LA PSICOLOGIA ORACOLARE DI BIANCA GARUFI
Luigi Turinese
Alla memoria di B. G., mia iniziatrice ai misteri della Psiche
Riassunto
A un decennio dalla scomparsa e in attesa che nel 2018 si celebri il centenario della nascita, la figura di Bianca Garufi appare come quella di un caposaldo della Psicologia Analitica e in particolare della corrente archetipica, imperniata sul valore dell’immagine. Poetessa e letterata raffinata, Garufi percorre il Novecento con passo leggero eppure originalissimo. Nel presente articolo vengono ricordate le tappe della sua formazione e si passano sinteticamente in rassegna i suoi scritti di ambito psicoanalitico.
Abstract
Ten years after her passing and waiting for her centennial in 2018, Bianca Garufi appears as a stronghold in Analytical Psychology, particularly in Archetypal Psychology, centered on image. Elegant poetess and literary woman, Garufi crosses the Twentieth Century with a light and very original pace. This paper recalls her training steps and reviews her psychoanalytical works.
"Il Re dei tre Regni" foto Gianna Tarantino
Scrivere su colei che è stata la propria analista personale è un compito che fa tremare le vene e i polsi. Può persino essere un’operazione incosciente, venata di
hybris e sempre a rischio di deriva sentimentale.
Tuttavia ho deciso di cimentarmi, se non altro perché ritengo che si debba sempre cercare di restituire ciò che si è ricevuto.
Bianca Garufi (Roma, 21 luglio 1918 – Roma, 26 maggio 2006) appartiene alla prima generazione di analisti junghiani italiani, formati direttamente da
Ernst Bernhard nel leggendario studio di Via Gregoriana in Roma.
Erano tempi eroici, nitidamente rievocati dalla stessa
Garufi in un appassionato articolo dedicato a
Bernhard e intitolato “Una testimonianza” (Rivista di Psicologia Analitica, 54/96, pp. 69-96). “
A incontrare Bernhard mi aveva spinto con molta insistenza […] Bobi Bazlen” (p. 70). Già qui –
Roberto Bazlen fu consulente editoriale per le migliori case editrici italiane, nonché nume tutelare della nascente Adelphi – ci troviamo al cospetto di uno degli intellettuali che hanno segnato la vita culturale italiana del ‘900 e che fecero parte dell’
entourage di
Bianca Garufi.
Bazlen non meno di
Cesare Pavese, col quale Bianca ebbe un sodalizio tormentato e fecondo, come testimonia il corposo epistolario a cura di
Mariarosa Masoero pubblicato nel 2011 (“Una bellissima coppia discorde”, Olschki, Firenze). La giovane poetessa ispira al più maturo letterato la raccolta poetica “La terra e la morte” e soprattutto “Dialoghi con Leucò”, entrambi pubblicati nel 1947. L’ispirazione mitologica dei Dialoghi e la dedica “
A Bianca – Circe – Leucò” non lasciano dubbi sul ruolo di musa culturale avuto dalla
Garufi nella vita di
Pavese. Nel 1959, nove anni dopo il suicidio dello scrittore, vedrà la luce il romanzo a quattro mani “Fuoco grande” (Einaudi).
La futura psicologa analista ha dunque un DNA innanzitutto letterario.
Nata a Roma da famiglia siciliana
[1] , con l’eco del terremoto di Messina del 1908 nelle leggende familiari,
Bianca Garufi si trova – giovane donna di ideali progressisti – a partecipare attivamente alla Resistenza e nel dopoguerra si affilia al gruppo di intellettuali che gravita intorno alla casa editrice Einaudi.
Qui frequenta tra gli altri
Natalia Ginzburg e, appunto,
Cesare Pavese. Nel frattempo (1951) discute la prima tesi di laurea italiana su
Jung (“Struttura e dinamica della personalità nella psicologia di Carl Gustav Jung”), relatore il filosofo
Galvano Della Volpe.
Negli anni ’60 pubblica i due romanzi “Il fossile” (Einaudi, Torino 1962) e “Rosa cardinale” (Longanesi, Milano 1968) e continua ad accrescere la produzione poetica che verrà raccolta in un unico raffinato volume edito dal prestigioso editore
Vanni Scheiwiller (“Se non la vita. Poesie 1938-1991”, Scheiwiller, Milano 1992).
All’attività letteraria in proprio affianca quella di traduttrice, nell’ambito della quale mi piace ricordare la traduzione dal francese di un classico dell’antropologia: “Tristi tropici” di
Claude Levi-Strauss (Il Saggiatore, Milano 1960).
Dopo alcuni soggiorni all’estero intraprende l’attività clinica, entrando a far parte dell’AIPA.
