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"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia

sabato 10 aprile 2010

Il concetto di Modello Reattivo come strumento ermeneutico

“Ogni segno, da solo, sembra morto”
(Wittgenstein, 1953; tr. it.: § 432)





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Nell’immaginario popolare – nutrito a colpi di E. R. – il medico è soprattutto un terapeuta eroico. Questo aspetto del suo lavoro, connesso all’archetipo del Salvatore, rappresenta tuttavia una verità parziale. Il medico, infatti, è prima di tutto un diagnosta.

L’efficacia della sua azione presuppone un corretto pensiero: potremmo chiamarlo il λòγος del terapeuta. Esso è posto in essere, non di rado, dall’esercizio di quella funzione irrazionale ma indispensabile che è l’intuizione. Si snoda così il percorso: occhio clinico (intuizione) -> ragionamento clinico->diagnosi->terapia.

In quanto diagnosta, il medico deve orientarsi nel dedalo dei segni del paziente, ordinandoli in una trama coerente. Più precisamente, egli deve sforzarsi di creare un ordine a partire dal caos rappresentato dai sintomi e dai segni che il paziente riferisce. Entrambe le categorie sono indizi di uno stato morboso; se non che i sintomi sono fenomeni soggettivi che il medico deve decodificare, mentre i segni sono fenomeni oggettivi che il medico è chiamato a riscontrare.

“Si distinguono, a seconda della prossimità della causa, i sintomi fondamentali […] dai sintomi accessori. Analogamente tra le cause dei sintomi si distinguono quelle patogenetiche (che provocano fenomeni) e quelle patoplastiche (che solo danno loro forma)” (Jaspers, 1913).

Vediamo come non si tratti di valutare sintomi isolati bensì di configurare costellazioni sintomatologiche significative. Perveniamo in questo modo alla nozione di sindrome.

“Una sindrome è fondamentalmente una nozione statistica basata su una covariazione” (Eysenck, 1971).

Per quanto riguarda i segni, la semiotica ci insegna che il segno pone in relazione significante e significato, dove

“per significante si intende il piano dell’espressione e per significato il piano del contenuto” (Galimberti, 1992).

Da questo momento in poi, per comodità epistemologica, utilizzerò indistintamente il termine segno per indicare qualsiasi fenomeno rientri in quell’alterazione dell’omeostasi che chiamiamo malattia.
La semeiotica medica, parente stretta della semiotica, riveste un ruolo preminente nel lavoro clinico. Essa, attraverso quattro momenti fisici (ispezione, palpazione, percussione, auscultazione), cui si affiancano sempre più numerosi metodi di diagnostica per immagini (semeiotica strumentale), si pone l’obiettivo di pervenire alla diagnosi clinica. Si potrebbe dire che la qualità maggiore di un buon medico sia un’estrema capacità di attenzione.

“Perché la medicina è sopra ogni altra cosa un’arte dell’osservare” (Turinese, 1997).
Da questo punto di vista, la medicina è una disciplina basata su di un’epistemologia segnica.
Se indaghiamo le qualità del segno in medicina, scopriamo che, in estrema sintesi, esso:
· rivela qualcosa
· è connesso ad altri segni
· si pone come tappa di una patogenesi
In un certo senso, il paziente è il testo di cui i segni rappresentano il linguaggio. Applicarsi a capire il paziente è dunque un esercizio ermeneutico.

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L’ermeneutica è l’arte dell’interpretazione. Per Platone, in particolare, essa riguarda più propriamente la tecnica dell’interpretazione, distinta dal problema della verità dell’interpretazione stessa. In ogni caso – ne fa fede l’etimologia – l’ermeneutica è connessa ad Ermes, il dio incaricato di scambiare messaggi tra gli dèi e gli uomini. Non mi sembra azzardato sostenere, con un pizzico di esercizio immaginale, che l’uomo-medico sia un sacerdote di Ermes, dal quale riceve sintomi come messaggi degli dèi. Questa tesi è suffragata da quanto suggerisce Jung:

“Le divinità sono diventate malattie, e Zeus non governa più l’Olimpo, ma il plesso solare ed è motivo di interesse per i medici, nella loro ora di consultazione” (Jung, 1929/1957).

Di nuovo, e sempre più esplicitamente, la semeiotica – lettura del σημεĩον – come ermeneutica applicata alla medicina e il paziente come testo da interpretare. Ecco allora riemergere tutte le mantiche sepolte dalle pretese scientiste: come la fisiognomica, finissima lettura della facies del paziente; o ancora la biotipologia, strumento semeiologico e interpretativo basato sull’analisi della struttura, della funzione e del temperamento e orientato verso la comprensione delle differenze individuali e la conseguente scelta di una terapia individualizzata (Turinese, 1997).

