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"La qualità maggiore di un buon medico è un'estrema capacità di attenzione, perché la medicina è sopra ogni altra cosa un'arte dell'osservare" Luigi Turinese in Biotipologia

martedì 14 dicembre 2010

La riflessione sul tipo psicologico nel cammino spirituale. Tipologia e individuazione.

In ambito psicoanalitico, la riflessione più articolata sui tipi psicologici è quella espressa da C.G. Jung, che dedicò all’argomento una delle sue opere fondamentali, Tipi psicologici, apparsa nel 1921.
Già all’indomani della rottura dottrinale con Freud, avvenuta nel 1912, Jung aveva iniziato ad occuparsi della questione dei differenti tipi psicologici (Jung, 1913; 1917/1943); tale interesse, probabilmente, costituì una delle linee di ricerca che lo allontanò dal maestro di Vienna. Freud infatti, obbedendo probabilmente ad un interno monoteismo, cercava di stabilire i fondamenti di un funzionamento universale della psiche umana; mentre Jung era più interessato a valorizzare le differenze. In uno dei passi conclusivi di Tipi psicologici leggiamo infatti: “Non dubito che i miei avversari si adopereranno per eliminare il problema dei tipi dalla lista degli argomenti da trattare scientificamente, giacché per ogni teoria dei processi psichici che pretenda d’avere un valore universale, il problema dei tipi costituisce certo un ostacolo scomodo” (Jung, 1921: 496).
In Tipi psicologici, i capitoli più interessanti per il nostro tema sono il decimo e l’undicesimo. Nel capitolo 10 (Descrizione generale dei tipi), Jung distingue innanzitutto due tipi generali di atteggiamento: estroverso ed introverso, a seconda della direzione del loro interesse e dell’orientamento della libido [1].
L’estroversione designa l’orientamento della libido verso l’esterno, in un movimento di interesse verso l’oggetto. L’introversione definisce il rivolgersi della libido verso l’interno del soggetto, il movimento dell’interesse dall’oggetto verso il soggetto e verso i suoi processi psicologici.
Dopo avere precisato i due orientamenti psicologici fondamentali, Jung passa a descrivere quattro funzioni della coscienza, che definisce come “forme di attività psichica che in circostanze diverse rimangono fondamentalmente uguali a se stesse” (Jung, 1921: 482) Esse sono pensiero, sentimento, intuizione e sensazione; le prime due sono razionali, le seconde irrazionali.
Il pensiero è la funzione che dà il nome alle cose e stabilisce i nessi tra i contenuti rappresentativi.
Il sentimento permette all’io di formulare giudizi di valore, di accettazione o di rifiuto.
L’intuizione è la funzione che trasmette la percezione per via inconscia, attraverso “lampi” che ci indicano le possibilità contenute in una situazione.
La sensazione ci permette il contatto con la realtà conoscibile attraverso i sensi.
In ogni individuo c’è una funzione per così dire trainante (funzione superiore), che guida l’approccio alla realtà; l’altra funzione della stessa coppia è solitamente in posizione sommersa (funzione inferiore), cosicché, ad esempio, ad una funzione sentimento in posizione di privilegio fa da contraltare una funzione pensiero largamente indifferenziata.
Una funzione ausiliaria affianca quella in posizione dominante, ed è generalmente derivata dalla coppia di funzioni opposta a quella cui appartiene la funzione superiore; per mantenerci nell’esempio fatto sopra, può essere l’intuizione oppure la sensazione. La terza funzione, parzialmente inconscia, in quanto tale può aiutare ad entrare nel campo inconscio della funzione inferiore. C’è un’opposizione complementare anche per quanto riguarda l’orientamento generale della libido, per cui ad un’estroversione nel campo della coscienza corrisponde un’introversione inconscia. Naturalmente accade che l’adattamento si realizzi sulla scia della funzione superiore, che però corre il rischio, in questo modo, di ipertrofizzarsi, dando luogo ad una personalità unilaterale.
Compito della psicoterapia sarà dunque, tra l’altro, di consentire al paziente di immergersi progressivamente fino a raggiungere il territorio della funzione inferiore.

Si potrebbe osservare come tale obiettivo sia compreso di norma in un cammino spirituale, intendendosi quest’ultimo anche come un affinamento delle proprie qualità accompagnato da una parallela aspirazione a emendarsi dai lati-ombra del carattere che può esser fatta coincidere con il lavoro psicologico sulla funzione inferiore.

