels A. (1989), La psiche al plurale, Bompiani, Milano 1994, p. 18.
19. Wolff T. (1981), Introduzione alla psicologia di Jung, Moretti&Vitali, Bergamo 1991, p. 27: “[…]Jung utilizza […] il termine ‘Psicologia Complessa’ […] quando parla dell’insieme della sua psicologia dal punto di vista teorico. La definizione ‘Psicologia Analitica’, invece, è appropriata quando si tratta del procedimento pratico dell’analisi psicologica”.
20. Jung C.G. (1905), “I tempi di reazione nell’esperimento associativo”, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1987, vol. 2, tomo 2, p. 80.
21. Jung C.G., op. cit., p.64.
22. Jung C.G. (1934), “Considerazioni generali sulla teoria dei complessi”, in Opere, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 118.
23. Jung C.G. (1912/1952), “Simboli della trasformazione”, in Opere, vol. 5, Bollati Boringhieri, Torino 1970, p. 48.
24. Jung C.G. (1922), “Psicologia analitica”, Mondadori, Milano 1975, p. 70.
25. Jung C.G. (1904), “Ricerche sperimentali sulle associazioni di individui normali” (in collaborazione con Franz Riklin), in Opere, vol. 2, tomo 1, Bollati Boringhieri, Torino 1984.
26. Jung C.G. (1912), “Trasformazioni e simboli della libido”, in Opere, vol. 5, Bollati Boringhieri, Torino 1970.
27. Jung C.G. (1917), “Psicologia dell’inconscio”, in Opere, vol. 7, Bollati Boringhieri, Torino 1983.
28. Jung C.G. (1952), “Simboli della trasformazione”, in Opere, vol. 5, Bollati Boringhieri, Torino 1970.
29. Jung C.G. (1946), “Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche”, in Opere, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 221.
30. Jung C.G. (1934), “Considerazioni generali sulla teoria dei complessi”, in Opere, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 118.
31. Hillman J. (1975), Re-visione della psicologia, Adelphi, Milano 1983, p. 188.
32. Jung C.G. (1929/1957), “Commento al ‘segreto del fiore d’oro”, in Opere, vol.13 Bollati Boringhieri, Torino 1988, p.47.
33. Cfr. ad esempio Corbin H., Prefazione a Miller D. – Hillman J. (1981), Il nuovo politeismo, Edizioni di Comunità, Milano 1983.
34. Jung C.G. (1921), “Tipi psicologici”, in Opere, vol. 6, Bollati Boringhieri, Torino 1969, p. 62.
35. Winnicott D. (1971), Gioco e realtà, Armando Editore, Roma 1974, pp. 25-26.

In: "Giornale Storico di Psicologia Dinamica", n° 40, Roma aprile 2000 Di Renzo, pp. 169-181

In foto: "Teatro spiato"

Nessun commento:


Libri di Luigi Turinese

Luigi Turinese Cantautore

Luigi Turinese Cantautore
Clicca sull'immagine per scoprire la sua musica, i suoi concerti, i suoi CD