Queste discipline suscitano il problema cruciale di dare un contesto al segno. Ne deriva la necessità di un approccio categoriale, che consenta di mediare la singolarità del malato con la genericità dei criteri nosografici: approccio teso dunque non a uniformare ma a far emergere l’individualità, cosa ben compresa da Ivan Cavicchi quando scrive che

“[…] il medico oggi usa le categorie generali in uno sforzo di comprensione della singolarità” (Cavicchi, 2000).

È abbastanza difficile che un malato rientri, con la sua unicità e complessità personale, in una casella nosografica: si potrebbe dire – giocando un po’ con le parole – che egli rappresenti un caso clinico perché la sua storia risponde più al caso che alla necessità.

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“Il medico guarderà la ‘causa’ come ciò di cui è fatta una cosa (un virus è ‘causa’ della febbre) oppure come modello di un evento”
(Cavicchi, 2000).

Il concetto di modello, con la sua valenza di schema teorico e di paradigma, si presta molto bene a sottolineare la pertinenza del nostro discorso a una logica sistemica, che privilegia la relazione tra i fenomeni piuttosto che un rapporto di causalità lineare tra di essi. Siamo nell’ambito dichiarato delle scienze della complessità, le quali adottano un punto di vista globale che deriva dalla dinamica dei sistemi non lineari. L’olismo è un atteggiamento conoscitivo che nasce da qui e che si ritiene – a torto – patrimonio delle cosiddette medicine non convenzionali. A voler essere filologicamente precisi, anzi, il suo rizoma affonda nella cultura greca. Nel Fedro, il dialogo platonico sulla Bellezza, si impara sulla totalità dell’essere molto più che nei libelli dei medici olistici contemporanei.

SOCRATE
– E ritieni che sia possibile conoscere la natura dell’anima in modo degno di menzione, senza conoscere la natura dell’intero? (óλον)

FEDRO
– Se si deve credere a Ippocrate, che è della stirpe degli Asclepiadi, non è possibile conoscere neppure la natura del corpo, se non si segue questo metodo.
(Fedro, 270 a.C., in Platone)

Per Platone, dunque, si può perseguire la guarigione soltanto rispettando la totalità dell’essere (óλη ουσία). In quest’ultima si devono comprendere anche le cosiddette predisposizioni morbose che, in un approccio multicausale, rivestono il ruolo di cause interne. D’altra parte l’istruzione del medico, almeno fin quando questi era più clinico che patologo, comprendeva la nozione di diatesi.

“Per diatesi si intende la predisposizione dell’organismo verso particolari manifestazioni morbose: tale disposizione è di origine ereditaria legata ai fattori genotipici, per cui presenta spesso un carattere familiare, ed interessa o un solo tessuto ad ampia diffusione – ad esempio il tessuto linfatico, ecc. – o più tessuti ed organi deputati ad una delle grandi funzioni vitali – quali la regolazione delle attività metaboliche, ecc. - . Il significato della denominazione si è esteso nel linguaggio comune ad indicare non solo la predisposizione verso determinate affezioni ma anche le medesime affezioni in atto” (Rasario, 1975).

Considerare le diatesi del paziente aiutava a comprendere la direzione del suo vettore fisiopatologico, consentendo inoltre di veicolare delle norme igienico-dietetiche sufficientemente individuali. Man mano che il clinico si fece patologo, le diatesi divennero un ingombro inutilizzato ma anche relativamente inutilizzabile.

Da qualche tempo, la prospettiva sta mutando. Si assiste infatti ad uno slittamento dell’attenzione dai fenomeni esogeni a quelli endogeni: la genetica con i suoi studi sul genoma umano, la consapevolezza dell’origine multifattoriale di molte malattie, la nascita della PNEI (PsicoNeuroEndocrinoImmunologia); tutto questo ed altro ancora concorre a inquadrare la medicina in una cornice sistemica. Si ricomincia a parlare di terreno in ambiti convenzionali.

“Nel determinare la reattività del terreno, e quindi la suscettibilità alla malattia per ipo- o iperreattività del medesimo, agiscono sinergicamente tre sistemi biologici, la cui caratteristica comune è quella di esercitare un’azione generalizzata a livello di tutti gli organi e di tutti i tessuti: il sistema endocrino, il sistema nervoso vegetativo (o autonomo) e il sistema immunitario”
(Pancheri, 1980).



Negli sviluppi recenti della metodologia omeopatica c’è uno strumento euristico e in ultima analisi ermeneutico che, nella direzione succitata del procedere per modelli, a mio avviso supera, inglobandola, la nozione di diatesi. Si tratta del concetto di modello reattivo.