Tra i suoi meriti, vorrei citare una naturale inclinazione a sprovincializzare il mondo junghiano italiano, grazie a una caratura internazionale che la conduce a ricoprire la carica di Vicepresidente della IAAP.
Alla sua lungimiranza dobbiamo anche il precoce apprezzamento per l’opera di
James Hillman, che a partire dagli anni ’70, anche grazie alla sua mediazione, inizia un fertile rapporto con il nostro Paese, considerato come la culla della Psicologia Archetipica e più volte visitato, con il risultato di una crescente osmosi culturale.
Ricordo quando
Bianca mi parlò della folgorazione avuta nel leggere l’ultima parte de “Il mito dell’analisi”
[2] (“Sulla femminilità psicologica”), che la spinse a contattare lo junghiano eretico, ancora poco conosciuto in Italia
[3]. Non v’è dubbio che il ruolo centrale svolto dal “fare anima” rese il
sistema asistematico di
Hillman particolarmente attraente agli occhi dell’autrice di “Femminazione”
[4] .
La radice biografica e culturale siciliana spinge
Bianca a guardare alla Psicologia Archetipica come alla corrente post-junghiana più adatta ad accogliere il suo peculiare amore per le immagini, che la rendeva capace di entrare col paziente nelle pieghe dei sogni fino a ricavarne l’essenza. Senza nulla togliere alla sua cifra intellettuale, che come vedremo è stata di tutto rispetto, mi piace pensare
Bianca come la sacerdotessa di una
psicologia oracolare. Negli ultimi anni di attività, quando una grave malattia agli occhi l’aveva privata del piacere di leggere in maniera disinvolta, era emozionante osservare come si lasciasse rapire dalle immagini dei sogni che le venivano raccontati in seduta. Sembrava entrare nel sogno con tutta se stessa e ne tornava sempre con illuminanti associazioni che passo dopo passo contribuivano a costruire nell’analizzato quell’
io onirico di cui
Hillman auspica la nascita.
Tra i suoi molti lasciti, ho portato con me nella mia attività clinica una allocuzione semplice ma profonda:
piano piano, che alludendo ai tempi metabolici della psiche è anche un formidabile suggerimento ansiolitico.
Il lavoro di
Bianca Garufi era una dimostrazione empirica del valore anche clinico e non soltanto culturale della psicoterapia archetipica. Come è noto, difatti, una delle critiche più frequenti, quasi retorica, che si muove alla Psicologia Archetipica è di essere debole dal punto di vista clinico. Ebbene, sia il lavoro di
Bianca sia quello, teoricamente certo più robusto, di
James Hillman, dimostrano la superficialità di tale critica. Oltre a introdurre in Italia il lavoro del Maestro di Atlantic City, la
Garufi ha fatto da “madrina” ad altri importanti analisti junghiani di area archetipica. Tra i maggiori ricordiamo
Rafael Lopez-Pedraza e
Adolf Guggenbühl-Craig, autore tra l’altro di un libro importante, di cui
Bianca curò la pubblicazione in lingua italiana e per il quale scrisse la prefazione: “Al di sopra del malato e della malattia” (Raffaello Cortina, Milano 1987).
In ambito psicoanalitico,
Bianca Garufi – simile in questo al suo Maestro
Ernst Bernhard – non ha lasciato libri compiuti ma soltanto articoli sparsi, pubblicati in Italia
[5] prevalentemente sulla Rivista di Psicologia Analitica e su Anima.
“Sul preconcetto di inferiorità della donna. Alcune riflessioni sul femminile dal punto di vista della Psicanalisi e della Psicologia analitica” (RPA, 16/77, pp. 19-46) è forse il suo articolo più completo e complesso: un vero e proprio saggio, equilibrato, junghiano nello spirito ma capace di riconoscere il genio di
Freud. Trovo particolarmente interessante, in un saggio scritto in anni segnati dal femminismo da parte di un’autrice dichiaratamente femminista, la relativizzazione critica della posizione di
Emma Jung, giudicata in definitiva tiepida e non abbastanza coraggiosa. “Man mano che le donne diventano più coscienti del loro proprio potenziale, il matrimonio patriarcale diventa sempre più formale e insostenibile” (p. 29). Profetico.
Figure relativamente poco note al
mainstream analitico come
Esther Harding e
Robert Grinnell sono valutate come meritano, mentre un mostro sacro come
Erich Neumann riceve la sua dose di critiche: “Le teorie di
Neumann sono, senza il minimo dubbio, affascinanti, però nell’approfondirle una donna non può non sentirsi sostanzialmente lasciata fuori”(p. 30).