Se consideriamo quella di Jung l’elaborazione più complessa tra le tipologie psicologiche, è anche perché si tratta di una tipologia dinamica e non statica. Mentre per Freud ogni tipo libidico è in qualche modo patologico, eccezion fatta per quel modello virtuale che è il tipo genitale, Jung considera all’origine normale – così come naturalmente suscettibile di patologia – ogni tipo. I tipi junghiani sono cioè modelli convenzionali che imbrigliano la pluralità virtualmente infinita degli individui in forme quantitativamente finite.

Vista da questa angolazione, la tipologia non è una scienza naturale bensì un espediente euristico: attraverso la metafora del tipo ci si avvicina alla conoscenza dell’individuo, che in quanto unico è incommensurabile.
Indagare sul tipo psicologico significa scandagliare i versanti del gioco dinamico tra conscio e inconscio e prendere atto dello statuto soggettivo della psicologia, che si configura di conseguenza come una disciplina ermeneutica piuttosto che come una scienza della natura. In questa accezione, lo studio del tipo diventa un altro modo di esercitare la psiche – ovvero di fare anima (Hillman, 1975).
A proposito dell’anima, Hillman fa sua l’espressione fare anima, mutuata dall’ingiunzione del poeta John Keats (1795-1821): “Chiamate, vi prego, il mondo ‘la valle del fare anima’. Allora scoprirete a che cosa serve il mondo”. Ogni attenzione alle manifestazioni della psiche è un fare anima.

Ogni tipo ha una sua natura entelechiale, reca in sé il suo telos. Nel tipo si cela il destino di un individuo: il destino in quanto portatore di una vocazione, di un’immagine che lo definisce. Come direbbe Hillman, di un daimon (Hillman, 1996). Il tipo condiziona anche il percorso individuativo, che si dipana in un perenne confronto tra la dotazione naturale e le richieste del collettivo. In questo opus contra naturam riconosciamo un aspetto della dialettica platonica tra Nous e Ananke, Ragione e Necessità.

Il lavoro psicologico sul proprio tipo contiene già di per sé una fantasia di individuazione. Il concetto di individuazione è mutuato dall’alchimista cinquecentesco Gerard Dorn e soprattutto da Schopenhauer (1788–1860), che parlavano di principium individuationis.
Individuarsi significa in primo luogo assecondare il proprio tipo, significa uscire da tutte quelle identificazioni – parentali, gruppali, socio-culturali – che rappresentano altrettante condizioni uroboriche. Come scrive Jung nell’ultimo capitolo dei Tipi psicologici, intitolato “Definizioni”: “L’individuazione coincide con il processo di sviluppo della coscienza dall’originario stato di identità” (Jung, 1921: 464). Potremmo dire che l’individuazione consiste nell’allontanamento progressivo dalla realtà primigenia per giungere, dapprima “approfittando” delle funzioni dominanti e successivamente confrontandosi con quelle inferiori, alla differenziazione cosciente.
L’individuazione non ha altro scopo che liberare il Sé, per un lato dai falsi involucri della Persona, per l’altro dal potere suggestivo delle immagini inconsce” (Jung, 1928: 174).

Ai fini dell’individuazione, pertanto sembrerebbe necessario differenziarsi dal collettivo. Si comprende la delicata dinamica che deve affrontare soprattutto chi, per tipologia, possieda caratteristiche lontane da quelle privilegiate dalla cultura dominante. Come scrive Mario Trevi: “Vivere ‘individualmente’ significa […] vivere secondo la propria dotazione naturale, lottando - se ne è il caso – contro l’ambiente che potrebbe privilegiare altre costellazioni psicologiche” ( Trevi, 1993: 70). Ma non è facile neppure il cammino di chi, apparentemente “premiato” dalla concordanza tra i suoi valori psicologici “naturali” e le richieste del collettivo, debba affrontare l’opera – ingrata proprio perché apparentemente non necessaria – di integrazione dell’atteggiamento e delle funzioni meno riconosciute dal collettivo per perseguire quella rotunditas che è l’immagine dell’individuazione. “Il processo di individuazione è la realizzazione empirica della totalità psichica” (Wolff, 1981: 133).