Nel presente contesto mi sembra poco interessante una valutazione critica complessiva dell’Omeopatia, per la quale rimando alla letteratura specializzata (Demarque, 1968/1981; Poitevin, 1987 e 1990; Bignamini-Felisi, 1999). Si tenga presente che l’architrave su cui poggia l’Omeopatia è il cosiddetto principio di similitudine, in base al quale viene sancito il parallelismo d’azione tra potere sperimentale e potere terapeutico di una sostanza. Il principio di similitudine, si badi bene, fu enunciato da Hahnemann (1755-1843) dopo sei anni di sperimentazioni sull’uomo sano (1796) ed è pertanto il frutto dell’applicazione rigorosa del metodo galileiano.

I fondamenti dell’Omeopatia possono essere riassunti dai seguenti enunciati:
1. Ogni sostanza farmacologicamente attiva è in grado di produrre un quadro clinico caratteristico della sostanza impiegata (sperimentazione patogenetica).
2. Ogni malato presenta un quadro clinico caratteristico della sua reattività nei confronti di una noxa morbosa.
3. La guarigione si ottiene con la somministrazione, a dosi deboli o infinitesimali, della sostanza che si sia mostrata sperimentalmente in grado di produrre un quadro clinico simile a quello che si vuole curare.

Ad esempio, il fatto che nella farmacopea omeopatica Phosphorus sia il miglior rimedio di alcune epatopatie lo si deve alla constatazione del suo potere epatotossico; l’uso di Apis mellifica in dermopatie aventi il pomfo come lesione elementare, allo stesso modo, risponde al parallelo potere del veleno d’ape di creare lesioni simili.

Nei casi cronici, la prescrizione si effettua sempre seguendo il principio di similitudine, ma la similitudine non si limita ai sintomi attuali, bensì viene estesa fino ad inglobare i sintomi concomitanti (allargamento nello spazio) e soprattutto gli antecedenti morbosi (allargamento nel tempo). Inoltre viene data ampia considerazione ai dati biotipologici; tra questi, rivestono particolare rilievo i cosiddetti modelli reattivi, paradigmi di riposta di cui dispone l’organismo di fronte alle sollecitazioni morbigene. Sono descritti in numero di quattro e ad ognuno di essi corrisponde una “famiglia farmacologica”, ovvero un certo numero di sostanze in grado di contrastarne l’azione patogena. Essi sono

“al tempo stesso clinici e terapeutici, vere e proprie costellazioni fisiopatologiche verosimilmente di origine genetica e in grado di mostrare una certa plasticità in risposta agli stimoli ambientali” (Turinese, 1997).

Se la descrizione dettagliata degli elementi di tutti i modelli reattivi appesantirebbe inutilmente il nostro discorso, può tuttavia tornare utile riportare uno schema delle caratteristiche di un paio di essi, limitando al minimo indispensabile quel tanto di “linguaggio gergale” che l’Omeopatia, come tutte le dottrine specialistiche, contiene.

Modello reattivo psorico
Può essere definito come la tendenza a reagire alternando manifestazioni cutanee con malattie interne che evolvono per crisi. Corrisponde bene, dunque, a certe malattie allergiche; ma evoca anche molti disturbi metabolici.

I fattori scatenanti o slatentizzanti questo modello reattivo, che come gli altri poggia su un fondo genetico, sembrano essere soprattutto la sedentarietà e gli errori igienico-dietetici, quali il ritmo di vita e la qualità dell’alimentazione tipici della civiltà urbana contemporanea.
Le caratteristiche fondamentali che permettono di riconoscerlo sono le seguenti:
· Alternanza dei sintomi tra loro.
· Periodicità delle manifestazioni morbose.
· Tropismo cutaneo preferenziale.
· Frequenti parassitosi.
· Congestione arteriosa.
· Malattie acute ad andamento clinico “netto”: esordio brusco, se c’è febbre defervescenza per crisi, convalescenza rapida.
· Miglioramento con l’eliminazione di liquidi fisiologici o patologici.
· Tendenza ai sovraccarichi metabolici (iperdislipidemia, iperuricemia, iperglicemia), con le possibili conseguenze del caso.
· Fondamentale estroversione, quasi un correlato psicologico della tendenziale “espressività patologica”: tutto ciò che decorre con modalità psorica è chiaro ed esteriorizzato.

Modello reattivo sicotico
Il termine sicosi si presta a qualche equivoco, innanzitutto per la sua persistenza in dermatologia con un altro significato, che è quello di malattia caratterizzata dall’infiammazione dei follicoli piliferi. A questa malattia non si fa riferimento alcuno in ambito omeopatico.

Da un certo punto di vista, l’omeopatia è etimologicamente più corretta, dal momento che Hahnemann scelse il termine riferendosi al greco σύκωσις, che sta per sicoma o tumore a fico, e che è derivato a sua volta da συκών, che significa fico ma nella letteratura medica stava a significare porro sulle palpebre, orzaiolo o anche tumore.