Tra i grandi post-junghiani, il solo
Hillman [6] sembra incontrare i favori (quasi) completi dell’autrice: “La soluzione alla quale
Hillman giunge ci sembra l’elaborazione più attuale delle risposte finora date al problema del femminile nell’ambito della psicologia del profondo. Egli infatti vede la reintegrazione, la riaccettazione del femminile non come una mèta ma come un dato di fatto” (p. 41). Ma
Bianca vola più in alto, oltre
Hillman: “Così come
Hillman vorrebbe che l’integrazione del femminile nell’uomo sia considerato un dato di fatto perché l’uomo possa ritrovare la propria anima, così vorremmo che la realizzazione del maschile venisse considerato un dato di fatto affinché la donna possa ritrovare la propria anima […] Che possa esistere un’umanità nella quale la mente e l’anima abbiano la stessa importanza e possano essere appannaggio di ambo i sessi sembra impossibile, invece è solo difficile” (p. 44).
L’assimilazione del metodo archetipico nell’universo poetico e apparentemente “leggero” di
Bianca si può apprezzare compiutamente in “La moda come relazione corpo-psiche” (RPA, 23/81, pp. 53-69), argomento al quale l’autrice afferma di applicare un “approccio immaginistico” (p. 57). Il bisogno umano di ornarsi viene ascritto all’istinto creativo postulato da
Jung. Quindi il colpo d’ala: “Come dal «crudo al cotto» per quanto riguarda i cibi, potremmo dire dal nudo al decorato per quanto riguarda il corpo. Decorarsi allora potrebbe essere considerato una sorta di elaborazione alchemica dell’immagine che si ha di sé” (p.. 59-60).
“L’interpretazione innata” (Anima, 4, autunno 1990, pp. 39-46) costituisce un esempio di come un breve articolo dal linguaggio precipuamente filosofico –
Jung vi è presentato come una sorta di antesignano della decostruzione
à la Derrida, un post-moderno
ante litteram – possa sfociare in un estuario decisamente clinico: “L’interpretazione è buona purché: 1. Essa conservi e il
setting e un vero contatto con la psiche. 2. Dia la parola anche alle immagini invece di darla sempre e solo all’Io. 3. Sensibilizzi alla sacralità del basso, così come si è sempre sacralizzato l’alto. 4. Mantenga l’analista in rapporto con la sua ferita segreta, ed insegni al paziente a convivere con la propria. 5. Per quanto possibile incoraggi il valore del gioco, della cordialità e dell’ironia. 6. E,
dulcis in fundo, abbia l’abilità di riportare in vita la sua gemella, l’interpretazione innata” (p. 46). Ovvero il naturale istinto di spiegarsi il mondo.
“Reale e surreale. Note fra sonno e veglia” (Anima, 1991, pp. 7-16) richiama sin dal titolo il celebre saggio, breve ma illuminante, scritto da
Jung nel 1933 e intitolato Realtà e surrealtà (Jung, Opere complete, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 1976). Vi si può apprezzare la qualità letteraria della scrittura saggistica della
Garufi, da questo punto di vista
rara avis – occorre dirlo – rispetto alla media della produzione media di ambito psicoanalitico. “Realtà-surrealtà, due dimensioni insite nella vita, nel mondo, e quindi in noi, e che unitamente ad infinite altre coppie di dimensioni dà, a noi, e a tutto quanto è intorno a noi, sostanza e valore pluridimensionale” (p. 9). Un altro Profeta dell’immaginale viene chiamato in causa: “Sarebbe utile […] chiedere lumi a
Gaston Bachelard, lo studioso francese che ha dedicato tutta la sua vita alla surrealtà, e alla realtà della surrealtà” (p. 12).
Dello stesso prolifico anno è “Un esempio di funzione trascendente” (RPA, 43/91, pp. 55-70), articolo dettagliato e clinicamente avvertito, non privo di elementi di teoria della clinica, come si può apprezzare nella parte finale, dedicata al metodo, tutt’affatto junghiano, dell’amplificazione. Il
leit-motiv è costituito da un caso clinico in cui ricorre il tema onirico del serpente: immagine archetipica che “appare […] spesso nei sogni e nelle fantasie quando la mente conscia si allontana dalle sue basi istintuali” (p. 57). La funzione trascendente chiamata in causa sin dal titolo indica nell’opera di
Jung l’esito del confronto tra istanze psichiche opposte: quando l’Io riesce a mantenerle in uno stato di tensione creativa senza identificarsi con una delle due potrà crearsi una condizione nuova in grado di trascendere il conflitto tra gli opposti.