Mi rendo conto che, parlando di individuazione, posso aver dato l’idea che si tratti di un evento provvisto di una sua definita e definitiva concretezza. Questa sarebbe tuttavia una visione fuorviante, dal momento che anche il concetto di individuazione, come quello di tipologia, funziona meglio se lo si concepisce come grimaldello ermeneutico: l’individuazione è una prospettiva, una progressio ad infinitum nel corso della quale, passando attraverso la seconda e soprattutto la terza funzione, si perviene al cospetto della funzione meno differenziata, la cosiddetta funzione inferiore. Da questo punto di vista il percorso individuativo, che mi piace immaginare come una circumambulazione attorno al Sé, si configura come un faticoso opus contra naturam, laddove il cammino per realizzare l’adattamento è una marcia trionfale condotta dall’Io cavalcando la funzione dominante.
Nella vulgata junghiana, come è noto, l’adattamento alle norme collettive costituisce l’occupazione della prima metà della vita e l’individuazione, con il maggiore spazio accordato alla realtà psichica e spirituale, diviene l’obbiettivo della seconda metà della vita. Questo schema, non privo di un suo valore, ha il difetto di suggerire un’evoluzione lineare, mentre l’immagine di un movimento a spirale mi sembra più adatta a mantenere il gioco di rimandi tra adattamento e individuazione. Considerando la dialettica tra adattamento e individuazione, inoltre, il tipo si pone come un prezioso mediatore tra natura e cultura. Ci troviamo di fronte, difatti, ad una opposizione dialettica tra il “tipo naturale”, così come è definito nel decimo capitolo di Tipi psicologici, e quello che potremmo chiamare “tipo individuato” (a patto di non considerare il participio come sigillo definitivo). Vivere il proprio tipo in tutte le sue sfaccettature comporta sempre, come rilevavo sopra, una sfida nei confronti dei valori collettivi.

Natura e cultura; individui e collettivo; conscio e inconscio; adattamento e individuazione; estroversione e introversione; funzioni razionali e funzioni irrazionali; funzione dominante e funzione inferiore: sono tutte opposizioni fondamentali che si pongono all’interno di ogni tipo umano. Da tali tensioni oppositive scaturisce l’esperienza simbolica, frutto della compresenza creativa di tutte e quattro le funzioni e dell’intervento di quella che Jung chiamava funzione trascendente. Non siamo nel territorio del pensiero né in quello del pragmatismo ma in quell’area intermedia che è la psiche: tra esse in intellectu ed esse in re, dunque, “tertium datur”: esse in anima.

In una lettera del 1960, Jung scrive che il processo di individuazione “[…] ha luogo oggettivamente ed è questa esperienza che aiuta il paziente e non l’interpretazione […] dell’analista. La cosa migliore che l’analista possa fare è di non disturbare l’evoluzione naturale di questo processo”. Dal punto di vista tecnico, si potrebbe dire che l’analista eserciti una maieutica delle funzioni della coscienza, costellandone la differenziazione.
Indagare sulle proprie parti interne, individuando le coppie in tensione oppositiva, diventa allora a sua volta un’attività psichica. Così inteso, lo studio del tipo entra a far parte del percorso individuativo. Come conclusione a queste note, mi sembra assai pertinente il seguente passo di Jung: “In ultima analisi,noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la nostra vita è sprecata”.

Note:
[1] Contrariamente a Freud, Jung considera la libido energia psichica tout court, in qualche modo desessualizzandola; sull’evoluzione junghiana del concetto di libido si consumò l’insanabile dissidio col maestro

Luigi Turinese


In foto: "What's in a businessman's mind (Fiumicino Airport 2010)"


Riferimenti bibliografici
HILLMAN, J. (1975): Re-visione della psicologia, Adelphi, Milano 1983.
HILLMAN, J. (1996): Il codice dell’anima, Adelphi, Milano 1997.
JUNG, C. G. (1913): “Sulla questione dei tipi psicologici”, in Opere, volume 6, Bollati Boringhieri, Torino 1969.
JUNG, C. G. (1917/1943): “Psicologia dell’inconscio”, in Opere, volume 7, Bollati Boringhieri, Torino 1983.
JUNG, C. G. (1928): “L’io e l’inconscio”, in Opere, volume 7, Bollati Boringhieri, Torino 1983.
JUNG, C. G.: “Tipi psicologici”, (1921), in Opere, volume 6, Bollati Boringhieri, Torino 1969.
TREVI, M.: Adesione e distanza II. Una lettura critica dei “Tipi psicologici” di Jung, Melusina, Milano 1993.
TURINESE, L.: Biotipologia. L’analisi del tipo nella pratica medica, Tecniche Nuove, Milano 2006.
WOLFF, T.: Introduzione alla psicologia di Jung, (1981), Moretti&Vitali, Bergamo 1991.


Articolo apparso sulla rivista "Appunti di viaggio" n.114, Novembre 2010

1 commento:

Marina Salomone ha detto...

... un discorso interessantissimo!


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