Tra tanta manualistica di basso profilo, il libro di Bozak emerge senza difficoltà come una delle cose migliori scritte in Italia sul Tai Chi Chuan. La sua struttura, oltre tutto., non è quella del manuale, e presenta un'organizzazione non lineare ma piuttosto circolare, si sarebbe tentati di dire a spirale; non dal semplice al complesso, ma da un'introduzione teorica ad una sezione pratica: accarezza dei temi generali per poi riprenderli da un'altra angolazione, e anche la descrizione dei movimenti non ha nulla di didascalico, servendo semmai la causa filosofica.
Le immagini di quelli che potremmo definire gli snodi principali della sequenza di movimenti del Tai Chi sono rappresentate da tre maggiori maestri di questo secolo: Grant Muradoff, di cui l'autore è stato allievo.
Cheng Man-ch'ing e Yang Ming-Shi.
I dialoghi, frequentemente riportai, tra Bozak e i suoi allievi, contribuiscono a definire al meglio questa pratica. Il tono di tanto in tanto si fa solenne, con spruzzate di retorica antiintellettualistica; si potrebbe osservare, a questo proposito, che certe letteralizzazioni dimostrative presenti nel libro sono, al contrario, massimamente intelletualistiche. Mi riferisco al vezzo di omettere il punto al termine della frase finale di ogni paragrafo, per sottolineare che il discorso rimane aperto; oppure all'uso della prima persona plurale, che può ingenerare effetti di involontaria comicità, come quando, ad un'allieva che gli chiede il perché di quel modo di esprimersi, Bosak risponde (pag. 58): "... non diciamo più "io" ma "noi" ... Tempo fa ci è successo il prodigio: il nostro "io" è caduto, si è dissolto ..." Beato lui! Anzi, beati "loro".
Luigi Turinese
Recensione apparsa nella rubrica "Libri" di "PARAMITA, Quaderni di Buddhismo per la pratica e per il dialogo", Anno XIII, n.49, Gennaio-Marzo 1994
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