Altro articolo colto e denso di implicazioni è “Sull’immagine” (RPA, 50/94, p.. 139-156). Oltre alla pregnanza del tema, squisitamente junghiano, scritto in termini filosoficamente ineccepibili e inattaccabile anche dal punto di vista medico-psichiatrico (a p. 153 si trova una interessante digressione sull’argomento delle allucinazioni, molto acutamente distinte dalle visioni), vi sono particolari che meritano attenzione: tra tutti la dedica “A
Robert Avens con adesione e amicizia”. Probabilmente pochi ricorderanno questa singolare figura di filosofo lettone (1923-2006), di formazione europea, Professore Emerito di Studi Religiosi negli Stati Uniti. Studioso tra l’altro di
Henry Corbin, uno dei padri riconosciuti della Psicologia Archetipica grazie alla centralità nei suoi scritti del
mundus imaginalis,
Avens fu autore nel 1980 di un libro importante, di cui cinque anni più tardi
Bianca curò con amore la traduzione in lingua italiana: “L’immaginazione è realtà. Una lettura radicale delle opere di Jung, Hillman, Barfield, Cassirer” (Edizioni di Comunità, Milano 1985). Il titolo dice tutto. In un’epoca che sembra ormai lontana, in cui l’analisi poteva comprendere – quando la situazione lo richiedeva – anche suggestioni e suggerimenti bibliografici, questo era un testo che
Bianca appassionatamente chiamava in causa. L’eleganza con cui venivano immessi nell’ora analitica testi e punti di vista era tale da non disturbare mai il
setting. Erano cenni, associazioni laterali, semplici mezzi di amplificazione; ma nel tempo si comprendeva quanto fossero stati mezzi abili per contribuire ad ampliare la coscienza. Ancora ho memoria del primo incontro con la letteratura di
Clarice Lispector o la scoperta di
Evangelos Christou, autore de Il logos dell’anima (Città Nuova, Roma 1987; ed. or. 1977), un testo impervio con una bella prefazione di
Hillman.
Avvicinandosi agli ottanta anni e soprattutto con l’aggravarsi dei problemi alla vista, i contributi teorici e la partecipazione attiva al dibattito analitico naturalmente si attenuarono.
È di un certo interesse un breve scritto del 1996 dal titolo “L’assassino interiore” (Anima, 1996, pp. 93-97): il caso di una donna i cui sogni rivelano la presenza di un “Barbablù interiore”, responsabile, ben più delle repressioni sociali, delle sue difficoltà evolutive. “Oggi, per la donna moderna, il compito non è più soltanto quello di lottare per la parità dei diritti umani, etici, civili […] Riconoscere, e forse debellare l’assassino interiore, può infatti costituire per la dimensione femminile una lotta ancora più ardua e più dura di quella sostenuta prima. Si tratta di […] un contenuto in cui il maschile ha subito una torsione, che da complementare e creativo come avrebbe potuto essere, lo ha reso antagonista e distruttivo” (p. 96).
La perdita del marito
Pierre Denivelle aggravò definitivamente gli insulti dell’età e
Bianca sembrò farsi tutta Anima, con quel che ne seguì nei termini dell’affievolirsi della vita del Logos. Tuttavia, quando demmo vita a quell’irripetibile mosaico di pensiero estetico che fu
“Caro Hillman. Venticinque scambi epistolari con James Hillman” (a cura di Riccardo Mondo e Luigi Turinese, Bollati Boringhieri, Torino 2004), io e Riccardo Mondo volemmo fortemente che la prima lettera dell’epistolario (“Alma Mater: per un Logos del sentimento”, pp. 37-43) fosse a firma di
Bianca Garufi. Non nascondo che quel faticoso e commovente commiato dalla vita intellettuale necessitò un robusto
editing: eppure non avemmo il minimo dubbio che poggiare il libro su quella pietra angolare fosse un doveroso atto di gratitudine. “Caro Jim, affrontare il tuo pensiero non è facile. L’unico modo per farlo mi è sempre sembrato poter disporre insieme del rigore dell’analista e della passione della letterata:
logos e eros, ancora” (p. 38).
Non vorrei che aver voluto chiudere l’articolo su questo episodio possa apparire come un cedimento sentimentale.
Bianca Garufi è stata molto di più che un nume protettore, ha svolto un ruolo che sopravanza di molto l’incoraggiamento affettuoso a due giovani analisti che si cimentavano in un’opera forse più grande di loro. Ho cercato di dimostrarlo passando sinteticamente in rassegna i suoi apporti teorici alla nostra disciplina e penso che sia giunto il momento, a oltre dieci anni dalla sua scomparsa, di tornare su alcuni temi e soprattutto su un modo di fare psicologia che è anche un modo di
fare anima.
Note:
Articolo pubblicatao su enkelados - Rivista Mediterranea di Psicologia Analitica (Nuova Ipsa Editore), Anno V,
n 6/2017, pp 49-55