In effetti il modello reattivo sicotico sembra tradire uno squilibrio del sistema immunitario messo in atto da tutti i fattori in grado di creare immunosoppressione: antibioticoterapie prescritte in modo incongruo (per esempio nel corso di malattie virali, o in dosi e in tempi insufficienti, con il risultato di creare fenomeni di selezione batterica e quindi di resistenza); corticosteroidi somministrati per lungo tempo; farmaci immunosoppresori; infezioni prolungate o mal curate; e infine - fattori probabili ma da verificare - vaccinazioni troppo spesso ripetute, depressione psichica curata a lungo con psicofarmaci e prolungati soggiorni in climi umidi.
Caratteristiche ineludibili per identificare il modello reattivo sicotico sono:
· Ritenzione idrica con imbibizione dei tessuti.
· Infezioni catarrali croniche, specialmente a livello dell’apparato genitale e della sfera otorinolaringoiatrica.
· Formazione di escrescenze cutanee, di cisti, di tumori benigni.
· Congestione linfatica.
· Astenia fisica costante.
· Aggravamento con l’umidità.
· Interessamento dei tessuti periarticolari, con rigidità articolare.
· Malattie a decorso subcontinuo, ad evoluzione lenta, insidiosa, progressiva.
· Difficoltà di adattamento all’ambiente, soprattutto ai ritmi sociali; ne consegue una sorta di “agitazione inefficace”.


Come si vede, sussiste una certa parentela tra il concetto di diatesi e quello di modello reattivo, con la differenza che quest’ultimo, più plastico e dinamico, mi sembra sia più suscettibile di ricadute epistemologiche.
Innanzitutto, esso ricorda ad ogni passo il carattere di empirìa della conoscenza medica.
Inoltre, richiamandoci al concetto platonico di giusta misura, possiamo osservare come si possa stabilire una sorta di gerarchia involutiva dei modelli reattivi: si può notare infatti come, negli esempi sopra riportati, la sicosi costituisca evidentemente un aggravamento rispetto al modello rappresentato dalla psora.

Il modello reattivo non è soltanto, come la diatesi, un paradigma fisiopatologico ma anche la figura di una modalità difensiva. Potremmo definirlo come un network di segni, nell’ambito del quale il singolo segno non ha pregnanza, mentre l’insieme è qualcosa di più della somma delle parti.
Cavicchi (2000) distingue
· segni dimostrativi
· segni prognostici
· segni ananmnestici
Ebbene, il modello reattivo comprende tutte e tre queste tipologie di segni.
Esso, infine, si configura come punto di unione degli elementi esogeni e degli elementi endogeni all’interno dell’economia dell’organismo; e al tempo stesso consente di superarne la dicotomia.

Riferimenti Bibliografici
BIGNAMINI, M. – FELISI, E.: Metodologia omeopatica, Ambrosiana, Milano 1999.
CAVICCHI, I.: La medicina della scelta, Bollati boringhieri, Torino 2000.
DEMARQUE, D.: L’Homéopathie, médecine de l’expérience, Maisonneuve, Moulins-lès-Metz 1968/1981.
EYSENCK, H. J.: Handbook of abnormal psychology, Basic Books, New York 1971.
GALIMBERTI, U.: Dizionario di psicologia, Utet, Torino 1992.
JASPERS, K.: Psicopatologia generale, (1913/1959), Il Pensiero Scientifico, Roma (1964)
JUNG, C. G.: “Commento al ‘Segreto del fiore d’oro’”, (1929/1957), in Opere, volume 13, Bollati Boringhieri, Torino 1978.
PANCHERI, P.: Stress, emozioni, malattia, Mondadori, Milano 1980.
PLATONE: “Fedro”, in Tutti gli scritti (a cura di G. Reale), Rusconi, Milano 1991.
POITEVIN, B.: Le devenir de l’Homéopathie, Doin, Paris 1987.
POITEVIN, B. : Introduction à l’Homéopathie, CEDH, France 1990.
RASARIO, G. M.: Manuale di semeiotica medica, Idelson, Napoli 1975.
TURINESE, L.: Biotipologia. L’analisi del tipo nella pratica medica, Tecniche Nuove, Milano 1997.
WITTGENSTEIN, L.: Ricerche filosofiche, (1953), Einaudi, Torino 1967



Saggio di Luigi Turinese apparso su: AA.VV. I libri di Montag, Ed.: Manifestolibri2001


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Questo saggio è stato argomento dal titolo: "Il contributo della semeiotica omeopatica alla diagnosi medica convenzionale" presentato al 3° Convegno Nazionale SIOMI "La Complessità in Medicina" - Firenze 5/6/7 Marzo 2004 e pubblicato negli Atti del Convegno - pagg. 103/107

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